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GESTI DIVINI E DANZE SCONOSCIUTE




“Senza paura, senza scopo, senza sforzo, 
dallo Spazio vuoto lascia sgorgare gesti divini e danze sconosciute”.
Tantra della Ruota dei Tempi.



Per noi occidentali è difficle comprenderlo, ma nello Yoga le mudrā, esattamente come gli  āsana e le sequenze, non dovrebbero essere eseguite volontariamente, ma "dovrebbero insorgere come un fiore che sboccia".
Sentire le mani che si muovono da sole, animate da una volontà altra, è stravagante: danzano e l'energia che le muove è la stessa che spinge un fiore a sbocciare, inaspettato, su uno scoglio. Le Mudrā, i gesti che le mani, e a volte la lingua o il corpo intero, assumono nelle danze e nelle posizioni, non possono essere imitati, devono insorgere, come il desiderio. - Si danza con la vagina - diceva Marta Graham. Non è elegante, ma rende bene l'idea. Jinpa ci disse che ognuna delle dita ha un suo significato, un carattere e una qualità diversi.
Come i cinque elementi.
In sanscrito la qualità di un cibo, un fiore, una persona è detta rasa. Si traduce con sapore, ma somiglia di più all'inglese mood. Anche l'essenza di un canto antico, di una danza d'amore o di un grido di guerra è rasa. Ed è rasa l'emozione che nasce, come per magia, da quel canto, quella danza, quel grido. Rasa è il senso dell'Acqua, il quarto dei cinque elementi che costituiscono la materia.
Si torna sempre a bomba, nello yoga. Idee, gesti, simboli ci riportano al miracolo della creazione e alla corrispondenza, sbalorditiva nella sua prevedibilità, tra grande e piccolo, tra microcosmo e macrocosmo. La nostra mano contiene l'universo intero. Il potere generante dell'Acqua si riconosce nel quarto dito. Lo chiamano anulare perché indossa la fede d'oro degli sposi. Il medio è il Fuoco, il mignolo è la Terra e l'indice l'Aria. Il pollice, primo a dispiegarsi e ultimo a chiudersi nel pugno, è lo Spazio. Ogni elemento porta con sé un'energia, una percezione, una serie di organi del corpo.
Il potere dell'acqua è la generazione. L'Acqua è la memoria, e anche il sesso, e la lingua coi suoi cinque sapori.
Se rasa è il senso dell'Acqua, rūpa è quello di Agni, il Fuoco. Ha un nome segreto Agni. Nel ṛgveda lo chiamano Agre, movimento, lo dice Viśvāmitra, uno dei veggenti di Brahma:
-” Agre è il nome segreto di Agni. Così lo chiamano gli Dei. Vuol dire avanti, Agre. Quando ci muoviamo seguiamo Agni...” -
Ogni elemento è una divinità e ogni divinità ha un nome segreto che ne svela i poteri e ne indica la dimora.
Rupa, il senso del fuoco è lo spettacolo dell'esistenza, forma e colore. Risiede nell'occhio, porta della bellezza. Agre è invece la sua energia, quella che ci spinge verso la luce o l'oscurità. La sua dimora è nel piede.

L'odore della terra, essenza della materia, è chiamato gandha. Il profumo del narciso, che inebria Persefone, e la puzza di morte che la lega al regno sotterraneo di Ade sono entrambi gandha.

Sparśa è il respiro del vento sulla pelle, misura di dolore e piacere, ed è la mano che afferra e respinge.

Infine śabda, la vibrazione, madre dei sensi e degli elementi, che disegna l'orecchio ad immagine della spirale creativa, la forma dell'universo, e la gola e le corde che danno voce ai pensieri.

Tutto nell'universo è vibrazione, tutto è Om……il Do assoluto che genera i diversi toni della scala della creazione, Ham, Yam, Ram, Vam e Lam, i suoni dello Spazio, dell'Aria, del Fuoco, dell'Acqua, della Terra.
La loro eco si sente nelle dita, si avverte come un pizzicore, una puntura di spillo, un campo magnetico. Ham vibra nel pollice, Yam nell'indice e così via.
Intrecciandosi nelle mudrā, le dita creano forme ed energie sempre diverse. Ogni gesto è un canto antico, che evoca i bhūta, gli spiriti della natura, un canto a due voci: la prima, la mano destra, tiene il ritmo, l'altra improvvisa e tesse melodie senza tempo. Sono diverse, le due mani, per forma, abilità ed energia. Diverse e complementari. Alcuni affermano che la sinistra è la mano dell'artista e la destra quella dell'ingegnere. Oppure che l'una è femminile e l'altra maschile. Per lo yoga la cosa è un pochino più complessa e fa parte dell'insegnamento segreto.

Le tecniche operative, le “istruzioni per l'uso” di mudrā, mantra e posizioni, vengono sussurrate dal maestro nell'orecchio del discepolo. Dicono sia difficile che un non iniziato possa padroneggiare le “energie sottili”.
Si può obbiettare che siamo fatti tutti di cuore, visceri e cervello, e che niente, dall'inizio dei tempi, è stato studiato, analizzato, catalogato quanto l'essere umano.
Se l'intrecciare le dita o l'emettere dei suoni generasse eventi non ordinari o miracolose trasformazioni fisiche e psichiche, i nostri scienziati l'avrebbero scoperto da tempo, a prescindere da riti e cerimonie iniziatiche, ma gli scienziati non sempre tengono conto del fatto che lo Yoga è un arte e il corpo il suo strumento.  

Chiunque abbia danzato, dipinto un quadro o curato una rosa sa che ci sono dei segreti del mestiere, dettagli minimi, a volte, che possono apparire banali a chi li conosce, ma senza i quali l'opera non può giungere a compimento.
Di solito solo l'artista o l'artigiano esperto possono svelarli. Qualche volta il maestro si nasconde nelle pagine di un libro. Non è così raro: per ogni attività umana esistono manuali, ricettari e cataloghi illustrati e se si è svegli e fortunati si possono imparare i trucchi di un'arte senza nemmeno andar per botteghe, a patto di saper già danzare, dipingere o parlare la lingua dei fiori.

Ogni Arte ha il proprio gergo. Quello dello Yoga è il sāṃdhyābhāṣā, la lingua del crepuscolo (in tibetano dgongs-pa'i ske che vuol dire, più o meno, “espressione della conoscenza spirituale attraverso la gola”), una specie di crittografia a chiavi variabili.

Nel sāṃdhyābhāṣā niente è come sembra. Ci sono delle chiavi, prefissate, legate ai nomi degli dei e ai numeri sacri (3, 5 e 9, per esempio). Parole, lettere, diagrammi e mudrā a seconda della prossimità con le chiavi o della posizione nella pagina, assumono significati ogni volta diversi. I libri che ne parlano, sono scritti nella “lingua del crepuscolo.

La sillaba , ad esempio, che si legge KA, può rappresentare Śiva (nel ruolo del signore del tempo Kāla), la sua sposa, Kālī, oppure Kāma dall'arco fatato o magari è il suono iniziale di un mantra. Intelligenza e abilità mnemonica servono a poco, bisogna tirare a indovinare: il sāṃdhyābhāṣā è la lingua dell'intuizione e l'intuizione è come la mela di Newton, casca quando è matura, inutile aggirarsi intorno all'albero con l'aria assorta.

Dietro i versi d'amore dei libri indiani e tibetani si nasconde spesso la descrizione di tecniche di concentrazione, di emissione vocale, di percezione delle energie sottili. Ricordo dei versi di Śaṅkara dove la voce di una donna crea onde di energia:

- “Tu, Dea, per la mente del re dei poeti risplendi come la luce del mattino sui fior di loto. Sei il sole di porpora per gli uomini di pace che invocano il tuo nome.
Come l'amplesso per gli amanti, le parole sapienti di Sarasvatī, donano ai devoti onde di piacere” -

Il sole, il loto, il Re dei poeti, la Dea, le onde di piacere stanno lì, di certo, per dirci qualcosa. Li possiamo assemblare, interpretare, anagrammare in mille modi diversi. Solo su Sarasvatī si potrebbe passare una settimana: è la dea dell'eloquenza, ma il suo nome, che significa “colei che scorre”, è anche quello di uno dei fiumi sacri e un popolo, un ordine monastico, una scala musicale, una pianta.
Ogni tentativo sarà inutile: come si può sperare che le stelle ci insegnino la strada senza sapere i venti, né governare il timone? Brillano per tutti, le stelle, ma parlano solo ai marinai.


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