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La Sostanza del Jīva

  Jīva è una di quelle parole di cui tutti i praticanti e gli appassionati di yoga credono di conoscere il significato. In genere si legge - e si dice - che  la parola jīva ( जीव ) indica l’essere vivente, e viene tradotta con “ anima”, “spirito” o "Sé", e qui viene il primo dubbio perché anche  ātman  ( आत्मन् ) viene tradotto con  anima”, “spirito” o "Sé". In effetti il significato di jīva e pressoché identico a quello di ātman ( आत्मन् ) , ma in genere quest’ultimo assume - o si pensa che assuma - una valenza universale - paramātmā ( परमात्मा ), il Sé supremo – mentre il primo – detto anche jīvātman o va ad indicare - o crediamo vada ad indicare - l’anima individuale o il cosiddetto sé inferiore. Al di là delle sfumatura semantiche ( jīva  lo troviamo  tradotto con “anima”, “spirito”, “Sé”, “riflesso coscienziale”, “essenza vitale” ecc.) nelle varie scuole e sistemi filosofici jīva e ātman assumono  significati diversi, per cui se lo troviamo in un testo,

Enstasi - Lo Yoga come Arte di Morire a Se Stessi

  “Traccia un confine tra il prima e il dopo ”. Takuan Soho, “ Sogni ”, Luni Editrice.     Lo yoga è la pratica del sama ̄ dhi . Il sama ̄ dhi o l’ enstasi come lo chiamava Mircea Eliade, è il sentirsi uno con l'universo e il percepire come tutti gli eventi si pieghino al volere di una potenza sconosciuta che ti sta indicando una strada, “quella” strada. Sama ̄ dhi è l’esperienza straordinaria che confonde e trasforma la mente.  A volte è il risultato di esercizi, di pratiche ascetiche o dell’assunzione di droghe. Altre accade, così senza motivo.   D’improvviso gli oggetti esterni ci paiono essere più luminosi, i colori più vivi, le piante sembrano crescere più velocemente e sembra che crescano per noi. Accade di pensare ad un animale o ad una persona ed ecco che compaiono.   I testi sacri ci sembrano improvvisamente chiari (e lo sono!) e si indovinano tracce e coincidenze che agli altri sembrano oscure.   Chiudendo gli occhi figure meravigliose e coloratissime compaio

La Pratica della Visualizzazione nello Hathayoga

  Quando si parla di visualizzazioni, nello Yoga, ci si riferisce spesso a pratiche "immaginative" simili a certe tecniche usate nell'esoterismo occidentale, nell'ipnosi di Erikson o negli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola: "sei a piedi di una collina, vedi gli alberi che si stagliano nel cielo azzurro, i raggi del sole filtrano trai rami disegnando una spirale ecc. ecc. ecc." Sono tecniche che hanno una loro funzione e sicuramente generano effetti positivi, ma credo sia interessante andare a leggere cosa intendevano gli antichi yogi per visualizzazione, nel gergo degli hathayogin  lakṣya: Il termine lakṣya ( लक्ष्य ) significa letteralmente “ciò che deve essere visto o notato”, “ciò che deve essere preso di mira”. Nello haṭḥayoga indica sia tecniche di visualizzazione -ovvero il “disegnare nella mente ”oggetti, simboli e colori – sia la visione di effetti luminosi e forme che accompagna la pratica della concentrazione sugli ādhāra , 16 partic

Cosa è Pratyāhāra?

  Protagora diceva che la teoria senza la pratica è cieca, così come cieca è la pratica senza teoria. Ultimamente mi sono trovato a riflettere molto sul rapporto tra teoria e pratica nello hathayoga e su come la conoscenza e lo studio dei testi sia utile solo per coloro che praticano costantemente con l'animo del ricercatore. Uno dei temi che sto affrontando in questo periodo è  Pratyāhāra. Tutti gli yogin sanno cosa sia, giusto?  Pratyāhāra è il distacco sensoriale, l'allontanamento dagli oggetti  di percezione che conduce alla fine della dinamica desiderio-avversione.  Così almeno pensavo. Poi, durante una ricerca sullo Hathayoga delle origini, ho trovato  nella  Vasiṣṭhasaṃhitā  questa definizione, una definizione di cui, se non avessi praticato tecniche di meditazione, sia yoga sia taoista, non sarei riuscito a comprendere il significato: “ Lo yogi dovrebbe mandare il respiro in questi punti [ ādhāra ]  per mezzo della mente e trattenere [sospendere il respiro] in ognuno