Negli ultimi
tempi mi sono trovato spesso a discutere del rapporto tra pratica ed
erudizione.
L’erudizione,
soprattutto per un ricercatore o un formatore di insegnanti di Yoga, è una
necessità: conoscere la storia dell’India, le regole grammaticali del sanscrito
o i rapporti tra filosofia indiana e filosofia occidentale aiuta a farsi
un’idea attendibile del processo di nascita ed evoluzione di ciò che definiamo
Yoga e ad accumulare un bagaglio di nozioni indispensabili per chi, per lavoro
o per passione, si dedica alla divulgazione e all'insegnamento delle pratiche
psicofisiche indiane, ma in alcuni
casi l’erudizione – o meglio la fame di conoscenza "ordinaria" - può trasformarsi
in un problema.
L’essere
umano è spinto sempre ed esclusivamente dal desiderio: desiderio di conoscere,
desiderio di possedere, desiderio di ottenere piacere o sfuggire il dolore.
Persino la
ricerca del distacco dai piaceri sensoriali nasce dal desiderio, il desiderio
di liberarsi dalle passioni.
Il desiderio
di conoscere, alimentato dall'innata ansia di incompiutezza dell’essere umano,
può condurre ad una sorta di nevrosi che porta l’erudito al voler accumulare un
numero sempre più elevato di nozioni e a creare un personale sistema di
interpretazione che lo porta ad esaltare il suo sapere e a perdere di vista lo
scopo iniziale della sua ricerca: conoscere.
La nevrosi
nasce dai naturali limiti della mente umana (intendo la mente “raziocinante”):
il campo di azione della conoscenza "eruditiva" è infinito e ogni citazione, ogni
pagina, ogni libro rimandano ad altre citazioni, pagine e libri che
contribuiscono alla creazione di ardite architetture di parole, mirabili
sistemi di interpretazione della realtà creati dalla mente per la mente.
Molti di noi
conoscono il piacere che scaturisce dal pronunciare una “perifrasi ad effetto”
o dal narrare storie affascinanti che, lette o ascoltate da altri, sono state
fatte proprie con l’aggiunta di dettagli e coloriture personali che danno al
racconto il sapore dell’originalità o, addirittura, dell’esperienza vissuta.
Si tratta di
un piacere effimero, ma intenso, legato all'arte dell’affabulazione, simile
alla soddisfazione che si prova nel raccontare barzellette o nel proporre
indovinelli o giochi matematici.
È
letteratura, o meglio teatro.
Il teatro è una
gran bella cosa, si indossano maschere, parole e gesti altrui e si gioca a
rappresentare la realtà fino a comprendere, in alcuni casi, che la realtà
stessa non è altro che un gioco.
Il problema
nasce quando si dimentica la natura effimera del gioco, e scambiamo la maschera
per il volto.
Se uno per
tutta la vita, interpreta il ruolo del militare, del professore, dell’ingegnere
o del buon padre di famiglia poco male, ma se decide di abbracciare la via
dello yoga – o dello zen o del taoismo… - allora son dolori.
Nell'insegnamento dello yoga non si accumulano maschere ed abiti di scena, ma ci si spoglia
inesorabilmente – neti neti…non questo, non questo - di ogni genere di orpello.
Le perifrasi
ad effetto, i giochi di parole, le ardite costruzioni mentali si scontrano con
un muro bianco, impenetrabile, che viene detto qualificazione.
La
“qualificazione dell’aspirante” è il punto fondamentale dell’insegnamento dello
yoga (e dello zen e del taoismo…) ed è il meno comprensibile.
Ovviamente
non è cosa che riguarda le migliaia di onesti praticanti che aspirano a
migliorare lo stato di salute, sia fisico sia psichico - proprio e altrui, né a coloro che scelgono di
studiare e divulgare lo yoga o la filosofia indiana.
Ma coloro che
dicono o sperano di intraprendere la via verso quella che viene definita
“liberazione” o realizzazione –ovvero gli “aspiranti” – presto o tardi si
troveranno davanti al muro bianco.
La
qualificazione non dipende né dall’intelligenza, né dalla volontà, né –
tantomeno – dall’erudizione, ma da un insieme di fattori che –lasciando
perdere, per adesso, la teoria della reincarnazione – dipendono dalle influenze
della “Terra” - intese come talenti e caratteristiche ereditate insieme al DNA
- e dalle influenze del “Cielo” – intese
come influenze di particolari asterismi nel momento della nascita.
In fondo non
si tratta di un concetto di difficilissima comprensione: per fare un esempio
grossolano se io mi metto a studiare la vita, la maniera di parlare, la maniera
di allenarsi di Cristiano Ronaldo anche se mi alleno per 9 ore al giorno non
riuscirò mai – fino a prova contraria - a giocare a calcio come lui, giusto?
Per lo Yoga –
e lo zen e il taoismo – è la stessa cosa: l’insegnamento supremo - che conduce
ad esempio al raggiungimento dello stato raggiunto dagli 84 Mahāsiddha o dai 18 Luo Han tradizionali, o
alle cosiddette “realizzazioni parziali” - viene impartito solo a coloro che
per nascita o per caso hanno determinate caratteristiche.
Chi conosce
non superficialmente le dinamiche dell’insegnamento tradizionale sa benissimo
di cosa si sta parlando, prendete ad esempio il caso del discussissimo Sai
Baba: Aveva milioni di devoti che assistevano commossi alle sue esibizioni tra
virgolette magiche; migliaia di allievi, suoi e dei suoi assistenti e – in
tutta la sua vita – solo cinque (forse sei) persone che, fuori dai clamori e
dalle luci della ribalta, hanno avuto, come discepoli, l’opportunità di
accedere ai suoi insegnamenti sulla “Realtà ultima”.
Devoti,
allievi e discepoli sono i tre gradi dell’apprendimento tradizionale:
-
Il devoto è colui che riconosce nel Maestro il principio divino,
il “dio persona” o un tramite con la divinità.
-
L’allievo è colui che riconosce nel maestro, o nell'istruttore,
qualcuno che ne sa più di lui e passa un certo periodo ad imparare tecniche
tradizionali.
-
Il discepolo non riconosce, ma è riconosciuto dal maestro o da un
collaboratore del maestro, per così dire, “addetto ai riconoscimenti”.
Il
riconoscimento del discepolo, avviene in tre maniere diverse:
1.
Tramite una serie di coincidenze significative,
2.
Tramite una serie di segni fisici, solitamente localizzati nel
cranio e nel collo;
3.
Tramite l’analisi del tema astrale.
Un esempio,
assai noto, della prima modalità di riconoscimento è quella dell’episodio di
Buddha e kashyapa:
“Prima di
morire Buddha tiene un discorso davanti ad 80.000 monaci, improvvisamente tace
e solleva un fiore rosso. 79.999 monaci osservano sbigottiti, uno sorride, è
Kashyapa. Buddha “comprende” e gli chiede di seguirlo in una caverna dove gli
consegnerà il “sigillo di Buddha” ovvero la chiave dell’insegnamento supremo.
La seconda
modalità è interessante perché, soprattutto nelle scuole buddhiste e taoiste,
ci sono dettagliatissimi elenchi di segni fisici: da un particolare bozzo sul
sincipite, ad una particolare conformazione del “gozzo”, ad un triangolo
equilatero o disegnato dalle linee del palmo mano.
La terza
modalità dipende dagli Yoga positivi, ovvero dagli asterismi presenti al
momento della nascita. L’asterismo più positivo in assoluto è detto Rāja Yoga, ed è considerato un simbolo
della realizzazione in ambito spirituale (maestri illuminati, grandi guru ecc.)
e/o materiale (Re, grandi guerrieri, grandi politici).
Riconoscere una persona che ha il Rāja Yoga nel
tema di nascita non è affatto difficile: i fortunati possessori di questo
asterismo sono gli unici a poter disegnare sulla fronte il Rāja Tilaka, una
linea rossa verticale che dal punto tra le sopracciglia sale fin quasi
all’attaccatura dei capelli.
Veniamo
adesso alla parte più difficile della faccenda, difficile perché illogica
e,quindi, incomprensibile agli eruditi, più o meno consciamente impegnati nella
costruzione di un sistema logico e onnicomprensivo:
L’insegnamento
dello Yoga, di questo yoga, è soggettivo, nel senso che ogni discepolo o gruppo
di discepoli con la medesima qualificazione, riceverà un insegnamento orale
parzialmente o completamente diverso da quello impartito ad altri.
Per cercare
di spiegarlo faremo l’esempio del mantra.
Quanti di noi
hanno praticato o addirittura insegnato un mantra dopo averlo letto su un libro
o ascoltato durante una lezione o un rito?
Probabilmente
avranno notato che, a parte un generico benessere – quando va bene – il mantra non ha
provocato nessun effetto particolare.
La mancanza
di effetti sperimentabili può dipendere da due fattori:
1. L’ignoranza della struttura del mantra, che solitamente viene
insegnata nell'insegnamento orale;
2.
La non qualificazione del praticante, ovvero l’uso di particolari
suoni che su di lui sono “sterili”.
Tradizionalmente
un mantra è caratterizzato da sei membra:
1.
La “testa” è il ṛṣi,
ovvero l’autore del mantra che fa da tramite tra le energie della natura che si
vogliono “attivare” o “controllare”;
2.
La “gola” è il
“chanda”, inteso qui
come metrica e pronuncia;
3.
Il cuore è la divinità di riferimento, o mantra devatā,
ovvero la fonte dell’energia che si vuole attivare;
4.
I genitali sono il bīja, ovvero un “seme sonoro” da cui
prende origine il mantra, e che può sia essere esplicitato nel testo, sia
nascosto;
5.
Gli arti sono la Śakti, che va intesa come la particolare energia
di quello specifico mantra che fluisce nel corpo con uno specifico un ritmo ed
una specifica direzione;
Si dirà che
rintracciare su internet o in una buona biblioteca queste prime “cinque membra
del mantra” –a parte il movimento e il ritmo della Śakti che sono frutto
dell’esperienza – per un ricercatore o un semplice curioso non è affatto
complicato; più difficile sarà, senza un’istruzione tradizionale, recuperare la
sesta parte del mantra, il “kilak”, ovvero l’anima del mantra.
6.
Il kīlaka, letteralmente pilastro,è la chiave di accesso
al potere del mantra, ovvero la maniera di renderlo efficace.
Il kīlaka
– kilak – che alcuni intendono come l’insieme degli insegnamenti orali che
riguardano il significato del mantra e i riferimenti mitici, si riferisce
soprattutto alla maniera di recitare il mantra in relazione alla fisiologia sottile
e all’astrologia.
Senza il kīlaka
il mantra è sterile perché non innesta il processo definito nāḍī
bandha.
Quella dei bandha
- forse, la tecnica fondamentale dello Yoga medioevale –è una pratica che
consiste nel chiudere determinati canali energetici con la contrazione dei
muscoli sottili unita, all’esecuzione di particolari gesti (mudrā) - e
posture (āsana).
Nell’arte dei
mantra il nāḍī
bandha – ovvero la chiusura di determinati canali con la conseguente
“risalita” dell’energia definita Kuṇḍalinī - avviene – dovrebbe
avvenire – senza l’intervento della volontà sui muscoli sottili, ma
grazie alla corretta esecuzione, ovvero:
-
Giusto respiro;
-
Giusta intonazione;
-
Giusta pronuncia;
-
Giusta metrica;
-
Giuste visualizzazioni;
-
Giusto riferimenti astrologico-astrologici e, di conseguenza,
giusto momento del giorno o dell’anno in cui recitare il mantra[1].
Facciamo un
esempio con il “mio” mantra lunare.
Al momento
della mia nascita la Luna era in una posizione che nell’astrologia viene legata
alla costellazione dell’Ariete, in altre parole il mio segno lunare è l’Ariete.
Il mantra
della Luna in Ariete –ovvero i Bija efficaci durante questa configurazione
astrale che si verifica per due ore, una volta ogni 24 ore – è “AIṂ KLĪṂ SAUḤ”.
In genere questo mantra, che fa parte della tradizione
detta Śrī Vidyā viene recitato visualizzando il primo
suono – AIṂ – sulla punta della lingua, il
secondo - KLĪṂ – ai capezzoli e il terzo – SAUḤ – al glande.
Se voglio attivare il mantra nel momento più propizio
– ovvero durante il passaggio della luna dal segno dei Pesci al segno
dell’Ariete – lo dovrò visualizzare come una energia – per esempio un fluido
bianco e fresco, denso come il mercurio liquido - e fargli percorrere l’itero zodiaco a partire
dall’Ariete.
Nel corpo i segni zodiacali sono disposti intorno alla
“ruota dell’ombelico”, in questa maniera:
Segni Femminili
|
Segni Maschili
|
|
ARIETE
|
TORO
|
GEMELLI
|
CANCRO
|
LEONE
|
VERGINE
|
BILANCIA
|
SCORPIONE
|
SAGITTARIO
|
CAPRICORNO
|
ACQUARIO
|
PESCI
|
|
A sinistra
sono situati i segni maschili, mentre a destra sono situati i segni femminili.
La
recitazione dei tre bija per ogni segno zodiacale, avverrà quindi
contemporaneamente alla visualizzazione del liquido “lunare” che circola a spirale
seguendo il percorso Ariete-Toro-Gemelli-Cancro ecc. per tornare all’Ariete.
Dopo
108 ripetizioni, ovvero sei cicli completi dello zodiaco visualizzato intorno
all’ombelico, si attiveranno i “Maṇḍāla degli elementi” - TERRA, ACQUA, FUOCO,
ARIA, SPAZIO - disposti attorno ad ogni
“segno zodiacale” e si attiveranno i canali che collegano i “Maṇḍāla degli
elementi” dell’ombelico ai “Maṇḍāla degli elementi”delle narici, ecc. ecc.
Questa
pratica, che ha il massimo effetto durante l’equinozio di primavera e l’equinozio
di autunno – non produrrà nessun effetto, o produrrà effetti ridotti, in coloro
che:
1)
Non hanno la
Luna in Ariete nel Tema di nascita;
2)
Non sono
qualificati allo “Yoga delle energie sottili (detto talvolta Kriyā yoga da non
confondersi con gli insegnamenti di Yogananda);
Ovviamente
quello che ho fatto è solo un esempio, ma vediamo adesso su cosa si basa la pratica
che unisce i suoni agli asterismi.
Come abbiamo
accennato per lo yoga tradizionale – ovvero per l’elaborazione medioevale del
sapere vedico – la “persona umana” è frutto dell’unione di due fattori, uno,
diciamo terreno ed uno celeste.
Per fattore terreno
potremmo intendere il “plasma germinale” degli evoluzionisti del primo
novecento, un qualcosa che passa con il DNA di generazione in generazione
arricchendosi, di volta in volta, delle informazioni – o engrammi - relative alle esperienze dei
nostri genitori, nonni, trisavoli.
Per fattore celeste
potremmo invece intendere i मरीचि marīci o
“raggi della creazione”, provenienti dalle stelle.
I marīci sono
sono “radianze stellari” che provengono dalle 27 “mansioni lunari” dell’astrologia
indiana, nakṣatra.
Da ogni nakṣatra
provengono 13,3333(tredici e trentatré periodico) “raggi della creazione",
per un totale di 360 raggi - uno per ogni grado dell’Ellittica – che al momento
della nascita giungono nel corpo sotto forma di “suono luce” e vanno “a
nascondersi” sotto i sei cakra “fondamentali” in quest’ordine:
56 Relativi all’energia
“FUOCO” al mūlādhāra
cakra, il plesso del perineo;
62 Relativi all’energia
“FUOCO” allo svadhiṣṭhāna
cakra, plesso dei genitali;
52 Relativi all’energia
“SOLE” al maṇipūra
cakra, plesso dell’ombelico;
54 Relativi all’energia
“SOLE” allo anāhata cakra,
plesso del cuore;
72 Relativi all’energia
“LUNA” al viśuddha cakra, plesso della gola;
64 Relativi all’energia
“LUNA” allo ājñā cakra, plesso della fronte;
Di questi 360 raggi
252 restano “silenti”, nel senso che sono come semi che possono germogliare in
condizioni particolari e 4 raggi per ciascuna delle 27 “mansioni lunari”,
ovvero 108 - come i 108 elementi della natura secondo gli antichi fisici
indiani - attivano, per così dire, le innate caratteristiche che riconosciamo
in ogni persona: altezza, colore della pelle, occhi, carattere, emozioni…fino
al destino, un destino che è in qualche modo sempre potenziale, nel senso che
le energie provenienti dagli astri sono opportunità – yoga – che possono essere
colte o meno.
La combinazione di
quello che abbiamo chiamato “plasma germinale” (fattore terreno, identificabile
con le combinazioni delle 50 sillabe dell’alfabeto sanscrito inscritte nei
petali del cakra) e delle opportunità stabilite dai raggi della creazione al
momento della nascita, danno vita ad un “ente” assolutamente unico.
Nell'indefinita
possibilità delle combinazioni tra “plasma germinale” e “raggi della creazione”
accade che alcuni esseri umani abbiano delle caratteristiche molto simili ed
identiche, ed alcune di queste caratteristiche vengono identificate con i
“talenti innati” o qualificazioni.
La qualificazione
quindi è in pratica una opportunità di conoscenza.
Questa opportunità
può condurre a rivivere le esperienze fatte da persone vissute in un passato
recente o remoto e questo dà luogo ai concetti di reincarnazione, realizzazione
e lignaggio (परंपर paraṃpara).
Se grazie alla pratica
e all’erudizione, il praticante attiverà determinati “semi dell’esperienza” -
ovvero la qualificazione – si ritroverà nella stessa condizione psicofisica di
un tizio che, grazie alle medesime pratiche, lo stesso genere di erudizione e
le stesse qualificazioni ha attivato gli stessi “semi” cento, trecento o
duemila anni fa, e sarà, in un certo senso, considerato una sua incarnazione.
Questo significa che
gli esercizi che il maestro chiederà di fare al discepolo “X” avranno senso
solo per X e per coloro che abbiano la sua medesima qualificazione, e che potranno
essere completamente diversi da quelli che non hanno la sua qualificazione.
Esercizi quindi che
non potranno essere organizzati in un sistema didattico e non potranno far parte
di un qualsiasi testo o manuale teorico.
[1]
Questo attivarsi naturalmente del nāḍī
bandha e quindi del processo di risalita della energia definita Kuṇḍalinī,
secondo la fisiologia dello yoga, “potrebbe essere” causato dalla capacità del
mantra di “espellere” dal corpo il cosiddetto “soffio mediano” o samāna vāyu,
responsabile del “fuoco digestivo” o Jaṭharāgni.
L’espulsione
creerebbe una condizione di “vuoto” nei canali della zona dell’ombelico,
richiamando verso l’alto il cosiddetto soffio discendente - āpana – che,
riscaldandosi, si modificherebbe in Kandarpa vāyu – “vento del
desiderio” o “vento che infiamma anche gli dei” - provocando la risalita di Kuṇḍalinī.
Commenti
Posta un commento