LA FISIOLOGIA SOTTILE DELLO ṢAḌAṄGAYOGA
Il
praticante di Ṣaḍaṅgayoga deve essere in grado di far circolare
l’energia nei canali e nei plessi che fanno parte del cosiddetto “corpo
sottile”.
Nei testi si parla, in genere
di 72.000 canali - nāḍī - che conducono il soffio vitale - prāṇa
– in tutte le parti del corpo.
I canali più importanti sono
sei: tre sopra la “ruota dell’ombelico” e tre, che rappresentano delle
modificazioni dei tre superiori, nella zona sotto l’ombelico.
Il primo -
chiamato avadhūtī, khagamukhā, suṣumṇā o taminī (“la
tenebrosa”) - parte dalla fontanella anteriore e scende lungo la colonna
vertebrale fino all’altezza dell’ombelico dove piegandosi a destra, dà luogo ad
un altro canale – considerato una modificazione del canale centrale – chiamato śaṅkhinī,
che svolge la funzione di emissione del seme.
Lungo questo canale centrale (formato in
realtà dal canale mediano superiore e dal canale di destra inferiore) sono
situati sei plessi energetici – cakra – da cui si diramano altri canali,
considerati petali (dala), che raggiungono il numero totale di 156.
Il primo cakra – dal basso – è nella zona dei genitali.
Secondo la dottrina del Kālacakratantra è di colore
azzurro (verde in altri tradizioni) ed ha 32 petali.
Il secondo è nella zona dell’ombelico, è di colore
giallo ed ha 64 petali.
Il terzo è nella zona del cuore, è nero (blu secondo
altre tradizioni) ed ha 8 petali.
Il quarto è nella gola, è rosso ed ha 32 petali (16
secondo altre tradizioni).
Il quinto è nella zona della fronte, sopra le
sopracciglia; è bianco ed ha 16 petali (32 secondo altre tradizioni).
Il sesto è nella parte più alta del cranio (nel
buddhismo uṣṇīṣa o “ciuffo di Buddha”), è
verde ed ha 4 petali.
A sinistra e a destra del canale centrale – nella zona sopra l’ombelico, ci
sono altri due canali, chiamati lalanā - iḍā - e rasanā
- piṅgalā che si avvolgono intorno ai cakra. In questi canali associati
al Sole – canale di destra – e alla Luna – canale di sinistra – circola il
soffio vitale durante l’inspiro e l’espiro.
I tre canali
fondamentali - avadhūtī, lalanā e rasanā - al cakra dell’ombelico si intrecciano, formando un
nodo, quindi scendono verso il basso cambiando posizione:
Avadhūtī, che in alto
si trovava al centro, in basso è posizionato a destra e, con il nome di śaṅkhinī,
svolge la funzione dell’emissione del seme;
Lalanā, che si
trovava a sinistra, si trova adesso al centro e svolge la funzione
dell’escrezione delle feci;
Rasanā, che si
trovava a destra, si trova adesso a sinistra
e svolge la funzione di escrezione dell’urina.
Al di sopra
dell’ombelico il “soffio vitale” che scorre nei tre canali principali viene
definito prāṇa, al di sotto dell’ombelico prende il nome di apāna.
Lo scopo della pratica dello
yoga è quello di arrestare (nirudh-) la circolazione del “soffio vitale”
nei canali laterali – del Sole e della Luna – per convogliarlo nel canale
centrale, detto avadhūtī.
Questo processo – l’arresto
del soffio nei canali del Sole e della Luna – viene paragonato alle eclissi,
ragion per cui il canale mediano viene associato al “nodo settentrionale della
Luna”, Rāhu – considerato responsabile, appunto, delle eclissi - e prende il nome di taminī, “la
Tenebrosa”.
Per provocare “l’eclissi di
Sole e Luna” lo yogin pratica il prāṇāyāma, o “controllo
del soffio”, variando la direzione, l’intensità e la durata di tre fasi
associate ai tre momenti respiratori, ovvero:
Pūraka,
kumbhaka
e recaka,
sono simboleggiati dalle sillabe OṂ, ĀḤ e HŪṂ, la cui recitazione, detta vajrajāpa
o “recitazione del diamante” viene identificata con il prāṇāyāma stesso.
Nella teoria del kālacakratantra, il soffio vitale è il “veicolo”
della mente, per cui “dal controllo del soffio si ottiene il controllo della
mente”.
Dal controllo della mente a sua volta deriva il controllo del seme definito
bindu (in tibetano thig le).
Il bindu, definito anche bodhicitta – “pensiero del
risveglio” o “mente del risveglio” – risiede nella parte più alta del cranio,
la fontanella posteriore chiamata nello yoga buddhista, come abbiamo già detto,
uṣṇīṣa.
Una volta attivato il
desiderio sessuale, il bindu cola lungo il canale centrale, per
arrivare, al glande del pene detto “gemma del vajra” o vajrāgra.
In questo percorso discendente penetra in tutti i centri energetici – cakra
– assumendo, in quattro di essi, caratteristiche e nomi diversi:
-
Alla gola diviene
conoscenza, jñāna;
-
Al cuore diviene
mente/memoria, citta;
-
All’ombelico diviene parola, vac;
-
Ai genitali diviene
corpo, kaya.
Jñāna, citta, vac e kaya vengono considerati quattro semi – bindu – diversi,
che, durante la fase detta di “concentrazione” o “ritenzione” - dharana
– devono essere “fissati” nei rispettivi cakra.
Lo “scioglimento” del seme è causato dal “fuoco del
desiderio” - kāmāgni - che giace nell’ombelico sotto forma di una
giovane donna di bassa casta - caṇḍālī - chiamata in tibetano Gtum mo o “Fiera dama”.
Caṇḍālī,
rappresentata talvolta come una giovane vedova seduta sulla riva di un
fiume (il canale mediano) in un certo senso è un energia che viene attivata
“per risonanza” dalla presenza fisica di una yoginī, oppure da
un’immagine che ritrae una donna – da sola o intenta a far l’amore con il
partner -o da un immagine visualizzata[1].
Spesso con
il termine Caṇḍālī si indica anche il canale mediano,
“vivificato” dall’energia femminile pura.
“Caṇḍālī”
- si legge nell’Hevajratantra – “s’infiamma nell’ombelico, e brucia i
cinque Tathāgata, brucia Locan ā ecc. e, bruciatili, la luna, cioè il suono
HAṂ, comincia a fluire”.[2]
Dove per Tathāgata
si intendono i cinque elementi, “Locanā ecc.” sono i cinque sensi e
gli oggetti di percezione, mentre il verbo bruciare deve essere inteso nel
senso di “ridurre ad uno stato di non azione”.
Il seme,
disciolto grazie all’energia del desiderio, come si è detto, comincia a colare
lungo il canale mediano facendo sperimentare al praticante quattro diverse
condizioni di piacere o ānanda, ognuna delle quali è, a sua volta,
suddivisa in quattro gradi definiti “piacere del corpo”, “piacere della voce”,
“piacere della mente” e “piacere della conoscenza”:
-
Il primo piacere è detto prathamānanda – “godimento
iniziale” - e corrisponde alla discesa del seme dalla fontanella al
punto in mezzo alle sopracciglia;
-
Il secondo piacere è detto paramānanda – “sommo
godimento” – e corrisponde alla discesa del seme dal centro della gola a quello
del cuore;
-
Il terzo piacere è detto viramānanda o
vivindharamaṇānanda – “godimento dalle molte forme” – e corrisponde alla
discesa del seme dall’ombelico al centro dei genitali;
-
Il quarto piacere è detto sahajānanda – “godimento
innato” o “godimento dello stato naturale” - e si sperimenta sul glande al
momento dell’emissione.
Alla fine
del processo di discesa del seme – caratterizzato da rāga inteso qui
come “emozione del desiderio sessuale” - si ha un processo
inverso detto virāga – “sazietà” – in cui il praticante sperimenta a
ritroso il percorso precedente – ovvero sahajānanda, viramānanda,
paramānanda, prathamānanda - fino ad arrivare ad uno stato di totale
assenza di desiderio detto naṣṭacandra o “assenza della Luna” che
indica la cosiddetta Luna nera, fase finale della Luna calante.
L’uso del
termine naṣṭacandra ci rivela che il percorso discendente e ascendente
del desiderio corrisponde alle sedici fasi della Luna. Nel percorso discendente infatti:
-
Il “primo godimento” - prathamānanda – diviso in
quattro gradi - piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere della mente”
e “piacere della conoscenza” - coincide con il primo quarto della Luna
crescente;
-
Il “secondo godimento” - paramānanda – con i suoi
quattro gradi coincide con il secondo quarto della Luna crescente;
-
Il “terzo godimento” - viramānanda – con i suoi
quattro gradi coincide con il terzo grado della luna crescente;
-
Il “quarto godimento” - sahajānanda –con i suoi
quattro gradi coincide con l’ultimo grado della Luna crescente.
Con
l’orgasmo, ovvero il plenilunio, ha termine la “quindicina chiara” o
“quindicina del desiderio sessuale” - ovvero il periodo di Luna crescente
- ed ha inizio la “quindicina scura” o
“quindicina del non desiderio sessuale” – ovvero periodo di luna calante - che
nel percorso a ritroso, a partire dal plenilunio, passerà tutte le fasi
precedenti fino ad arrivare alla fase della “assenza di Luna” – naṣṭacandra
– o Luna nera, uguale e contraria al plenilunio.
L’insieme
del due quindicine costituisce il Saṃsāra;
Per nirvāṇa con base – prathiṣṭita – si intende l’orgasmo ordinario;
Per nirvāṇa senza base – aprathiṣṭita –si intende l’orgasmo della mente conseguente alla
risalita dell’essenza del seme che avviene durante la pratica yogica;
Visto che
ciò che viene definito saṃsāra è il continuo alternarsi dei due
periodi – quindicina del desiderio e quindicina del non desiderio – lo yogin
per interrompere questo processo “naturale” dovrà cercare di eliminare la
“quindicina scura” ovvero la fase di assenza del desiderio sessuale.
Immaginiamo
che il desiderio crescente sia un liquido bianco e il desiderio decrescente un
liquido nero.
Se nella
fase crescente il liquido bianco, dapprima in quiete nel punto più alto della
testa, scende sempre più velocemente fino ad uscire dalla punta del pene
(plenilunio), nella fase discendente il liquido nero – l’assenza del desiderio
– salirà sempre più velocemente fino a riempire il punto più alto della testa
(Luna nera).
Per
invertire il processo naturale lo yogin dovrà controllare la fuoriuscita dell’essenza
del seme – bodhicitta – e farla risalire lungo il canale centrale in
luogo del liquido nero ovvero della “assenza di desiderio”.
Nel kālacakratantra
lo scioglimento del seme a fini yogici – e non quindi a fini di
riproduzione o di ricerca del piacere – è definito “yoga del bindu”,
mentre la sua risalita è definita sūkṣmayoga o “yoga sottile”.
La risalita del seme - sūkṣmayoga
- avviene in quattro momenti distinti, vere e proprie operazioni alchemiche
che avvengono nei centri dell’ombelico, del cuore, della gola e, infine, della
testa:
1.
Niḥsyanda, emanazione (ombelico);
2.
Vipāka,
maturazione (cuore);
3.
Puruṣakāra, attività (gola;
4.
Vaimalya,
purezza (testa).
Questi quattro momenti sono
accompagnati dai “canti delle dee”, con cui si indicano sia i canti reali
eseguiti dalle yoginī che partecipano ai riti, sia i suoni interiori,
di vario genere, percepiti dal praticante durante lo stato meditativo.
Durante la pratica dello “yoga
del bindu” e dello “yoga sottile” il vajra del praticante deve essere
mantenuto costantemente in erezione grazie alla presenza –fisica o visualizzata
- della yoginī.
Questo
processo è descritto chiaramente nei versi del Mūlakālacakratantra un
testo oggi perduto, ma citato in molti commentari del Kālacakratantra[3]:
“Fissato che abbia il vajra
nel loto, egli dovrà applicare il soffio vitale ai bindu, i bindu ai vari
centri e [infine] arrestare il movimento dei bindu nel vajra.”
“Lo yogin dovrà stare sempre
in erezione, dovrà avere il seme rivolto verso l’alto e, grazie all’unione con
la mudrā, sarà visitato [N.d.A. avrà visioni di esseri divini] […] e […]
diverrà vajrasattva in persona”.
L’arrivo del seme al centro della
testa coincide con l’interruzione della circolazione del soffio nei due canali
laterali (Sole e Luna) e questo porterà al progressivo rallentarsi delle fasi
respiratorie fino all’ottenimento di una apnea spontanea. Questa progressiva
soppressione degli atti respiratori - come dice Abhinavagupta nel Tantrāsara
– conduce al “divoramento del tempo” che molti identificano con la
realizzazione finale (o comunque con un indizio della realizzazione).
La soppressione di un atto
respiratorio durante la pratica tantrica corrisponde ad un istante di “godimento
supremo”; Dopo un certo numero di questi istanti – 1800 secondo il Kālacakra
– permette di entrare in una serie di terre spirituali dette bhumi – probabilmente
da intendersi come particolari stati di coscienza - che sono da considerarsi
luoghi fisici, disposti, in corrispondenza dei vari cakra. Le terre spirituali
vanno “esplorate” progressivamente, dal cakra dei genitali sino alla
fontanella, ed ogni tappa è scandita da un numero progressivamente più elevato
di sospensioni di atti respiratori e, quindi di istanti di beatitudine.
Alla fine
dell’intero percorso, avverrà una trasformazione completa del corpo fisico, che
prenderà il nome di “corpo di conoscenza”, o Jñānadeha.
[1] È bene a proposito fare delle precisazioni:
Nei testi tantrici non si fa menzione di tecniche analoga per attivare caṇḍālī nelle donne, ma si
accenna a tecniche di autoerotismo e a “danze serpentine” che insorgono
spontaneamente (Vedi. Drimé
Kunga,“The Life and Visions of Yeshé
Tsogyal: The Autobiography of the Wisdom Queen”, Snow Lion Publisher (2017). ISBN- 10 1611804345) il che, secondo noi, significa che per le concezioni
tantriche la yoginī ha in sé una capacità di attivare naturalmente e di
utilizzare le energie del desiderio.
L’uso del termine del
caṇḍālī - che indica propriamente una donna appartenente alle caste più
basse -viene di solito spiegato con la necessità del tantrico di andare oltre i
principi del bene e del male, del puro e dell’impuro ecc. L’appartenenza delle
più importanti maestre tantriche – come Yeshe Tsogyal, Ma gcig Lab sgron e
Nigumā - alle classi abbienti e il loro essere donne di altissima preparazione
culturale lascia intravedere nell’uso termine caṇḍālī, più che
l’indicazione di una determinata provenienza sociale, la capacità di
abbandonarsi ad istinti, tra virgolette, “bassi” e di compiere azioni e
assumere posizioni che, allora come oggi, in certi ambiti vendono considerate
“squalificanti”.
[2] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero
Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 71. Biblioteca Orientale 1. Adelphi
1994).
[3] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero
Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 75. Biblioteca
Orientale 1. Adelphi 1994).
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