Quella di Shambala e del “Re del
Mondo” è una frottola, una fake new si direbbe adesso, sulla quale da un paio di
secoli sono scritti libri, prodotti film e create filosofie che hanno prodotto effetti
ora bizzarri ora devastanti sull'intera umanità.
La leggenda, che tutt’ora molti
prendono per realtà storica, comincia con poche righe scritte nell’introduzione
di un manuale di yoga portato in Tibet in epoca medioevale da un gruppo di
yogin indiani in fuga dall'invasione islamica.
Il testo è noto ai nostri giorni come Kālacakratantra o “tantra della
ruota del tempo” e, nonostante contenga una serie di istruzioni, a mio parere,
utilissime per la comprensione dello yoga, è sconosciuto alla gran parte dei
praticanti o, in alcuni casi, considerato troppo ermetico.
La sproporzione tra l’enorme popolarità della favola nata da un trafiletto
di questo manuale e il silenzio che avvolge la descrizione delle tecniche
operative che vi sono descritte mi ha incuriosito, ed ho deciso di fare una breve
ricerca.
IL RE DEL MONDO
“L'opera
postuma di Saint-Yves d'Alveydre intitolata La Mission de l'Inde, che fu
pubblicata nel 1910, contiene la descrizione di un centro iniziatico misterioso
designato sotto il nome di Agarttha; molti tra i lettori di quel libro debbono
aver supposto d'altronde che non si trattava che d'un racconto puramente
immaginario, d'una specie di finzione senza alcun fondamento di realtà. Di
fatti, se si vuol prender tutto alla lettera, si trovano in cotesto libro delle
inverosimiglianze che potrebbero giustificare un tale apprezzamento, almeno per
chi se ne sta alle apparenze esteriori; e senza dubbio Saint-Yves aveva avuto
delle buone ragioni per non dare egli stesso alla luce quest'opera, scritta da
molto tempo, e che non era in verità completamente approntata. Fino ad allora,
d'altra parte, non era stata fatta, in Europa, menzione dell'Agarttha e del suo
capo, il Brahmâtmâ, che da uno scrittore di molto scarsa serietà, Louis
Jacolliot [1],
di cui è impossibile invocare l'autorità; per conto nostro, pensiamo che questi
aveva realmente inteso parlare di queste cose durante il suo soggiorno
nell'India, ma le ha rimaneggiate, come tutto il resto, alla sua maniera
eminentemente fantasiosa. Ma, nel 1924, sopravvenne un fatto nuovo ed alquanto
inatteso: il libro intitolato Bétes, Hommes et Dieux, in cui Ferdinando
Ossendowski racconta le peripezie del viaggio movimentato che fece nel 1920 e
1921 attraverso l'Asia centrale, racchiude, specialmente nella sua ultima
parte, dei racconti quasi identici a quelli di Saint-Yves; ed il rumore che è
stato fatto intorno a questo libro offre, crediamo, un'occasione favorevole
per rompere finalmente il silenzio sopra questa questione dell'Agarttha.”[2]
Con queste parole, nel 1927, René Guenon, presentò ai lettori occidentali
il mito di Shambala – o Shangri La o Agarttha – il regno nascosto nel quale, da
tempo immemorabile, il “Re del Mondo” custodirebbe il segreto della felicità
suprema e dell’immortalità.
L'astronomo Edmund Halley ritratto nel 1736 con in mano
un diagramma dei gusci concentrici della sua teoria della Terra cava. Fonte: Michael Dahl
- http://www.ucl.ac.uk/sts/nk/hollow.htm originally uploaded on de.wikipedia by
Siffler
Secondo alcuni – i fautori della “teoria della Terra Cava”[3] - si
tratterebbe di un mondo sotterraneo, secondo altri di una valle segreta
nascosta dalle vette himalayane, secondo altri ancora di un mondo parallelo
raggiungibile solo attraverso pratiche meditative.
In origine Śambhala (in tibetano bde ’byung) è il
nome di un villaggio di Brahmani nel quale alla fine della nostra Era – il kali-yuga
– nascerà l'ultimo avatāra di Viṣṇu, Kalki, che, in sella ad un bianco destriero e armato di una spada
fiammeggiante, combatterà contro la “civiltà del male” ristabilendo alla fine
di una guerra sanguinosa la legge universale, il Dharma[4].
Il mito nasce probabilmente a cavallo dell’anno mille, quando le
invasioni islamiche - prima con le scorrerie dell’esercito di Mahmud di Ghazna
(979 – 1030 d.C.) e poi con l’invasione della valle dell’Indo da parte di
Muhammad di Ghur e la conseguente creazione del Sultanato di Dheli, intorno al
1200 – costrinsero molti brahmini e yogin indiani a cercare rifugio in Tibet.
I racconti della resistenza contro gli invasori – con le
imprese, romanzate, degli yogin guerrieri di Gorakhnath e del raja Gogaji –
mescolati agli insegnamenti tantrici, furono la basa di una serie di leggende,
miti e profezie secondo le quali i “mieccha” (in tibetano “kla klo”),
come venivano chiamati gli islamici[5],
sarebbero stati completamente distrutti in una grandiosa battaglia finale che
avrebbe avuto luogo nel XXV secolo.
Piano piano il “villaggio di brahmani”, si trasformò in un regno
fantastico con meravigliosi palazzi di cristallo, oro e argento, i cui
abitanti, esseri incredibilmente belli e longevi – o addirittura immortali –
sarebbero dotati di poteri psichici che li renderebbero simili agli dei.
La storia di Śambhala come la conosciamo oggi proviene, in buona
parte, dal Kālacakratantra, un testo del XI –XII secolo d.C. che fa parte del -
“Canone buddista tibetano”[6] e probabilmente
è stato introdotto in Tibet da un maestro kashmiro di nome Somanath, allievo
del tantrico Nāropā, tra il 1027 e 1064 d.C.
Il Kālacakratantra
racconta di Sucandra, primo re di Śambhala,
che dopo aver appreso da Śākyamuni gli insegnamenti del buddhismo esoterico,
avrebbe fatto ritorno al suo regno per insegnare la dottrina segreta ai suoi
sudditi.
Nel testo originale Śambhala
è descritta in poche righe:
“Sucandra è il sovrano della terra di Sambhala a nord
del fiume Śītā, popolata da novantasei milioni di villaggi; i loti dei suoi
piedi sono riveriti decine e decine di milioni di capi-villaggio ornati di
diademi preziosi, nati dalle famiglie dei novantasei re, i cui corpi sono
emanazioni di dei, di demoni e di dragoni.”[7]
Col tempo la fantasia dei commentatori aggiunse sempre nuovi
dettagli arricchendo la leggenda di palazzi costruiti con gemme preziose,
specchi magici e profezie.
Dopo Sucandra alla guida del regno misterioso,
si sarebbero succeduti altri sei sovrani, ognuno dei quali avrebbe regnato per
un secolo:
Candra, Devendra, Tejavsi, Candradatta,
Deveśvara, Viśvarupa e Deveśa.
Dopo Devesa sarebbe salito al trono Mañjuśrīkīrti
– ritenuto autore del testo che oggi chiamiamo Kālacakratantra – che sarebbe stato insignito del titolo di “kulika”
o “kalkin” (tibetano rigs ldan) che significa “colui che detiene il lignaggio”.
Anche i kulika si avvicenderanno al trono di
Śambhala ogni cento anni.
Il secondo kulika sarebbe stato Puṇḍarīka - autore
del commentario al Kālacakratantra chiamato Vimalaprabhā ("Luce immacolata"),
mentre ai nostri giorni regnerebbe il XXI Kulika, Aniruddha, che nel 2027
lascerà il posto al kulika Narasiṃha[8].
Quando nel 2327 salirà al trono il XXV Kulika,
Rudracakrī, il re dei miscredenti –ovvero dei non buddhisti - scoprirà
l'esistenza di Śambhala e condurrà le sue truppe oltre il fiume Sītā.
Allora Rudracakrī, riunito un possente esercito
con l'aiuto di dodici grandi divinità, lo annienterà, ristabilendo sulla Terra
il Dharma del Kālacakratantra per altri diciotto secoli.
Questa ovviamente è la leggenda, che,
presumibilmente si basa, come tutte le leggende, su fatti storici, poi
trasformati e mitizzati, nel corso dei secoli, dalla fantasia di artisti e
letterati.
È possibile che il fiume Sītā sia il fiume
Talas[9], ai confini dell’attuale
Kazakistan, sulle cui rive si svolse una sanguinosa battaglia nel 751 a.C. tra
cinesi, alleati dell’impero buddhista Kushan, e gli islamici e che Śambhala sia in realtà il regno buddhista di Yanqi, in sanscrito
Agnideśa, porta d’accesso alla via della Seta e al bacino del Tarim. Il regno
era famoso all’epoca per la bellezza del territorio e l’enorme ricchezza dei
suoi abitanti[10]
Dopo la sconfitta dei Cinesi, avvenuta a causa del tradimento di
20.000 mercenari turchi, gli islamici invasero il bacino del Tarim e gli abitanti
di Agnideśa fuggirono alla volta del Tibet, dove è possibile che abbiano
contribuito alla nascita della leggenda di Śambhala.
La prima descrizione dettagliata del regno di
Sucandra bisogna è un testo del XVIII secolo, il “Dang po'i sangs rgyas dpal dus kyi 'khor lo'i lo rgyus dang ming
gi rnam grangs”.
Secondo il suo autore, Lama Long Dol[11], Śambhala
ha la forma di un gigantesco fiore di loto a otto petali, incorniciato dalle
montagne innevate dell’Himalaya.
Al centro si trova Kalapa, la capitale del regno, una città
circolare del diametro di una sessantina di chilometri (dodici leghe) con palazzi
d’oro, d’argento e pietre preziose così splendenti da rendere giorno anche la
notte.
Nelle stanze dei palazzi, circondati da alberi dal legno
profumato, si trovano specchi magici, grazie ai quali gli abitanti possono
sapere cosa accade in ogni parte del globo, e i soffitti sono di cristallo, per
permettere l’osservazione delle stelle.
A nord di Kalapa sorgono statue gigantesche raffiguranti Buddha,
i Bodhisattva e tutte le divinità tibetane, mentre a sud si stendono due laghi
a forma di mezzaluna, del diametro, anch’essi, di una sessantina di chilometri,
circondati da foreste di sandalo.
Dipinto tibetano del XVI secolo che rappresenta
Śambhala, conservato presso il Rubin Museum of Art di New York. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/%C5%9Aambhala
Trai due laghi - sulle cui acque esseri umani e nāga passano il tempo a nuotare, pescare e navigare su
barche fatte di pietre preziose –si trova il maṇḍala
dei cinque elementi, largo quasi duecento metri,
costruito da Sucandra con oro, argento, turchese, corallo e perle.
Per ciò che riguarda gli otto petali, su ognuno di essi sorgono
120 milioni di villaggi, formati da un numero indefinite di case a due piani,
per un totale di 960 milioni.
Per ogni 10 milioni di villaggi c’è un governatore, il cui
compito è quello di insegnare al popolo la dottrina del Kālacakratantra.
Il popolo di Śambhala è formato da donne e uomini “dai corpi
sottili” che indossano abiti di cotone bianchi, rossi o blu, e non conoscono né
malattia né sofferenza. La loro principale occupazione è la “pratica religiosa”
che li porta ad “ottenere l’illuminazione in questo corpo”.
Se la matematica non è un’opinione solo la capitale Kapala - che
ha un diametro di circa 60 km – occuperebbe un’area di:
302 x 3,14 = 2.826 km2
Ovvero, tanto per dare un’idea più del doppio di quella occupata
della città di Roma
Se a questo ci aggiungessimo la superficie dei due laghi –
anch’essi del diametro di circa 60 km - i boschi, e i 960 milioni di villaggi
arriveremmo sicuramente alle dimensioni di un grande stato europeo.
Risulta difficile pensare che un simile regno, fosse anche
circondate dalle più alte vette dell’Himalaya, possa essere sfuggito all’occhio
acuto degli esploratori e dei missionari occidentali, ragion per cui, nel XX
secolo il mito di Śambhala venne sovrapposto a
quello della Terra Cava, e i suoi abitanti divennero i discendenti degli
antichi Atlantidei, i semidei che governavano la Terra decine di migliaia di
anni fa, o addirittura milioni di anni fa.
SHANGRI LA
Postcard
promozionale di "Lost Horizont". Di James Montgomery Flagg - Herefrontback,
Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30481157
Il 1937 è l'anno di uscita di “Lost Horizont” (“Orizzonte Perduto” in italiano) un film con la regia di Frank Capra,
vincitore di due premi Oscar, che ebbe, all’epoca, un successo globale
lanciando la piccola casa di produzione Columbia nel firmamento delle
multinazionali dello Show Business.
Oggi, la pellicola viene ricordata solo dagli storici del cinema, ma i suoi effetti sulla cultura di massa si avvertono tutt’ora. Shambala, nel film Shangrilà, e le pacifiche armate del “Re del Mondo” (High Lama nel film) con il film di Capra entrarono nell’immaginario collettivo Trasformando definitivamente la leggenda del Regno segreto di Sucakra in un mito globale. La trama del film, tratto dal romanzo omonimo di James Hilton, pubblicato nel 1933, è assai intrigante:
Oggi, la pellicola viene ricordata solo dagli storici del cinema, ma i suoi effetti sulla cultura di massa si avvertono tutt’ora. Shambala, nel film Shangrilà, e le pacifiche armate del “Re del Mondo” (High Lama nel film) con il film di Capra entrarono nell’immaginario collettivo Trasformando definitivamente la leggenda del Regno segreto di Sucakra in un mito globale. La trama del film, tratto dal romanzo omonimo di James Hilton, pubblicato nel 1933, è assai intrigante:
“Cina, metà anni trenta. A causa dei crescenti
disordini, i cittadini occidentali vengono rimpatriati. Sull'ultimo aereo
salgono l'uomo che ha organizzato l'evacuazione, il diplomatico, militare e
letterato britannico Robert Conway, con il fratello George, lo studioso di
paleontologia Alexander Lovett, l'affarista in bancarotta Henry Barnard e una donna
gravemente malata, Gloria Stone. Il loro aereo viene inspiegabilmente dirottato
da un pilota e finisce per schiantarsi in una zona sperduta delle montagne
dell'Himalaya. Vengono soccorsi dal misterioso Chang e portati in un'isolata
vallata nella quale sorge l'idillica comunità chiamata Shangri-La, un'oasi di
pace fondata oltre due secoli prima da un missionario belga per preservare i
migliori risultati dell'umanità dai continui conflitti del mondo esterno. Dopo
l'iniziale, comprensibile desiderio di ritornare al più presto alla civiltà, i
nuovi arrivati cominciano ad apprezzare quel luogo, che offre loro un ambiente
di grande bellezza, uno stile di vita di incomparabile tranquillità e promesse
di incredibile longevità. In particolare, Robert scopre di essere stato
deliberatamente portato a Shangri-La dal capo della comunità, il Grande Saggio
(High Lama in originale), che si rivela essere il fondatore stesso, vissuto
fino a duecento anni, ma ormai prossimo alla morte ed in cerca di qualcuno in
grado di portare avanti la sua Utopia realizzata, che ha scelto proprio lui
come suo successore, perché la sua vita e i suoi scritti sembrano rispecchiare
i valori custoditi a Shangri-La. L'unico a non accettare la situazione e ad
essere convinto che Shangri-La sia solo una pericolosa illusione è George,
influenzato in questo senso da Maria, una giovane e splendida donna che non
desidera altro che fuggire da quella che considera una prigione. I due decidono
di lasciare Shangri-La e Robert, pur conquistato dagli ideali del Grande Saggio
e trovato anche l'amore con Sondra, una giovane donna cresciuta lì e che non sa
immaginare una vita diversa da quella, per senso di responsabilità verso il
fratello decide di andare con loro. Dopo giorni di viaggio in condizioni
proibitive, la lontananza da Shangri-La rivela tragicamente l'età avanzata di
Maria, che muore per la fatica. George, scioccato dalla vista del volto
decrepito dell'amata, si getta nel vuoto. Robert riesce a sopravvivere e a
tornare alla civiltà, dopo un intero anno dalla sua scomparsa agli occhi del
resto del mondo. La terribile esperienza gli ha fatto perdere ogni ricordo dei
giorni trascorsi a Shangri-La ma, durante il viaggio di ritorno in patria,
ritrova improvvisamente la memoria e non può far altro che tornare in Himalaya.
Sfidando ogni avversità e utilizzando ogni mezzo possibile, esplora per mesi i
luoghi più impervi, finché non riesce a ritrovare la via per Shangri-La, dove
Sondra attende il suo ritorno.”[12]
Grazie al successo del
libro di Guenon (1927), del romanzo di Hilton (1933) e del film di Capra(1937)
il mito di Śambhala
si diffuse in tutti gli strati della popolazione, contribuendo ad alimentare un
generale sentimento antimoderno e antiscientifico che, già dalla metà del XIX
secolo si era diffuso nel mondo occidentale.
Nell’immaginario
collettivo divenne una specie di Eden, un oasi in cui esseri con poteri
sovrumani, belli, sani e longevi, vivevano immersi nella luce della conoscenza
spirituale.
Quello che libri e
film non chiarivano erano le cause di quei poteri, bellezza, salute e
longevità:
Una fontana della giovinezza?
Una serie di non
meglio definite pratiche meditative?
Una serie di esercizi
ginnici come quelli che l’ineffabile colonnello Bradford, inventato dallo
sceneggiatore Peter Kelder nel 1939, chiama “Cinque Riti Tibetani”?[13]
La discendenza degli abitanti da antichi
semidei, come credevano i nazisti?
Al di là delle leggende nate in epoca moderna,
il Kālacakratantra – ripetiamo - è
stato introdotto in Tibet da un maestro kashmiro di nome Somanath, allievo del
tantrico Nāropā, tra il 1027 e 1064 d.C.
La descrizione di Śambhala – che come si è
visto, va probabilmente identificata con Agnideśa,
la ricca città buddhista
occupata dagli islamici nell’VIII secolo – oltre ad essere chiaramente
simbolica, non è certo la parte più importante del testo, che, nel suo insieme,
appare come un dettagliatissimo manuale di yoga. La traduzione più attendibile pare
sia quella fatta da Raniero Gnoli e Giacomella Orofino, pubblicata nel 1994 da
Adelphi con il titolo “Nāropā, INIZIAZIONE, KĀLACAKRA”.
Si tratta di una lettura assai
interessante.
Ecco cosa si trova, per esempio, a pag.
111 (“Il Riassunto dell’Iniziazione”, 18-22):
18. Toccando il seno della saggezza
si ha un diletto [consistente in] una caduta di bodhicitta. Colui che è
consacrato attraverso il sene, [perché il diletto deriva appunto dal seno], è
il bambino.
19. Conficcando [il vajra] nelle
parti segrete [della saggezza], a lungo si ha un diletto [consistente in [una
caduta di bodhicitta. Colui che è consacrato attraverso le parti segrete,
perché tale diletto deriva appunto dalle parti segrete, è l’adulto.
20. Conficcando [il vajra] nelle
parti segrete [della saggezza] a lungo, si ha sulla cima del vajra, un diletto
fatto di vibrazione. Colui che è consacrato attraverso la conoscenza mediante
la saggezza, perché appunto entrato in [uno stato di] vibrazione [cioè di
tremito] è l’anziano.
21. Si ha poi un gran diletto privo
di vibrazione che nasce per la concupiscenza verso la grande mudrā. Colui che
è iniziato per mezzo della grande saggezza perché [appunto] immerso in uno
stato privo di vibrazione
22. è chiamato col nome di
progenitore, genitore di tutti i protettori […].
Se qualcuno avesse dei dubbi sui
riferimenti sessuali del sesso basta continuare la lettura per constatare che
il vajra indica il pene, la cima del vajra – detta anche “gemma del vajra” – è
il glande, bodhicitta lo sperma (chiamato talvolta luna), il “diletto” di cui
parla il traduttore è il godimento sessuale, la “saggezza” di cui si devono
penetrare le parti segrete – detta anche karmamudrā - è la yoginī, ecc.
Leggiamo a pag. 250, (“La
conclusione dello Yoga”):
“[…] Se […] non si verifica il
piacere, allora bisogna, nel loto, determinare piano piano il suono adamantino
(vajradhvani). Nel caso che non ci sia a disposizione una donna, bisognerà
agitare [il vajra) col loto della propria mano, per aumentare il piacere, non
allo scopo di emettere (pāta). La non emissione del seme (bījātyāga)
[comporta] un piacere che discaccia la paura della morte”.
A pag. 303 (P317a) la
necessità di “agitare il vajra” viene ribadita:
“[…] lo yogin
dovrà meditare, trattenendo il respiro, il fonema AṂ, simile a una linea
bianca diretta verso l’alto. Quindi mantenga eretto di continuo il vajra
giovandosi del loto della sua mano in modo [tuttavia] che la luna non esca. […]
79. […] Questo
metodo […] si accompagna per gli yogin con [varie specie di] diletti.”
A pag. 313, verso 79,
si parla dell’unione con “karmamudrā” come uno dei mezzi per raggiungere la
realizzazione finale e si specifica che karmamudrā - parola solitamente
tradotta con “mudrā dell’azione” - è
una donna, i cui seni e capelli sono causa del piacere concernente il mondo del
desiderio (kāmadhātu):
“[…] l’azione è
costituita da varie attività come baci, abbracci, contatti con le parti segrete,
penetrazione del vajra, ecc. La mudrā caratterizzata da queste azioni è fonte
di un’esperienza (pratyakāriṇī) costituita da un piacere mosso (kṣara). La
parola mudrā deriva da questo, che dà (rāti) gioia (mudam), cioè uno speciale
piacere.”
Frasi
come “[lo yogin] mantenga eretto di continuo il vajra giovandosi
del loto della sua mano” rendono inutile ogni tentativo di
far apparire le pratiche sessuali di Śambhala come metafore di determinati stati di
coscienza o simboli di generiche energie cosmiche: Il Kālacakratantra descrive, senza ombra
di dubbio, una serie di tecniche che riguardano l’aspetto
sessuale e l’utilizzazione del piacere ai fini dell’illuminazione.
Tecniche alle quali né
Ossendowski, autore di “Bétes, Hommes et Dieux”, né Guenon – autore de “Il Re
del mondo”, né James Hilton – autore di “Orizzonti Perduti” – né Peter Kelder –
autore di "The Eye of Revelation” -
né nessuno di coloro che si sono ispirati al Kālacakratantra ha mai fatto
allusione, ma che sembravano essere conosciute, come vedremo in un prossimo articolo, dagli esoteristi
di fine ‘800.
[1] Les Fils
de Dieu, pp. 236, 263-267, 272; Le Spiritisme dans le Monde, pp. 27-28.
[2]
Tratto da: René Guenon, Il Re del Mondo, traduzione di Arturo Reghini, Edizioni
Alberto Fidi. Milano 1927.
[3]
La teoria della “Terra cava” risale allo scienziato inglese Edmund Halley
(1656- 1742) che, nell’opera “Philosofical Transactions of Royal Society of
London”, del 1692 propose l’idea che la Terra fosse formata da un guscio
esterno, spesso 800 km, con due altri gusci interni concentrici che circondano
il nocciolo base, ovvero il cuore della Terra. I gusci avrebbero le dimensioni
di Venere, Marte e Mercurio e sarebbero separati da Atmosfera. Tutti i gusci
avrebbero propri poli magnetici e ruoterebbero a velocità differenti. (Fonte
[4] Vedi John
Newman, Itineraries to Sambhala, in Tibetan Literature: Studies in
Genre (a cura di José Ignacio Cabezón e Roger R. Jackson:
“The toponym "Sambhala" first appears in the Hindu prophetic
myth of Kalki in the Mahābhārata and the Puränas. In Hindu texts Sambhala is a
Brahman village, of undetermined location, that will be the birth- place of
Kalki, the future messianic incarnation of Visnu. At the end of the current
degenerate Kali age, it is said, Visnu will incar- nate as the pious Brahman
warrior Kalki, who will rid the earth of barbarians and unruly members of the
lower castes. Kalki's apoca- lyptic war will purify the world, re-establish
Brahman dominance of the social order, and thus institute a new age of righteousness”
[5] Vedi Princeton Dictionary of
Buddhism, a cura di Robert E. Buswell Jr. & Donald S. Lopez Jr., Princeton
University Press, 2013: “The Kālacakratantra also predicts an apocalyptic
war. In the year 2425 CE, the barbarians (generally identified as Muslims) and
demons who have destroyed Buddhism in India will set out to invade Śambhala”
[6]
“Con
l'espressione Canone buddhista tibetano, o Canone tibetano, si
indica, negli studi buddhisti, l'insieme di due raccolte di testi propri della
letteratura buddhista canonica in lingua tibetana e che corrispondono
a:
1. Il bKa’-’gyur (nella
grafia tibetana: བཀའ་འགྱུར; reso anche come Kangyur o Kanjur;
lett. "[La raccolta delle] parole tradotte [del Buddha]");
2. Il bsTan-’gyur (nella
grafia tibetana: བསྟན་འགྱུར; reso anche come Tangyur o Tanjur;
lett. "[La raccolta dei] commentari tradotti").
Il Canone tibetano è quindi l'opera
che raccoglie i sūtra (མདོ, mdo), i tantra (རྒྱུད, rgyud),
i śāstra (བསྟན་བཆོས, bstan bcos), il vinaya (འདུལ་བ།, 'dul
ba) e in generale le scritture buddhiste, tradotte in lingua
tibetana e ritenute importanti per la tradizione del Buddhismo
Vajrayāna in Tibet.
Il Canone tibetano si è sostanzialmente
formato dall'VIII al XIII secolo, assumendo una sua prima edizione definitiva
grazie al dotto poligrafo e bla-ma (བླ་མ) del XIV secolo Buston rinchen grub (བུ་སྟོན་རིན་ཆེན་གྲུབ་,
anche Butön Rinchen Drup, 1290-1364).
Complessivamente esso si compone di
oltre trecento volumi comprendenti circa quattromila opere tradotte dal
sanscrito, dal pracrito, dallo apabhraṃśa, dal cinese e da lingue centroasiatiche,
ma ne fanno parte anche commentari redatti direttamente in lingua tibetana.
(Fonte: Ramon N. Prats, Le religioni del Tibet, in Buddhismo (a
cura di Giovanni Filoramo). Bari, Laterza, 2007).
[7]
Nāropā, “INIZIAZIONE, KĀLACAKRATANTRA”, a cura
di Raniero Gnoli e Giacomella Orofino. Adelphi 1994. Pag. 132.
[8] Vedi: Princeton Dictionary of Buddhism, a cura
di Robert E. Buswell Jr. & Donald S. Lopez Jr., Princeton University Press,
2013.
[9] Esiste
un fiume Sītā nello stato del Karnataka, nei pressi dei luoghi di una famosa
battaglia del XVI secolo, la battaglia di Talikota, tra islamici e indianii,
che si risolse con la distruzione dell’imperoVijayanagara.
[10] Fonte: John E. Hill,
“Annotated Traslation of the Chapter on the Western Regions according to the
Hou Hanshure”.Depts Washington Education/Silk Road Text.
[11] La descrizione di Shamabala appare
in The Collected Works of Longdol Lama (a cura di Lokesh Chandra). New
Delhi, International Academy of Indian Culture, 1973: 232—282.La descrizione
viene poi riportata da: John R. Newmanin in "The Wheel of Time" a
cura di Geshe Lhundub Sopa, Roger Jackson, John R. Newman. Boston,
Shambhala, 1996,
[13]
“I Cinque Tibetani” nascono da una sceneggiatura del giovane
scrittore Peter Kelder sul tema della Fonte dell’Eterna Giovinezza. Lo script
fu rifiutato dai produttori perché pur essendo sfacciatamente ispirato a
“Orizzonte perduto”, era privo degli ingredienti indispensabili per piacere al
pubblico americano: non c’erano né storie d’amore contrastate né morti
misteriose. La storia, a dir la verità era piuttosto banale:
“Il colonnello Bradford, un ufficiale dell'esercito britannico in età da
pensione, curvo e malato, si ritrova in un misterioso monastero tibetano, dove
alcuni misteriosi monaci gli svelano il misterioso segreto dell'eterna
giovinezza. Il colonnello torna in occidente, ma non lo riconosce nessuno,
dimostra 30 anni di meno, è dritto come un fuso e gli sono pure ricresciuti i
capelli.
Nel 1939 Kelder
trasformò la sceneggiatura in un libro "The Eye of Revelation". Pure questo, pubblicato da the New Era
Press of Burbank, California 1939, fu un flop, ma il nostro eroe non si dà per
vinto, Nel 1946, aggiunge dei capitoli, mette in evidenza l'aspetto salutistico
e aggiunge un sottotitolo seducente: "Ancient
anti-aging secrets of the five tibetan rites". Il libro, pubblicato stavolta
da Mid-Day Press, Los Angeles 1946, non è quel che si dice un capolavoro cade
nel dimenticatoio fino agli anni ‘80. Siamo nell’ epoca delle "Profezie di
Celestino" e dello Yoga Non Yoga di Esalen. L’antiquario, Jerry Watt,
ritrova per caso l'unica copia rimasta dell'edizione del 1946, la legge e ha
un’illuminazione: “The Five Tibetan Rites
of Rejuvenation", nuovo titolo del libricino, diventa un best seller,
e i “Cinque Riti Tibetani”, in realtà, probabilmente, esercizi tratti dalla
routine di fitness degli attori hollywoodiani degli anni ’30, con
l’autorevolezza che deriva dall’etichetta di “antico sapere tibetano” spopolano
nelle palestre e nelle scuole di Yoga, senza che nessuno si chieda niente della
loro origine e dei motivi della loro decantata influenza sul sistema endocrino.
Un buon film https://streamingita.pics/anime-cartoon/ da lontano non sarà immediatamente in grado di scegliere cosa...
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