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PATAÑJALI, IL SANSCRITO E IL LAVORO DI SQUADRA TRA PAṆḌITA E YOGIN





Ieri, su Facebook, ho avuto una gran bella discussione con alcuni dei più importanti sanscritisti italiani, Giulio Geymonat, Marcello Meli e Diego Manzi (vedi: https://www.facebook.com/PAOLOPROIETTIyogaealtrestranezze/posts/2301866119924408?comment_id=2306556839455336&notif_id=1571757404114705&notif_t=comment_mention&ref=notif). 

Sono fermamente convinto dell'impossibilità di comprendere lo Yoga senza una conoscenza non superficiale dell'Arte, della Cultura e della Storia dell'India e, visto che è impensabile - o comunque altamente improbabile - che in un'unica vita una  persona possa acquisire le competenze dell'Artista, dello Storico, del Filosofo, dello Yogin e del Linguista, sono altrettanto fermamente convinto della necessità di una collaborazione sempre più stretta tra esperti delle diverse discipline. 

La discussione di ieri  è stata per me la conferma della mia tesi: Yogin e Paṇḍita (termine col quale indico i docenti e i ricercatori di sanscrito, linguistica, storia della filosofia e delle religioni) dovrebbero lavorare gomito a gomito per far luce sul meraviglioso mondo dello Yoga e della Filosofia indiana, spesso avvolti dalla intrigante, ma a volte fuorviante, nebbiolina generata nell'ultimo secolo dalla cultura New Age e dalle pseudoscienze.

Il primo passo, secondo me, di questa, più che auspicabile, collaborazione dovrebbe essere l'interpretazione dei testi tradizionali.

Prendiamo gli Yoga Sūtra di Patañjali.
Alcune delle traduzioni più usate nelle scuole di yoga a me, haṭhayogin che mastica un po' di buddismo, fanno un po' storcere il naso.
Se è vero, come si legge nel Tirumantiram di Tirumular, che Patañjali era un "siddha yogi" è possibile  che alcuni dei termini che usa facciano parte del gergo tecnico dello yoga.

Ogni  arte ha un proprio "gergo tecnico", comprensibile solo agli adepti, in base al quale parole e frasi che nel linguaggio comune hanno un significato ne assumono un altro affatto differente: la parola francese "attitudes" ad esempio, nel linguaggio comune significa atteggiamenti, ma nella Danza indica un preciso passo che si esegue durante gli "adagi".
Se traducessi in italiano attitudes con "atteggiamenti", grammaticalmente non ci sarebbe da dire, ma dal punto di visto del danzatore non sarebbe corretto.

Lo Yoga, a parer mio, ha un proprio gergo tecnico esattamente come la Danza, la Pittura o il Calcio e alcune parole che per un filosofo o un linguista hanno un determinato significato ad un yogin potrebbe suonare completamente diverse.

Nel caso di Patañjali, la situazione è complicata dal fatto che, con ogni probabilità, fa uso sia del gergo tecnico dello Yoga sia della terminologia buddhista.

Non so se questo per alcuni suonerà come una novità, ma secondo me - e non solo - Patañjali con gli Yoga Sūtra si pone, probabilmente per criticarli, sull'onda degli insegnamenti di  Buddha, per cui, per poter comprendere davvero gli Yoga Sūtra  occorrerebbe innanzitutto tener conto della terminologia buddhista.
Per fare un esempio, prenderò il versetto 1.21 e, dopo aver riportatole traduzioni più accreditate, ne darò un'interpretazione da "haṭhayogin che mastica un po' di buddismo":


तीव्रसंवेगानामासन्नः ॥२१॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ
21

Ecco come lo traducono alcuni dei commentatori più autorevoli:
Hariharananda Aranya:
Yogins with intense ardor achieve concentration and the result there of quickly”.

I. K. Taimni:
“It (Samādhi) is nearest to those whose desire (for Samādhi) is intensely strong”.

Swami Satchidananda:
“To the keen and intent practitioner this [Samādhi] comes very quickly”.

Swami Prabhavananda:
“Success in yoga comes quickly to those who are intensely energetic”.

Swami Vivekananda:
“Success is speeded for the extremely energetic”.

Semplificando un po’ mi pare che concordino tutti con l’affermare che, secondo Patañjali, “più veloce si va prima si arriva” o meglio “più si lavora prima arrivano i risultati”.
Ma siamo sicuri che Patañjali si sia preso la briga di ammonire gli aspiranti yogin ad usare “l’olio di gomito”?
Possibile che i suoi insegnamenti siano allivello di “chi dorme non piglia pesci”? Vediamo cosa dicono i vocabolari:

Tīvra = “forte, severo, aspro, intenso”.
Saṁvegāna = “impetuoso, veemente, meraviglioso, terribile, shock emotivo”.
Āsanna = “vicino, nelle vicinanze, prossimità”[1].

In pratica, a quanto mi sembra di capire (ma potrei sbagliare) i maestri di cui sopra, hanno tradotto saṁvegāna con “successo”.
Certo, è possibile che ci siano delle regole grammaticali che non conosco, oppure che la parola assuma in certi ambiti un significato affatto diverso da quello suggerito dai vocabolari, ma, ad occhio, mi pare una forzatura, e le interpretazioni di Vivekananda, Prabhavananda, Satchidananda, Taimni e Hariharananda Aranya mi lasciano perplesso. 
Le perplessità aumentano se si fa riferimento alla letteratura buddhista. 

Nel buddhismo (ma anche nei Veda) la parola Pāli samvega è spesso usata per indicare un’esperienza estetica, lo shock o la meraviglia che si può provare percependo la bellezza di un'opera d'arte. In altri contesti indica “l’arretrare per la paura” o “il tremare per lo spavento”:

Gli uomini tremano (samvijante) al ruggito di un leone“.
(Atharva Veda VIII.7.15);

Gli uccelli tremano alla vista di un falco” (ibid. VI.21.6);

Una donna trema (samvijjati) e mostra agitazione (samvegam âpajjati) alla vista di suo padre”, e così fa un monaco che dimentica il Buddha (Majjhima Nikâya, I.186);

Gli esempi sono moltissimi:
Un buon cavallo consapevole della frusta è "infiammato e agitato" (âtâpino samvegino, Dhammapada 144), e come un cavallo viene "tagliato" dalla sferza, così l'uomo buono può essere "tormentato" (samvijjati) e “mostrare agitazione (samvega) alla vista della malattia o della morte”, e proprio a causa di tale agitazione potrà comprendere fisicamente la verità ultima (parama saccam, la "morale") (vedi: Anguttara Nikâya II.116).

Saṁvegāna è uno dei fondamenti dell’insegnamento buddhista, una delle “tecniche operative” che accompagnano il praticante sul sentiero dell’illuminazione.
Dice Buddha:

"Proclamerò la causa del mio sgomento (samvegam). Ho tremato (samvijitam mayâ) quando vidi popoli che si dimenavano come pesci quando gli stagni si prosciugano, quando vidi il conflitto dell'uomo con l'uomo e la malvagità che festeggia nei cuori degli uomini ".
(Sutta Nipâta, 935938).


Lo stimolo emotivo di temi dolorosi (saṁvegāna) nella pratica buddhista può essere evocato deliberatamente quando la volontà o la mente (citta) è fiacca. Il praticante viene allora stimolato (samvejeti) a meditare sugli Otto Temi Emotivi" (atthasamvegavatthûni, nascita, vecchiaia, malattia, morte, sofferenza…).

Nello stato di angoscia che ne deriva, “il praticante allora si rallegra con il ricordo del Buddha, della Legge Eterna e della Comunione dei Monaci, quando ha bisogno di tale esultanza "(Visuddhi Magga, 135).

Adesso facciamo una prova:
1.     Consideriamo che nel versetto precedente (1.20) Patañjali descrive le tappe di un particolare addestramento yogico, affine alle pratiche buddiste;
2.     Traduciamo saṁvegāna con “shock emotivo”;
3.      Usiamo le parole del Visuddhi Magga come glossa;

Secondo me il versetto 1.21 diverrà improvvisamente chiaro, assumendo una valenza ben diversa da quella che gli attribuiscono Vivekananda e i traduttori che a lui si sono ispirati:

1.21 “Un intenso (tīvra) shock emotivo (saṁvegānām) avvicina-(āsannaḥ)”.

[Quando la volontà o la mente (citta) è fiacca. Il praticante viene allora stimolato (samvejeti) a meditare sugli Otto Temi Emotivi" (atthasamvegavatthûni) (nascita, vecchiaia, malattia, morte, sofferenza…).
Nello stato di angoscia che ne deriva il praticante allora si rallegra con il ricordo del Buddha, della Legge Eterna e della Comunione dei Monaci, quando ha bisogno di tale esultanza].


Forse ho scritto delle stupidaggini, forse no, ma rimango convinto della necessità di una stretta collaborazione tra Yogin e Paṇḍita.
Che ne pensate amici sanscritisti?


[1] Vedi Rāmāyaṇa, dove āsanna viene usato anche nel senso di “realizzato, ottenuto”.
[2] उपगुरु  upaguru significa letteralmente “vicino al Guru”. Nella letteratura vedica e tantrica si parla di “Realizzazione” ottenute grazie a fulmini, animali, bastoni di bambù, pupazzi ecc.)

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