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La Sostanza del Jīva

 


Jīva è una di quelle parole di cui tutti i praticanti e gli appassionati di yoga credono di conoscere il significato. In genere si legge - e si dice - che  la parola jīva (जीव) indica l’essere vivente, e viene tradotta con “anima”, “spirito” o "Sé", e qui viene il primo dubbio perché anche ātman (आत्मन्) viene tradotto con anima”, “spirito” o "Sé".

In effetti il significato di jīva e pressoché identico a quello di ātman (आत्मन्), ma in genere quest’ultimo assume - o si pensa che assuma - una valenza universale - paramātmā (परमात्मा), il Sé supremo – mentre il primo – detto anche jīvātman o va ad indicare - o crediamo vada ad indicare - l’anima individuale o il cosiddetto sé inferiore.

Al di là delle sfumatura semantiche (jīva lo troviamo  tradotto con “anima”, “spirito”, “Sé”, “riflesso coscienziale”, “essenza vitale” ecc.) nelle varie scuole e sistemi filosofici jīva e ātman assumono  significati diversi, per cui se lo troviamo in un testo, per esempio, ispirato al "vedānta dualista" vorrà dire una cosa, se lo troviamo in un testo ispirato al saṃkhyā ne votrrà dire un'altra ecc.

Per i vaiṣṇava ad esempio - i devoti di Viṣṇu contrari ad ogni forma di materialismo e di speculazione intellettuale - jīva indica l’anima individuale, pura ed eterna, che si incarna in un corpo materiale e, dimentica della sua origine divina, si identifica con esso rimanendo imprigionata nella realtà grossolana, considerata illusoria, fin quando non si arrende al Bhagavān, inteso come divinità suprema grazie alla devozione.

Per il vedānta non duale il jīva è invece un riflesso coscienziale del Sé supremo (ātman) che, presa dimora nel corpo fisico, si identifica con la materia a causa dell’ignoranza, dell’immaginazione e del desiderio; la liberazione in questo caso passa attraverso una serie di speculazioni filosofiche tese all’identificazione della realtà oggettiva con Brahman/ātman, un “ente” non percepibile, descritto come “satyam jnañam anantam brahma”, ovvero ciò che è “infinito, verità e conoscenza”.

Per lo āyurveda, infine, ātman e jīva sono sinonimi e rappresentano l’insieme delle caratteristiche individuali e mentali che, insieme al sangue femminile e al seme maschile, unendosi in un determinato embrione, portano allo sviluppo del feto e quindi alla persona umana.

In altre parole, nello āyurveda – e nello haṭḥayoga che utilizza il medesimo sistema interpretativo della realtà dello āyurveda - il jīva è una sostanza o un’energia che fa parte della manifestazione dell’essere umano e, insieme al principio maschile e al principio femminile, ne è, al contempo, causa.

Vediamo uno schema della relazione trai tre guṇa, le tre “energie della vita” ed i tre doṣa che viene preso come riferimento nello āyurveda :

 

Vento

(Movimento)

Sole

(Ricezione)

Luna

(Rilascio)

prāṇa

tejas,

ojas

rajas

sattva

tamas

vāta

pitta

kapha

 

Nella Gorakṣa Saṃhitā (1.71-74) così come nello āyurveda, rajas, il sangue (energia femminile) è collegato al Sole, mentre bindu, causa prima di śukra (sperma, energia maschile) è collegato alla Luna:

71.  “Nella zona dell’ombelico - nābhi-sthāna – dimora il sangue mestruale – rajas – simile al piombo rosso, sindūra. Nella zona della Luna – śaśisthāna - dimora il bindu. L'unione dei due è molto difficile da realizzare.”

72.  “Il bindu è Śiva, il rajas è Śakti. Il bindu è candra, la Luna, e rajas è ravi, il Sole. È grazie all'unione di questi due che si raggiunge parama pada, il più alto stato di coscienza.”

73.  “Quando rajas è attivato mediante [la pratica di] śakticāreṇa in connessione con vāyu si fonde con bindu. Allora il corpo diventa divya, divino.”

74.  “Lo sperma, śukra, è legato alla Luna, il sangue, rajas è legato al Sole. Chi sperimenta il samarāsa [l’identità dell’essenza] di questi due è uno Yogavid.”

Dato che nel sistema, che potremmo definire materialista, dello āyurveda, il jīva fa parte, insieme a bindu e a rajas, della triade delle tre “sostanze” dalla cui azione combinata si sviluppa la persona umana ne potremmo dedurre che il jīva sia in relazione con il Vento e con il prāṇa, così come śukra/bindu è in relazione con la Luna e con ojas, e rajas è in relazione con il Sole e con tejas.

La relazione tra jīva e vāyu è messa in evidenza nei versetti del Gorakṣa Saṃhitā 1.23, 1.36, 1.37, 1.38, 1.39, 1.41, 1.42, 1.90;

In 1.23 si parla del jīva come di una realtà in perenne movimento (nel corpo) e della sua necessità di prendere dimora/fermarsi nel cakra del cuore:

23.  “Il jīva vaga finché non trova la [propria] realtà nel mahācakra a dodici raggi [nel quale è] libero dal merito e dal demerito.”

In 1.36 si afferma che i vāyu minori circolano nel corpo nella forma del jīva:

36.  “[…] Questi [vāyu minori] circolano nella forma del jīva in tutte le nāḍī.”

Nei versetti da 1.37 a 1.40 si descrive il jīva come una realtà fisica che circola continuamente nel corpo, verso l’alto e verso il basso, trascinata in alto e in basso da prāṇa e āpana:

37.   “Così come una palla lanciata verso l’alto [ricade a terra per rimbalzare di nuovo verso l’alto] così il jīva, mosso [in alto e in basso] da prāṇa e āpana non si ferma [mai].”

38.  “Il Jīva non viene percepito a causa della sua instabilità, in quanto, essendo sotto il potere di Prāṇa e Āpana, si muove [continuamente] in alto e in basso lungo vāma mārga e dakṣiṇa mārga.”

39.  “Legato ad una corda, il falco lanciato in volo, viene di nuovo trascinato in basso. Allo stesso modo il jīva, legato dai guṇa, della natura primordiale, viene tirato [in alto e in basso] da prāṇa e āpana.”

40.  “L'āpana attira il prāṇa e il prāṇa attira l'āpana. Lo Yogavid unisce i due, sia sopra sia sotto.”

Nei versetti 1.41 ed 1.42 si afferma che il jīva entra ed esce dal corpo continuamente – 21.600 volte al giorno - seguendo il ritmo di inspirazione ed espirazione:

41.  Con hakāra va fuori, con sakāra rientra (nel corpo) …" Haṃsa-haṃsa: questo è il mantra che il jīva recita senza interruzione.”

42.  “In un giorno e una notte - aho-rātre - il jīva recita questo mantra 21.000 e 600 volte, senza fermarsi mai.”

In 1.90, infine, viene ribadita l’assoluta dipendenza del jīva dai soffi vitali (vāyu), la cui uscita dal corpo conduce alla morte fisica:

89. “Fintanto che vāyu resta nel corpo il jīva non lo lascia; quando vāyu lascia il corpo muore. Ecco perché bisogna sospendere – nirodha – il soffio vitale.”

Jīva per lo haṭḥayoga non è quindi un qualcosa di avulso dalla realtà materiale, ma esattamente come nell'antica grecia (ànemos, significa "soffio", "vento") è un qualcosa di legato alla realtà fisica, soggetto ai flussi delle energie chiamate vāyu e condizionato dal ritmo respiratorio (Con hakāra -espirazione - va fuori, con sakāra – inspirazione -rientra”).

Questa dimensione che potremmo definire materiale del Jīva è una chiave essenziale per comprendere la valenza alchemica dello haṭḥayoga.

Ciò che chiamiamo essere umano nello yoga dei Nāth e degli adepti del Sahajāyāna buddhista, è il frutto della interazione delle tre energie fondamentali della manifestazione simboleggiate dal Vento, dal Sole e dalla Luna, idealmente collegate ai tre guṇa detti rajas, sattva e tamas.

Banalizzando si può affermare che queste tre energie si esprimono nel corpo attraverso prāṇa, tejas e ojas, collegati a loro volta con l’insieme delle caratteristiche mentali individuali (Jīva), dell’energia femminile (Śakti) e dell’energia maschile (Śiva) che, combinandosi, danno luogo allo sviluppo del feto e quindi della persona umana.




Commenti

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