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Vairāgya, il distacco secondo Patañjali


Dopo tre mesi di lavoro ho finito la traduzione del primo libro di Patañjali. 
Mi piaceva l'idea di confrontarmi da solo,senza intermediari, con uno dei miei  libri preferiti.
Ho lavorato sul testo sanscrito tenendo conto sia del significato letterale di ogni singola parola, sia dell'uso che, di quella, parola, si fa nella letteratura indiana, sia hindu che buddhista.
Tra qualche giorno lo pubblicherò su Amazon, ma vorrei darvi qualche anteprima per conoscere la vostra opinione.
Critiche e consigli sono ovviamente molto ben accetti.
Quello che segue è il commento ai sutra 1.11-16,che descrivono Vairāgya, il distacco yogico. 
Un sorriso
P.

4.  DISTACCO (1.12-16)


12.      L’arresto delle vṛtti si ottiene grazie al distacco e alla pratica assidua.
13.      Abhyāsa consiste nello sforzarsi di rimanere stabilmente in una determinata posizione o stato coscienziale.
14.      Ci si può radicare fermamente nello stato di sospensione delle Vṛtti solo praticando per lungo tempo, senza interruzioni, con fervore ed entusiasmo.
15.      Vairāgya, è la condizione di chi, padroneggiando la “conoscenza distintiva” spegne la sete sia degli oggetti percepibili sia di quelli immaginati sulla base delle parole altrui.
16.      Si realizza il supremo distacco (vairāgya) quando estinguendo il desiderio dei guṇa insorge la conoscenza del puruṣa.

Nel versetto 1.12 ho tradotto nirodhaḥ con “arresto delle vṛtti”, uniformandomi alla maggior parte delle traduzioni, ma come si è visto[1] si potrebbe rendere con “flusso” o “flusso tranquillo” per cui il senso di 1.12 potrebbe essere “quel flusso (si realizza) con entrambi (i metodi): abhyāsa (pratica assidua) e vairāgya (distacco)”.
Abhyāsa è propriamente la “ripetizione di gesti parole o esercizi”. L’addestramento militare ad esempio è Abhyāsa e così è chiamata la ripetizione incessante di un mantra, di una sequenza di posture o del tema fondamentale in un testo tradizionale. Vairāgya che viene tradotto di solito, correttamente, con “distacco” o “avversione”, significa anche “scolorire”, “mutare o far mutare colore”. Nel versetto 1.15[2] “vairāgya” è accostato a due termini, “vaśīkāra” e “saṁjṇā”, che può essere interessante esaminare con attenzione.
Il primo, vaśīkāra, viene tradotto in genere con “controllo”, “maestria” o “padroneggiare”, ma indica specificamente “l’atto di soggiogare la volontà altrui con incantesimi”.
Saṃjñā, invece, solitamente viene tradotto come "percezione" o "cognizione", ma il suo significato è più complesso. Potremmo definirlo come “la modalità di afferrare le qualità o le caratteristiche distintive di un oggetto”. Nel buddismo è uno dei cinque skandha, o aggregati, che costituiscono e al tempo stesso spiegano i motivi dell'esistenza mentale e fisica di un essere senziente. I cinque aggregati sono:

1.     Forma (o materia o corpo) (rupa).
2.     Sensazioni (o sentimenti, ricevuti dalla forma) (vedana).
3.     Conoscenza distintiva (saṃjñā).
4.     Attività mentale (sankhara).
5.     Coscienza (vijñāna).

Si legge nell’Abhidharma-Samuccaya:

“Qual è la caratteristica assolutamente specifica di saṃjñā? È il sapere per associazione. Per vedere, ascoltare, specificare e conoscere un oggetto si prendono in considerazione le caratteristiche che lo definiscono e distinguono dagli altri oggetti”.

Significa in pratica che per conoscere la foglia di un albero nella foresta si pone l’accento sulle sue caratteristiche precipue, perdendo di vista l’insieme delle foglie, l’albero e la foresta.
Se teniamo conto della definizione buddhista vairāgya sarebbe qualcosa di più e di diverso dal semplice “distaccarsi dai piaceri sensoriali”. Si tratterebbe di “controllare magicamente saṃjñā” ovvero di forzare la naturale (o forse sarebbe meglio dire automatica) tendenza della mente a isolare il particolare dal generale, il soggettivo dall’oggettivo.
Spegnere la sete (vaitṛṣṇyam) sia degli oggetti percepiti sia di quelli immaginati in base alle parole altrui” non significherebbe quindi sviluppare avversione nei confronti dei piaceri sensoriali, come dicono taluni, ma coltivare “la visione d’insieme”, contemplare la foresta anziché la foglia dell’albero.
La pratica del “controllo di saṃjñā” alla fine porterà il praticante ad estinguere “la sete per i guṇa”, ovvero a non discriminare più tra le qualità intrinseche della manifestazione, spostandosi dal piano individuale al piano universale.
Letteralmente guṇa significa “filo, corda”. La corda dell’arco e la corda di uno strumento musicale, ad esempio sono guṇa, In filosofia prende il significato di “qualità della materia”. Per dirla in un linguaggio poetico, i guṇa sono i fili con cui la dea intesse la stoffa della manifestazione.
Nella scuola filosofica nyāya, affine al buddhismo, sono enumerati ventiquattro guṇa:
1.     Rūpa, forma, colore;
2.     Rasa, sapore;
3.     Gandha, odore;
4.     Sparśa, tangibilità;
5.     Saṃkhyā, numero;
6.     Parimāṇa, dimensione;
7.     Pṛthaktva, separatezza, individualità, unicità;
8.     Saṃyoga, combinazione, congiunzione;
9.     Vibhāga, distribuzione, disgiunzione (contrario di saṃyoga);
10.                 Paratva, distanza;
11.                 Aparatva, prossimità;
12.                 Gurutva, peso;
13.                 Dravatva, fluidità;
14.                 Sneha, viscosità;
15.                 Sabda, suono;
16.                 Buddhi-o Jñāna, comprensione o conoscenza;
17.                 Sukha, piacere;
18.                 Duḥkha, dolore;
19.                 Icchā-, desiderio;
20.                 Dveṣa, avversione;
21.                 Prayatna, sforzo;
22.                 Dharma, merito o virtù;
23.                 Adharma, demerito;
24.                 Saṃskāra, qualità riproduttiva del sé.

Ma in genere si parla di tre guṇa fondamentali:

1.       Tamas, inerzia;
2.       Rajas, impulso, accelerazione;
3.       Sattva, mantenimento, onnipervadenza.

Quando in 1.16[3] viene detto che l’estinzione della sete per i guṇa porta alla conoscenza del Puruṣa si sta indicando il fine ultimo del “controllo di saṃjñā”, ovvero il passaggio dal piano individuale al piano universale.
Puruṣa, talvolta usato per indicare il monte Meru, significa letteralmente “persona”, “essere umano”. Nella Manusmṛti, il più antico testo legale indiano si parla di tre diversi puruṣa, prathama – madhyama - uttama, che indicano tre diversi ruoli o livelli dell’amministrazione di una città o uno stato (alto ufficiale, funzionario, servitore…). Nei Veda è usato come sinonimo di nārāyaṇa, (“il primo uomo”, “il primo figlio di Dio”). Quando compare insieme alle parole para-, parama o uttama indica la “persona divina” identificabile con Brahmā, Viṣṇu, Śiva o Durgā.
I guṇa e i puruṣa nel vedānta sono collegati ai tre stati di coscienza sperimentabili dall’essere umano:

-      Jāgrat (“veglia”);
-      Svapna (“sogno”);
-      Suṣupti (“sonno profondo”).

Jāgrat, lo stato di veglia, è la condizione coscienziale in cui a causa del predominio di rajas guṇa l’anima individuale (jīva = “anima, essere vivente, ciò che causa la vita”) percepisce se stesso in uno spazio definito viśva (“universo, manifestazione grossolana”). Si tratta della condizione ordinaria di coscienza nella quale agiamo, pensiamo e parliamo normalmente.

Svapna, lo stato di sogno, è la condizione coscienziale in cui a causa del predominio di sattva guṇa il jīva percepisce se stesso in uno spazio definito taijasa (“brillante, luminoso, consistente di luce”). Si tratta della condizione “non ordinaria” di coscienza nella quale il sogno si mescola alla realtà vissuta o ricordata, la dimensione della magia e delle favole.

Suṣupti, lo stato di sonno profondo, è infine la condizione in cui il jīva, a causa del predominio di tamas guṇa, vive immerso nella luce di prājña senza essere in grado di percepirla, ma godendo di una condizione di inconscia beatitudine che nasce dall’apparente assenza di conflitti. Si tratta della condizione di “non coscienza, come nel sonno profondo, nello svenimento o nell’orgasmo.

Prājña, taijasa e viśva possono essere intesi come tre diversi palcoscenici, di un unico teatro, sui quali danza l’anima individuale in diversi momenti della propria esistenza (quando dorme, sogna ed è sveglio), tre territori di uno stesso regno che potremmo definire “individuale” o “soggettivo”.
Si tratta cioè della visione personale dell’universo creata dalla mente sulla base della memoria, dell’esperienza soggettiva e delle sovrastrutture culturali.

L’universo “personale” è lo specchio dell’Universo oggettivo, nel quale alle coscienze di veglia, di sogno e di sonno profondo corrispondono tre “entità” chiamate:

-      Vaiśvānara (“completo, onnipresente, universale”)
-      Hiraṇyagarbha (“feto d’oro, anima, corpo sottile”)
-      Īśvara (“colui che è abile, il Signore, il principe, il re, la regina”).

Vaiśvānara, Hiraṇyagarbha e Īśvara sono i “tre puruṣa” (prathama, madhyama e uttama) che rappresentano la realizzazione sul piano universale, del jīva allo stato di veglia, del jīva allo stato di sogno e del jīva allo stato di sonno profondo.
Quando in 1.16 Patañjali afferma che “si realizza il supremo distacco (vairāgya) quando estinguendo il desiderio dei guṇa insorge la conoscenza del puruṣa”, si riferisce alla realizzazione degli stati di coscienza del jīva “individuato” sul piano oggettivo, o universale.

Guṇa
Stati di coscienza
Piano individuale
(jīva)
Piano universale
(puruṣa)
Rajas
Jāgrat
Viśva
Vaiśvānara
Sattva
Svapna
Taijasa
Hiraṇyagarbha
Tamas
Suṣupti
Īśvara



[1] Vedi “2. ILFLUSSO MENTALE (1.1-4):
“Continuando la lettura degli “aforismi dello yoga” scopriremo in 3.9 e in 3.10 che per Patañjali nirodha è “un flusso tranquillo”.
[2]Dr̥ṣṭa-anuśravika-viṣaya-vitr̥ṣṇasya vaśīkāra-saṁjṇā vairāgyam”.
[3] Tatparaṁ puruṣa-khyāteḥ guṇa-vaitṛṣṇyam”.

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