Insegnare yoga significa cercare
di instradare gli allievi in un percorso di conoscenza.
A prescindere dai titoli, dai
diplomi e dalle altre medaglie da apporre sul petto negli incontri pubblici e
nelle chiacchiere da salotto, l’insegnante/istruttore/maestro deve disporre,
oltre ad un bagaglio di esperienze e conoscenze, di ciò che viene definito
“qualificazione”.
La necessità dell’esperienza è
ovvia: se, ad esempio, non ho mai tentato di assumere la verticale sulla testa
come potrò mai riuscire ad insegnarla ad un allievo?
Posso aver letto decine di manuali
che insegnano a nuotare, ma se non ho mai fatto l’esperienza dell’acqua l’onda
dell’oceano mi annichilirà.
L’erudizione - quando è
accompagnata ovviamente dall’esperienza - è altrettanto necessaria perché darà
all’istruttore le parole per trasmettere l’esperienza e chiarirà, sia
all’allievo che a lui stesso, quali siano l’inizio del percorso, quali le tappe
intermedie e quale la meta stabilita.
Un erudito senza esperienza è come
una sorgente di acqua distillata: il gorgoglio delle acque – le parole – sarà
piacevole all’ascolto ma inutile per chi voglia dissetarsi.
Il praticante privo di erudizione
sarà come un esploratore senza bussola nel deserto: continuerà a girare in
cerchio.
In entrambi casi per
l’incomprensibile gioco della natura (लीला līlā) sia per l’erudito senza esperienza che per il praticante senza
erudizione è possibile che scocchi, casualmente, una scintilla e che si
ottengano risultati insperati[1],
ma in tutti i casi deve essere presente il fattore “Qualificazione”:
entrambi, istruttore e allievo, devono essere “qualificati”.
Credo che il concetto di
qualificazione sia assai difficile da comprendere.
In genere possiamo affermare che
la “qualificazione” rappresenta l’insieme degli strumenti, ovvero “i ferri del
mestiere” dello yogin.
Facciamo un esempio banale:
Se uno ha intenzione di rammendare
un calzino dovrà essere in possesso di ago, filo, ditale e uovo di legno.
Giusto?
Se non li ha è inutile che tenti di
rammendare.
In questo caso:
La pratica rappresenta l’azione
del rammendare;
La teoria il come e il perché si
rammenda;
La qualificazione gli strumenti
necessari.
Se uno ha l’ago, ma non il filo si
metterà alla ricerca di qualcuno che possa dargli il filo.
Se uno ha l’ago e il filo ma non
il ditale, rischierà di farsi male alle dita e quindi ci vorrà qualcuno che gli
dia il ditale.
Se gli manca l’uovo di legno potrà
comunque rammendare, ma rischierà di fare un lavoro imperfetto.
Per qualificazione nello yoga, si
intendono gli “strumenti di conoscenza”, strumenti che sono presenti, in parte
o completamente, sin dalla nascita.
Per tornare all'esempio del
rammendo, qualcuno nascerà con l’ago, altri con ago e filo altri ancora con
tutti e quattro gli strumenti.
L’insegnante dovrà essere in grado
di dare all'allievo gli strumenti di cui è carente, o magari, se questo li
possiede tutti e quattro ma ne è inconsapevole, dovrà mostrargli il cassetto in
cui sono stati dimenticati, ma se gli strumenti non sono già presenti, almeno
in parte, non potrà esserci nessuna trasmissione di conoscenza: esperienza ed
erudizione, in assenza di “qualificazione”, non sono sufficienti a formare uno
yogin né, tanto meno, un istruttore di yoga.
Questo significa che entrambi -
istruttore ed allievo –devono possedere in parte o completamente gli stessi
“strumenti di conoscenza”.
So che in quest’epoca un discorso
del genere è tutt'altro che popolare, ma - per fortuna o purtroppo - i fatti
sono questi:
in un certo senso uno nasce yogin,
esattamente come, in un certo senso, si nasce attori, danzatori, cantanti o
falegnami.
Tutti possono praticare yoga e
trarne dei benefici.
Non tutti possono insegnare yoga.
Nella società internettiana regna invece
la credenza che tutti possano fare tutto.
Tanto per fare un esempio,
moltissimi oggi credono di poter essere terapeuti e ci sono migliaia di corsi,
stage e seminari per insegnare a curare il prossimo trasformando ogni cosa in
uno strumento di guarigione: si cura con i mantra, con i gong, con le campane
tibetane, con la danza, con il teatro, con le costellazioni familiari...e - si
badi bene - in genere, non sono medici o psicoterapeuti a frequentare quei
corsi, stage o seminari, ma persone che nella vita quotidiana sono in altre
faccende affaccendate e, dopo 24, 100 o 200 ore di formazione cominciano a
curare gli altri ed a insegnare ad altri come si cura.
Conosco estetiste che curano i
mali dell’anima con le erbe ei fiori di Bach, ragionieri che “aprono i cakra”
con l’energia delle mani e dirigenti d’azienda che consigliano ad amici e
dipendenti degli “atti psico-magici” per guarire dai problemi esistenziali.
Niente di male ovviamente, ma il
buon senso comune è solitamente una voce più ascoltata delle mode del momento e
anche il più “new ager” dei consumatori, in presenza di un problema di salute
serio che colpisce la madre, ad esempio, finirà per rivolgersi ad un medico
“qualificato” così come il più new ager dei terapeuti olistici consiglierà, in
casi analoghi, di rivolgersi a strutture sanitarie tradizionali.
Con lo yoga, disciplina assai
complessa che necessita di una conoscenza non superficiale dell’anatomia, dello
āyurveda, nonché dell’arte, della filosofia e dell’astronomia indiana, per
qualche misterioso motivo, la voce del buon senso comune non viene solitamente
ascoltata.
Nella nostra società siamo teoricamente
tutti terapeuti, maghi e yogin, e quasi tutti, in base ad una serie di notizie
tratte da internet, pensiamo di riferirci alla tradizione indiana, tradizione
che, ironia della sorte, è solitamente basata sulla “qualificazione”, intesa
come riconoscimento di talenti innati.
Ma cosa è la qualificazione?
Sarà forse il frutto di vite
precedenti?
A quanto credo di aver capito né
la cultura vedica né il buddhismo delle origini credono nella reincarnazione,
nel senso che non è l’individuo che si reincarna ma il “karma”, concetto
–quello di karma - che forse, nonostante si possa pensare il contrario, non è
mai stato studiato approfonditamente in occidente.
Per lo yoga tradizionale – ovvero
per l’elaborazione medioevale del sapere vedico – la “persona umana” è frutto
dell’unione di due fattori, uno, diciamo terreno ed uno celeste.
Per fattore terreno potremmo
intendere il “plasma germinale” degli evoluzionisti del primo novecento, un
qualcosa che passa con il DNA di generazione in generazione arricchendosi, di
volta in volta, delle informazioni – engrammi -
relative alle esperienze dei nostri genitori, nonni, trisavoli.
Per fattore celeste potremmo
invece intendere i मरीचि marīci o “raggi
della creazione”, provenienti dalle stelle.
I marīci sono sono
“radianze stellari” che provengono dalle 27 “mansioni lunari”dell’astrologia
indiana, i नक्षत्र nakṣatra.
Da ogni nakṣatra provengono 13,3333…(tredici
e trentatré periodico) “raggi della creazione", per un totale di 360 raggi - uno
per ogni grado dell’Ellittica – che al momento della nascita “si nascondono”
sotto i sei cakra “fondamentali” in quest’ordine:
56 al mūlādhāra
cakra, il plesso del perineo;
62 allo svadhiṣṭhāna
cakra, plesso dei genitali;
52 al maṇipūra
cakra, plesso dell’ombelico;
54 allo anāhata cakra,
plesso del cuore;
72
al viśuddha cakra, plesso della gola;
64
allo ājñā cakra, plesso della fronte;
Di questi 360 raggi 252 restano
“silenti”, nel senso che sono come semi che possono germogliare in condizioni
particolari e 4 raggi per ciascuna delle 27 “mansioni lunari”, ovvero 108 - come
i 108 elementi della natura secondo gli antichi fisici indiani - attivano, per
così dire, le innate caratteristiche che riconosciamo in ogni persona: altezza,
colore della pelle, occhi, carattere, emozioni…fino al destino, un destino che
è in qualche modo sempre potenziale, nel senso che le energie provenienti dagli
astri sono opportunità – yoga – che possono essere colte o meno.
La combinazione di quello che
abbiamo chiamato “plasma germinale” (fattore terreno, identificabile con le
combinazioni delle 50 sillabe dell’alfabeto sanscrito inscritte nei petali del
cakra) e delle opportunità stabilite dai raggi della creazione al momento della
nascita, danno vita ad un “ente” assolutamente unico.
Nell'indefinita possibilità delle
combinazioni tra “plasma germinale” e “raggi della creazione” accade che alcuni
esseri umani abbiano delle caratteristiche molto simili ed identiche, ed alcune di queste
caratteristiche vengono identificate con i “talenti innati” o qualificazioni.
La qualificazione è in pratica una
opportunità di conoscenza.
Questa opportunità può condurre a
rivivere le esperienze fatte da persone vissute in un passato recente o remoto
e questo dà luogo ai concetti di reincarnazione, realizzazione e lignaggio (परंपर paraṃpara).
Se grazie alla pratica e
all’erudizione, attiverò determinati “semi dell’esperienza” - ovvero la
qualificazione – mi ritroverò nella stessa condizione psico fisica di un tizio
che, grazie alle medesime pratiche, lo stesso genere di erudizione e le stesse
qualificazioni ha attivato gli stessi “semi” cento, trecento o duemila anni
fa, verrò considerato, in India, una sua incarnazione.
Perciò che riguarda lo yoga le
esperienze sono gli stati denominati समाधि samādhi, stati collegati nello yoga “fisico” alla cosiddetta
“risalita di कुण्डलिनी kuṇḍalinī.
I samādhi sono eventi di profonda
trasformazione fisica e mentale che possono essere temporanei (सविकल्प savikalpa) o
“stabilizzati” (निर्विकल्प nirvikalpa).
Le
realizzazioni, sia temporanee che permanenti sono legate a esperienze fatte nel
passato da praticanti “che possedevano le medesime qualificazioni”;
se ad
esempio raggiungo il medesimo stato psico fisico di un maestro del lignaggio
degli yogi o “jogi” nath – compresi i particolari poteri psichici o सिद्धि siddhi il cui
insorgere nello yoga viene considerato come parte integrante del percorso - verrò considerato incarnazione parziale o
completa di tale maestro, per cui prenderò il nome di Śiva – nome attribuito
primo maestro del lignaggio nath - o Gorakh - terzo maestro del lignaggio – o
Gopichand – nono maestro del lignaggio – ecc. ecc.
Questo non
significa che “io” sia “quello “Śiva” lì, ma che ho colto le opportunità
concesse da una particolare combinazione di “fattori terreni” e “fattori
celesti” creatasi casualmente al momento della mia nascita.
La
realizzazione più alta, che porta al riconoscimento della condizione di बुद्ध buddha, जीवन्मुक्त jīvanmukta
o, nel caso di guerrieri e politici, di चक्रवर्तिन् cakravartin, consiste nello sfruttare le opportunità date al
praticante da una particolare configurazione astrale – il fattore celeste –
chiamata राज योग rāja
yoga, o “asterismo del Re”, parola che nello yoga medioevale indica la
realizzazione suprema intesa come piena realizzazione delle qualificazioni[2].
I politici, i guerrieri e gli
yogin che hanno realizzano la loro “qualificazione” al rāja yoga sono
riconoscibili, solitamente, da un particolare segno sulla fronte detto राजि तिलक rāji
tilaka, una linea rossa verticale disegnata sulla fronte.
La realizzazione intesa come il
conseguimento di una perfezione in uno o più dei rami dell’esperienza umana o
come il conseguimento di uno stato di ineffabile e duratura beatitudine o come
il conseguimento di una conoscenza teoricamente infinita non è certo un
concetto limitato allo yoga.
Quasi tutte le arti, le filosofie
e le religioni parlano di stati simili e parlano anche di fenomeni insoliti –
super-umani o extraumani secondo il cristianesimo – che accompagnano il
conseguimento delle “perfezioni”.
Le “perfezioni” – o siddhi - si
dice possano essere acquisite in varia maniera, anche per un improvviso evento
naturale, per cui non è assolutamente necessario praticare yoga per aspirare
alla realizzazione, parziale o completa che sia, ma se si imbocca la via dello
yoga e – soprattutto – se si aspira ad insegnarlo, sarebbe opportuno sapere che
per gli indiani lo yoga, nonostante lo si leghi spesso alla religiosità e al
misticismo - è una scienza ed il percorso che deve portare alla realizzazione
delle qualificazioni è scandito da tappe assai precise.
Se vogliamo insegnare yoga le cose
principali di cui tener conto –oltre ovviamente alla pratica costante e
all'erudizione – sono:
1. La necessità di insegnare solo ciò
che si è realizzato;
2. La Qualificazione, nostra e
degli allievi.
“La necessità di insegnare solo
ciò che di cui si ha esperienza” fa parte dei preziosissimi insegnamenti
provenienti dal buon senso comune.
Supponiamo che io decida di insegnare yoga
come tecnica per la salute, la bellezza e la longevità: è ovvio che dovrò aver
sperimentato per primo, su di me le pratiche che propongo agli allievi e che
affermo siano utili per prevenire le malattie e donare elasticità, agilità e
forza al corpo.
Se per esempio insegno che una
determinata tecnica di प्राणायाम prāṇāyāma
favorisce il sonno e poi, per dormire, devo ricorrere all'aiuto di sostanze sintetiche
o naturali di vario genere, oppure insegno che un determinato आसन āsana
aumenta la potenza virile e poi per onorare i doveri coniugali devo far uso
della chimica, significa che c’è qualcosa che non va, e forse dovrei
ricominciare ad affrontare lo yoga esclusivamente da allievo.
Si tratta di buon senso comune: si
può insegnare solo ciò di cui si è fatta esperienza, e bisogna avere l’erudizione
necessaria per inserire quella esperienza nell'ambito della filosofia indiana,
di cui lo yoga fa indubbiamente parte.
Il discorso della qualificazione è
indubbiamente più complesso, perché, secondo lo yoga, si diviene coscienti
della propria qualificazione e di quella degli allievi solo tramite dei
“riconoscimenti” che esulano dalla sfera razionale.
Non stiamo parlando di eventi
paranormali o di interventi di entità aliena, ma di una serie di processi
psicofisici simili a quelli che si sperimentano nell'amore a prima vista, o
dell’insensata beatitudine provata di fronte ad un tramonto o ad un’opera
d’arte.
Il riconoscimento della
Qualificazione, sia dell’insegnante che dell’allievo a cui si decide di dare
l’istruzione, non passa dalla mente raziocinante, o Manas, ma “proviene” dalla
cosiddetta “mente intuitiva” o Buddhi, e quindi risulta estraneo alla nostra
normale modalità "pensativa", intesa come capacità di elaborare gli stimoli
esterni sulla base di esperienze personale o di schemi culturali.
Visto che l’immagine che abbiamo
del mondo è data dalle elaborazioni di manas, ciò che “bypassa” manas avrà le
caratteristiche di “sogno”, “magia”, “coincidenza significativa” ecc. ecc. ma
non per questo, secondo gli insegnamenti dello yoga, esulerà dal novero delle
esperienze umane.
Per comprendere ciò che stiamo
dicendo dobbiamo rifarci agli insegnamenti tradizionali.
Buddhi e Manas, insieme agli
organi di percezione e di azione, per lo yoga fanno parte di अन्तःकरण antaḥkaraṇa
o “organo interno”, ovvero l’insieme di tutto ciò che chiamiamo interiorità,
personalità, mente, inconscio ecc.
Buddhi nel Vedāntasāra di
Sadānanda (versetto 65) - uno dei testi fondamentali dell’Advaita Vedanta -
viene descritta in questo modo:
Bhuddir nāma
niścayātmiantaḥkaraṇavṛttiḥ
Ovvero: “La specializzazione (vṛttiḥ)
dell'organo interno (antaḥkaraṇa) caratterizzata (ātmika) dalla certezza
(niścaya) si chiama (nāma) Buddhi. “[3]
In altre parole per la filosofia
indiana Buddhi non è niente di “sostanziale”, non è un qualcosa che ha
un'esistenza a se stante, ma è solo la modalità operativa di un qualcosa che
viene definito “organo interno” o “strumento interno” o “mente” o cuore.
Manas invece viene descritto in
questo modo:
Mano nāma saṃkalpavikalpātmiantaḥkaraṇavṛttiḥ
Ovvero: “La specializzazione (vṛttiḥ)
dell'organo interno (antaḥkaraṇa) caratterizzata (ātmika) dalla scelta
(vikalpa) e dalla volontà (saṃkalpa) si chiama (nāma) Manas.”
Buddhi e manas sono due diverse
funzioni del cosiddetto “organo Interno” dell’essere umano: il campo di
pertinenza della prima - buddhi - è
quello dei tanmātra, o elementi sottili[4],
mentre il campo di pertinenza del secondo – manas – è quello dei mahābhūta
o elementi grossolani[5].
Questo se si tiene conto della
manifestazione secondo il Sāṅkhya
significa che - buddhi ha carattere “oggettivo” o “universale”, mentre manas ha
carattere “soggettivo” o “individuale”.
Per chiarire
rivediamo brevemente l’enumerazione Sāṅkhya:
Prakṛti detto anche Mūla (“radice”);
Buddhi detto anche Mahat;
Ahaṅkāra, senso dell'io;
Qualità auditiva
o sonora; (śabda);
Qualità della
tangibilità (sparśa);
Qualità della
visibilità (rūpa);
Sapidità (rasa);
Qualità olfattiva
(gandha);
Gli orecchi o
l’udito (śrotra);
La pelle e il
tatto (tvak);
Gli occhi o la
vista (cakṣus);
La lingua od il
gusto (jihvā);
Il naso o
l’odorato (ghrāṇa);
Gli organi di
escrezione (pāyu);
Gli organi
generatori (upastha);
Le mani (pāṇi);
I piedi (pāda);
La voce, la
parola/gola (vāc);
Manas o senso interno;
Etere (ākāśa);
Aria (vāyu);
Fuoco (tejas);
Acqua (ap);
Terra (pṛthivī);
Puruṣa.
Manas viene a “formarsi” dopo la “generazione”
del principio di individualità e degli organi di senso e azione, mentre buddhi
è la prima determinazione della “radice” o “sostanza universale”, Prakṛti.
Manas quindi conoscerà per “confronto”,
ovvero userà la personalità, le esperienze soggettive e l’insieme delle facoltà
fisiche e fisiche individuali come “pietra di paragone per conoscere la realtà
esterna, mentre buddhi sarà conoscenza senza confronto, in un certo senso
conoscenza diretta.
Come abbiamo già detto ciò che
“bypassa” manas –ovvero proviene dallo strumento di conoscenza buddhi – avrà per
l’individuo le caratteristiche di “sogno”, “magia”, “coincidenza significativa”
ecc. ecc.
Il “riconoscimento della
qualificazione”, così come l’amore a prima vista o lo shock emotivo dato dalla
contemplazione della bellezza - o al contrario dalla percezione del vuoto,
della morte e della caducità della natura umana – provengono da buddhi e
vengono portati alla luce della coscienza nella stessa maniera, ovvero sono
accompagnati da un’aura di irrevocabilità e inequivocabilità che induce nell'individuo
il senso dell’impotenza e dell’annichilimento.
Nell'individuo equilibrato - naturalmente o perché addestrato alla
meditazione e alla “percezione della vacuità” o perché in possesso di strumenti
provenienti da altre discipline e filosofie - questo genere di sensazioni non
mediate dalla mente razionale – manas – vengono percepite come “informazioni”
che arricchiscono e integrano la propria idea dell’esistenza.
Nell’individuo non equilibrato si
innesterà un processo di autodifesa che porterà a due conseguenze eguali e
contrarie: da un lato la fede cieca dall'altro il rifugiarsi in schemi
razionali artificiosi che lo allontaneranno, inevitabilmente, dallo stato
naturale.
Entrambi i processi di autodifesa
sono accompagnati da una forma di piacere e auto-soddisfazione simile, ma non
identica, a quella derivante dalle esperienze del samādhi, e da questo
potranno scaturire meccanismi perversi con conseguenze negative, a volte, per
la comunità: sia la fede cieca sia la costruzione di architetture artificiali
tendono infatti a sostituirsi alla realtà oggettiva, costruendo uno schema
della manifestazione falso o illusorio chiamato a volte, maya o māyā.
La comprensione del processo con
cui agiscono- secondo lo yoga - manas e buddhi, implica la conoscenza di un
altro “principio della manifestazione, denominato चित्त citta. Se prendiamo
come riferimento ancora il Vedāntasāra di Sadānanda (versetti 66 e seguenti)
scopriremo che citta è “anusandhānātmikāntaḥkaraṇavṛttiḥ”, ovvero:
Citta - che viene collegato all'elemento
Acqua, così come buddhi e manas vengono collegati rispettivamente a Fuoco e
Aria – è in realtà un bacino o meglio un lago di informazioni.
In superficie ci sono le
informazioni “soggettive” provenienti dalle esperienze fatte dall'individuo
durante la vita, ovvero ciò che ha appreso, mentre in profondità ci sono le informazioni
“generali” che potremmo definire “memoria genetica” e/o “inconscio collettivo”.
Manas permette di conoscere la
realtà esterna confrontando gli stimoli esterni con le informazioni “soggettive”
o superficiali, mentre buddhi attinge dalle informazioni “oggettive” o “generali”,
ovvero dalla “memoria genetica.
Il riconoscimento della “qualificazione”
è un processo in cui vengono portate alla luce della conoscenza informazioni
che non proverrebbero dalle esperienze terrene di un individuo, ma dalla
evoluzione, ovvero dalle esperienze dei suoi genitori, nonni, trisavoli e di
coloro che, per caso si sono trovati a poter sfruttare le medesime opportunità
(yoga) date dalla combinazione di materiale genetico (fattore terreno) e
configurazioni astrali (fattore celeste).
Nello yoga il lignaggio (परंपर paraṃpara)
non dipende da diritti di nascita né dalle iniziazioni date da questo o quel
maestro, ma dal “riconoscimento” un processo non mediato dalla mente razionale,
che avviene secondo modalità simili all'innamoramento o allo shock emotivo che
proviene da una forte esperienza estetica.
Quando il maestro dà l’iniziazione
ad un discepolo, in realtà lo ha già “riconosciuto” nel senso che ha compreso
che quel particolare discepolo è in possesso, in parte o completamente, dei
medesimi strumenti – qualificazione – che lo hanno portato – il maestro - alla “maestria”
in una particolare tecnica o stile o disciplina.
Il discepolo, in altre parole –
per riprendere l’esempio iniziale - già è in possesso di ago, filo, ditale e uovo di legno e il
maestro, durante l’iniziazione, non crea niente di nuovo, non dona niente, ma,
semplicemente, gli dice: - “Guardati in tasca: troverai ago, filo, ditale e
uovo di legno. Non sapevi di averli, ma ora lo sai, quindi posso insegnarti a
rammendare un calzino” –
A sua volta il maestro – o istruttore
o insegnante – avrà avuto qualcuno o qualcosa –anche gli eventi naturali o gli
oggetti, come il fantoccio di Bhisma, possono rivelare la qualificazione – che gli
avrà mostrato gli strumenti del mestiere - ovvero la qualificazione – e lo avrà
quindi portato ad acquisire la “maestria” in una particolare tecnica o stile
o disciplina.
Mi rendo conto che ciò di cui si
sta parlando non è di immediata comprensione, ma la filosofia che sta dietro
allo yoga non è di immediata comprensione.
Lo yoga è una scienza e
bisognerebbe approcciarlo come in occidente si approcciano la musica, la fisica
o la medicina.
L’algebra non è di facile
comprensione, ma se voglio insegnare fisica dovrò spaccarmi la testa sulle
equazioni di secondo grado fino a padroneggiarle. Giusto?
Ma lasciamo perdere i concetti
complicati – complicati per chi non ha studiato la filosofia indiana – e andiamo sul
pratico:
1. Per insegnare yoga occorrerebbe
essere qualificati e la qualificazione non dipende esclusivamente dai diplomi
che conseguo o dalle iniziazioni ricevute – i tibetani ad esempio ne danno un
tanto al chilo – ma da qualcosa di non tangibile e non comprensibile
razionalmente che scaturisce da un evento, a volte casuale, che ti fa “sentire
a casa”.
2. Se è vero che non si finisce mai
di imparare è anche vero che un insegnante di yoga deve possedere una “maestria”,
ovvero deve padroneggiare completamente una tecnica, stile o disciplina.
Padroneggiare una tecnica non
significa sapere alla perfezione, ad esempio i nomi, le controindicazioni e i
benefici di un āsana, ma “essere” quell’āsana, ovvero aver “vissuto”
e integrato tutte le implicazioni fisiche, energetiche e simboliche di quell’āsana.
Solo così potrà trasmetterla agli
allievi.
La qualificazione di un insegnate
di yoga si evince dalla “qualità”.
Nel movimento avrà una particolare
qualità, una particolare eleganza.
Nel praticare i mantra riuscirà a
trasmettere qualcosa di ineffabile, ma inequivocabile.
Nello spiegare le scritture non
sarà un “ripetitore di cose lette sui libri”, ma avrà un modo personale e “pieno”
di trasmetterle perché, ad esempio, la sua comprensione di un versetto sarà completa
e immediata.
Chi ha in potenza le medesime
qualificazioni si accorgerà immediatamente di questa particolare qualità e
questo condurrà al riconoscimento.
Non importa quale disciplina o
tecnica o posizione si padroneggi, l’importante è padroneggiarla una.
Una volta che si sia acquisita la
maestria in una particolare tecnica o pratica si potrà portare la “qualità” in
tutte le altre e si potranno aiutare gli allievi a perseguire la maestria in
altre tecniche o pratica.
Il discorso alla fine è più
semplice di ciò che possa apparire dalla lettura di questo lungo post: il
maestro deve avere la maestria, se no che maestro è?
[1] Per fare
un esempio personale ho imparato più cose sullo haṭhayoga con il mio antico
istruttore di advaita vedānta, Bodhananda Premadharma - tendente all’obesità e completamente
disinteressato alla parte “fisica” dello yoga – che nella mia precedente
pluridecennale esperienza di lavoro sul corpo
[2] Sarà
Vivekananda nel 1896 ad indicare con “raja
Yoga” un particolare stile di yoga.
[3] वृत्तिः vṛttiḥ letteralmente significa
"professionista". Un lavoratore dello spettacolo, un attore che
recita per mestiere, per esempio, è vṛttiḥ.
Vṛtti tradotto spesso con
"modificazione" significa atteggiamento, ruolo, modo di vivere, stile
di vita, professione.
Antaḥkaraṇa è
un termine per così dire tecnico che significa organo interno, interiorità,
cuore, mente. Ed è formato da अन्तः
antaḥ che significa interno, dentro, e करण karaṇa che significa operazione,
strumento, attività.
आत्मिक
ātmika significa "basato su...", "caratterizzato da...”.
निश्चय
niścaya significa certezza, deliberazione, decisione, conclusione.
नाम nāma significa sia nome che "sta per...",
"vuol dire...”
[4] I Cinque
tanmātra sono:
Qualità auditiva o sonora; (śabda);
Qualità della tangibilità (sparśa);
Qualità della visibilità (rūpa);
Sapidità (rasa);
Qualità olfattiva (gandha).
Etere (ākāśa);
Aria (vāyu);
Fuoco (tejas);
Acqua (ap);
Terra (pṛthivī).
[6] अनुसन्धाना anusandhānā
significa “investigazione”, “fare un inchiesta accurata tra ciò che è
conosciuto”.
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