I versi dei Veda, dei Purāṇa, del Mahabharata sono poesia e scienza insieme, il che può forse apparire strano per noi abituati, erroneamente, a pensare che la scienza sia una roba fredda, razionale in antitesi con la passione creativa dell'artista. La poesia è rivelazione e può permettersi, oggi come cinquemila anni fa, di viaggiare oltre i confini della logica, in quegli spazi infiniti ai quali la mente, attonita, non può che arrendersi. Una delle immagini poetiche più ricorrenti nei testi vedici è quella del Cigno [1] immerso in un fiume o in un Oceano di latte (vedi ad esempio Atharva Veda, XI,4,21 ). Significa tante cose il Cigno: è una delle costellazioni più luminose della Via Lattea (l'Oceano di Latte!), sicuro riferimento per gli antichi naviganti; è un asana dello Haṭhayoga; è l'uomo universale (il “Puruṣā”) ed è il Brahmān, l’Assoluto. Ma è anche la paura, l'ansia di incompiutezza che spinge l'essere umano a cercare delle stelle con cui
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