HATHAYOGA - LA LINGUA PERDUTA DEI VEGGENTI- Aldenia Edizioni.
Prefazione di Malcolm Bilotta, foto di Francesca Proietti, copertina di Roberto Rizzotto (Photo Riz)
Tra pochi giorni uscirà nelle librerie il mio secondo libro : "HATHAYOGA-La lingua perduta dei veggenti", edito da Aldenia.
Devo ammettere che sono un po' emozionato.
Il libro che ho pubblicato lo scorso anno, "La via del sesso", che prendeva le mosse dalla mia esperienza personale, era fondamentalmente un libro tecnico, che partiva dall'analisi dei testi e dei simboli tradizionali.
In questo racconto innanzitutto la storia del mio rapporto d'amore con lo yoga e di come, negli ultimi dieci anni, le mie idee, la mia maniera di affrontare la realtà, la mia Vita, siano mutate profondamente.
Una rivoluzione a dir la verità.
Il libro è diviso in quattro parti:
nella prima parlo delle mie origini, di Yoga.it (il luogo virtuale che ha inciso non poco sulla mia pratica e sulla mia maniera di insegnare), del Gruppo Yoga Vedanta e della Scuola di Yoga Integrato.
La seconda parte è dedicata alle dodici posizioni della "serie di Rishikesh", alle varie maniere di assumerle (ci sono 150 foto fatte da mia figlia Francesca!), e al loro significato simbolico.
Nella terza descrivo le pratiche della visualizzazione dell'Ascolto Interiore (senza le quali lo Hatha Yoga non sarebbe altro che una salubre ginnastica)
Nell'ultima parte, infine, darò conto delle richerche (e delle scoperte, per me entusiasmanti) che ho fatto negli ultimi dieci anni grazie alla collaborazione e alla condivisione dei miei fratelli del gruppo Yoga Vedanta e di Yoga.it: Fabio, Gb, Onofrio, Andrea, Sandro, Laura Loto, Milena, Petulia, Marco, Riccardo, Ganesha, Jasmine, Cico, Elena, Albachiara, Mauro, Govinda, Malcolm....)
Qua di sotto in anteprima i primi due capitoli.
Un sorriso,
Paolo
I - LA TERRA DELL’OLTRE
"Non dovete credere nella forza delle tradizioni,
anche se sono tenute in grande considerazione per molte generazioni e in molti luoghi;
non credete in una cosa semplicemente perché molti ne parlano;
non credete basandovi unicamente sulle affermazioni degli antichi saggi;
non credete nelle cose che vi siete immaginati pensando che fosse un dio ad ispirarvi;
non credete in nulla che si basi solo sull'autorità dei vostri maestri o dei preti.
Dopo averle attentamente esaminate, credete soltanto alle cose che avete sperimentato e trovato ragionevoli, alle cose che faranno il vostro bene e quello degli altri".
Shakyamuni , "Kamala Sutta" , traduzione di Alexandra David Neel
“Realizzazione”, “Illuminazione”, “Stato Naturale[1]”
sono parole che un praticante di Yoga usa per descrivere la meta ultima della
sua pratica, uno stato di eterna beatitudine, una terra di pace e serenità
lontana anni luce dall’angoscia, dalla rabbia, dalla paura della morte che
colorano, di solito, la nostra vita terrena.
Per noi, che negli anni ’70 avevamo diciotto o
vent’anni, raggiungere la “Terra dell’Oltre” (come la chiamano i tibetani) era
quasi un imperativo morale. Molti, affascinati da Yogananda e dai racconti di
zii e fratelli maggiori, cominciarono a battere le strade dell’India e del
Nepal, nella speranza di incontrare Babaji, altri volarono in Messico sulle
tracce del mitico don Juan di Castaneda.
Alcuni scelsero la scorciatoia delle sostanze
psicotrope. Al giorno d’oggi la regina delle “droghe spirituali” è la
ayahuasca; ai nostri tempi ce n’era per tutti i gusti dal peyote al mescal,
dalla psilocibina all’acido lisergico (LSD).
Rifornirsene non era certo un problema: ai concerti,
alle serate in riva al mare o alle festa dell’Unità prima o poi spuntava un
improbabile sciamano di borgata che, col sorriso di chi la sa lunga, tirava
fuori da una borsa ricamata la sua personale “Erba di Dio”.
Ciò che ci univa era la ricerca, sincera della
"Sorgente", quella presunta, affascinante “Tradizione Unica” o
“Filosofia Perenne” di cui avevamo trovato le tracce nei film di Jodorowskji,
nei libri di Guenon e di Gurdjeff, nei
ricordi più o meno vividi del Socrate o del Plotino dei testi scolastici. Una
Scuola Eterna portatrice di un insegnamento, antico quanto l’uomo, che avrebbe,
di certo, soddisfatto il nostro desiderio di un “centro di gravità permanente”
e dato una qualche risposta ad esigenze che religione e ideologie non
sembravano più in grado di soddisfare. Non so quanti di noi abbiano raggiunto
la “Terra dell’Oltre”. Alcuni si sono persi sicuramente per strada. Altri sono
tornati a casa. Io insegno yoga.
Fig. 1 – Ritratto di Babaji di
Haidhakhan. Dalla fine degli anni
settanta al 1984,
anno della sua morte, furono
moltissimi gli Italiani che si stabilirono
nel suo Ashram, alle pendici
dell’Himalaya
II - YOGA.IT E IL GRUPPO VEDANTA
Dieci anni fa Malcolm Bilotta,
dalle pagine di Yoga.it, un forum
virtuale in cui si discuteva di yoga e filosofia, lanciò l'idea di organizzare una serie di incontri informali
tra praticanti di discipline orientali provenienti da scuole diverse, e a volte
in contrasto tra loro, con l'unico fine di condividere esperienze ed opinioni.
La sua esigenza nasceva dalla sensazione,
comune ad altri frequentatori del forum, che, in qualche modo l’enorme sviluppo
del “mercato della spiritualità” a cui avevamo assistito negli anni della New
Age, avesse in qualche modo prodotto, assieme ad un maggior scambio di
informazioni, una banalizzazione degli insegnamenti e, di conseguenza, una
progressiva perdita di significato di simboli e testi che definivamo
"tradizionali".
Il praticante di Yoga, di Qi Gong o di arti
marziali orientali, in un’ottica di mercato, diviene un cliente e ritenevamo
possibile che, al fine di avere un maggior numero di "clienti" alcune
scuole o gruppi o istituzioni avessero non falsato, ma in qualche modo
riadattato, per esigenze pratiche, gli insegnamenti originari.
Il mercato è basato sul concetto di
fidelizzazione: i clienti devono sentirsi in qualche parte di una comunità di
eletti e la necessità di sviluppare il senso di appartenenza porta ad inventare definizioni, simboli e tecniche
che, di quella comunità di eletti,
diventano un segno distintivo.
Un altro possibile motivo delle apparenti
contraddizioni e dissonanze che credevamo di vedere esaminando, dal nostro
punto di vista, certe linee di insegnamento, era la necessità di eliminare o
mettere in secondo piano quelle simbologie e quei concetti che potevano entrare
in conflitto con credenze, abitudini, ideologie dell'occidente cristiano.
Nel 2006 cominciarono gli incontri di quello
che in seguito chiamammo “Gruppo Yoga Vedanta” [2]. Periodicamente ci ritrovavamo
in luoghi diversi (ad Ansedonia, dove all’epoca avevo una casa, alla Cascina “Le
Querce” di Borgo Taro o a San Terenzo, vicino a Lerici dove Malcolm aveva un
Centro Yoga ed esercitava la professione di psicologo) e passavamo due o tre
giorni a praticare Haṭhayoga, a discutere dei testi tradizionali,
a litigare sull’interpretazione di un
versetto o di una tecnica. Alcuni di noi erano insegnanti di Yoga, altri
marzialisti, ma c’erano anche ricercatori scientifici, manager, musicisti.
Nessuno di noi riconosceva in uno del gruppo un maestro o un Guru.
In poco
tempo, senza che ce ne rendessimo conto il Gruppo Vedanta prese l’identità di quello
che io definisco un “gruppo tradizionale”: una comunità di persone che mettono a
disposizioni i propri talenti (e talvolta ne scoprono altri che non credevano
di possedere) con l'unico scopo di condividere le proprie esperienze e le
proprie emozioni, un gruppo di “ricercatori della verità”,
avrebbe detto Gurdjeff. Anche se può sembrare buffo cominciammo a chiamarci,
tra di noi, fratello e sorella.
Ciò che
chiamavamo “sapere”, ovvero le credenze, i luoghi comuni, le teorie apprese dai
libri cui molti di noi, bisognosi di certezze, si erano aggrappati per anni,
nelle lunghe pratiche di gruppo, negli esperimenti e nelle discussioni serali
si sciolsero come neve al sole.
Alla fine
“scoprimmo l’acqua calda”: se esiste una verità immortale non possiamo trovarla
nelle teorie e nelle ideologie, ma nel cuore dell’uomo. È quello il luogo in
cui, gli antichi Veggenti, i ṛṣi
vedici, scoprirono, o almeno così si dice, quei segreti dell’Universo che
cercarono di tramandare attraverso lo Yoga.
Credo che Yoga.it
e il Gruppo Vedanta mi abbiano insegnato una cosa fondamentale: la “Tradizione
Unica” o come la chiamano gli indiani, il Sanātana
Dharma non è altro
che la natura dell’essere umano, e non la puoi trovare né in India né sulle
montagne peruviane, ma dentro di te, e nello sguardo di chi ami.
Fig. 2 - Borgotaro, ottobre 2010, M.R e R. C. I.
predispongono la strumentazione per la mappatura delle aree celebrali dei
praticanti in meditazione.
[1]
Lo Stato naturale è la meta di tutte
le filosofie e le tecniche psicofisiche
orientali. In giapponese, ad esempio, si dice Shi
Zen.
Shi Zen è la pronuncia giapponese di Ziràn (Tzu-jan), una delle parole chiave del taoismo, riportata
più volte nel Daodejing di Lao Tzu.
Zìrán 自然 significa, natura, naturalmente, spontaneamente, stato naturale. Lo si può interpretare
come "non intaccato dalla volontà e dalla mente umana".
Zìrán è anche un concetto estetico: ciò che è bello di per sé è chiamato zìrán. In cinese si
pronuncia Tzraa(n) ed è formato dagli ideogrammi 自zì (Sé', personale, proprio, che proviene
da...) e 然rán (affermativo, certamente, certo, pegno, promessa).
A sua volta Ziràn è la pronuncia cinese della parola sanscrita सहज Sahaja.
Shi zen, Ziràn e Sahaja sono esattamente la stessa parola(con il medesimo significato) pronunciata in maniera diversa.
Lo stesso avviene per Zen, Chan e Dhyana ecc.
Gli stessi vocaboli esprimono i medesimi concetti in India , Cina, Giappone.
Lo stato naturale è lo stato originario dell'essere umano.
Lo stato in cui non c'è nessun conflitto.
Lo stato in cui si è in armonia con la legge naturale.
E' lo stato in cui si riconosce la propria vera natura o Vedasvarupa.
più volte nel Daodejing di Lao Tzu.
Zìrán 自然 significa, natura, naturalmente, spontaneamente, stato naturale. Lo si può interpretare
come "non intaccato dalla volontà e dalla mente umana".
Zìrán è anche un concetto estetico: ciò che è bello di per sé è chiamato zìrán. In cinese si
pronuncia Tzraa(n) ed è formato dagli ideogrammi 自zì (Sé', personale, proprio, che proviene
da...) e 然rán (affermativo, certamente, certo, pegno, promessa).
A sua volta Ziràn è la pronuncia cinese della parola sanscrita सहज Sahaja.
Shi zen, Ziràn e Sahaja sono esattamente la stessa parola(con il medesimo significato) pronunciata in maniera diversa.
Lo stesso avviene per Zen, Chan e Dhyana ecc.
Gli stessi vocaboli esprimono i medesimi concetti in India , Cina, Giappone.
Lo stato naturale è lo stato originario dell'essere umano.
Lo stato in cui non c'è nessun conflitto.
Lo stato in cui si è in armonia con la legge naturale.
E' lo stato in cui si riconosce la propria vera natura o Vedasvarupa.
[2] Oltre a me ed a Malcolm facevano parte di quel gruppo
iniziale Fabio Cozzi, Onofrio Amendola, Petulia Lera, Gianni Bencista, Sandro “Yogasan”, Laura
Nalin, Francesca Ciccarella, Andrea Pagano, Marco Rotonda, Riccardo Cassian
Ingoni, Graziano “Zap”, Laura Voltolina
di Guenon e di Gurdjeff
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