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ESTASI E CONOSCENZA: L'INIZIO DEL VIAGGIO


"L'inizio del viaggio", tratto da Estasi e Conoscenza, il Ruolo della Donna nel Tantra, Edizioni Aldenia, Firenze 2018.



LA DEA
L’inizio del Viaggio

"Non c'è più giorno per me, né notte. 
Ho ridato il sonno a Colei cui apparteneva.                
Ho mandato il sonno a dormire per sempre. 
Amo la Tua oscura bellezza,
Il battito del Tuo cuore, i capelli arruffati,
Ti amo e ti venero"           
(Ramprasad Sen)



La prima volta che sono morto avevo un anno e mezzo.
Forse due.
All’improvviso ho smesso di respirare.
Il babbo era fuori, a Roma.
Mamma andò a bussare ai vicini, disperata.
Ci hanno portato all'ospedale di Livorno.
Una suora l'ha abbracciata e ha cominciato a dirle che era giovane, che le vie della Provvidenza sono infinite, che i bambini sono angeli... e tutte le altre banalità che si tirano fuori quando la disperazione rischia di mutarsi in rivolta contro un Dio troppo lontano.
Di colpo mi sono messo a piangere: il pianto della fame, diceva mamma quando raccontava la storia.
 “Quelle cose lì” cominciarono subito dopo.
Mi mettevo a fissare le conchiglie o i gusci delle chiocciole di mare e andavo nella spirale per dieci, venti...cento volte, finché non girava tutto. Allora mi lasciavo cascare a terra, e si faceva buio.
Dopo stavo alla grande, pieno di un'energia morbida che non sapevo chiamare per nome. L'aria era più densa e anche i colori. Le cose invece quasi si scioglievano.
Per me era una cosa normale: mi piaceva sentire le mani che entravano e uscivano dal materasso, dai muri o dal tavolo di formica gialla che stava in cucina.
Mi metteva lì sopra, mamma, quando strusciava per terra.

Quando ho cominciato ad andare a scuola maestre e compagni mi hanno convinto che i miei stati di alterazione, le visioni e i sogni premonitori non erano cose normali. Poi, per fortuna, è venuto lo yoga, e ho scoperto che non ero morto, ma avevo vissuto un’esperienza che viene detta samādhi e “Quelle cose lì” erano fenomeni tutto sommato comuni, normali conseguenze dell’esperienza.
Samādhi è il sentirsi uno con l'universo e il percepire come tutti gli eventi si pieghino al volere di una potenza sconosciuta che ti sta indicando una strada, “quella” strada.
Samādhi è l’esperienza straordinaria che confonde e trasforma la mente. 
A volte è il risultato di esercizi, di pratiche ascetiche o dell’assunzione di droghe.  Altre accade, così senza motivo.
D’improvviso gli oggetti esterni ci paiono essere più luminosi, i colori più vivi, le piante sembrano crescere più velocemente e sembra che lo facciano solo per mostrarti la loro Bellezza.
Accade di pensare ad un animale o ad una persona ed ecco che compaiono. 
I testi sacri ci sembrano improvvisamente chiari (e lo sono!) e si indovinano tracce e coincidenze che agli altri sembrano oscure. 
Chiudendo gli occhi figure meravigliose e coloratissime compaiono nella nostra mente e visualizzando una Dea o una figura mitica essa appare come fosse reale. 
Il samādhi (“questo samādhi”) è la  fase "caleidoscopica" della pratica,  la meraviglia del mondo creato dalla Dea che si palesa davanti ai nostri occhi. 
Tutto è meraviglioso e si ha l'idea di aver compreso in un istante tutto ciò che c'è da comprendere.  Questi stati sono spesso temporanei. 
Può accadere che non tornino neppure più e ne resti solo il ricordo. 
Da alcuni il ricordo è conservato come un segreto tesoro, da altri è trasformato in una sorta di nevrosi da "paradiso perduto" e la vita si trasforma in un'accanita ricerca di quello stato di beatitudine. 
Nel Tantra si dice sia possibile - una volta che si sia esperito il samādhi in coppia, facendo l’amore – vivere per sempre in uno stato di estasi, una dimensione di beatitudine che i Tibetani chiamano Terra Pura.
I primi approcci con gli insegnamenti tantrici li ho avuti negli anni ’70, grazie agli Orange di Osho (che si chiamava ancora Bhagwan Shree Rajneesh) e ad una discepola di Babaji di Haidakhan, ma è stato con il Buddismo tibetano, che penso di aver compreso cosa sia, davvero, il Tantra. Nonostante ciò che si crede, quando si va in profondità, non c’è alcuna differenza sostanziale tra il Tantra induista e il tantrismo del Tibet. Spesso anche i nomi sono gli stessi: Śiva è uno dei protettori degli insegnamenti, e le tecniche sessuali si chiamano Tantra di Viṣṇu.
Quando sono stato iniziato alla via della Dea dai monaci Gelugpa, avevo già trentasei anni. Non ero buddista, né induista. Non lo sono neppure adesso. Non ho mai aderito a nessun credo religioso, se devo dire la verità, e non ho mai cercato Dio, pensavo fosse ovunque, qui ed ora. Non ho nemmeno mai cercato un guru. In fin dei conti non ho mai cercato niente, ma ho vissuto per anni come uno “straniero in terra straniera”.
Quella di essere altro da me o di essere stato altro da me, è una sensazione che mi accompagna da sempre, ma non mi piace parlare di reincarnazione. Spesso chi è insoddisfatto della propria esistenza trova rifugio in ricordi letti sui libri e si crea vite passate terribili o meravigliose. Credere che si è morti re, eroi, maghi o assassini rende meno noiosa la vita quotidiana.
Con i monaci mi ritrovai subito a casa. Li avevo incontrati a Roma. Facevo spettacoli, allora, e mi avevano chiesto di danzare durante una sfilata di moda. Filena, la regista, aveva proposto di rasarmi a zero, e a me era sembrata una buona idea.
Se si è abituati a portare i capelli lunghi, con la testa nuda ci si sente pulcini bagnati. Per superare l'imbarazzo andai a passeggiare per via Cola di Rienzo, in centro e, quasi subito, incrociai tre monaci tibetani[1] con tanto di tunica amaranto e mala al collo.
  - “What are you doing dressed like this? “- mi disse il più anziano dei tre - “it's funny! “-
Gli altri due ridevano come scemi. Hanno un senso dell'umorismo particolare i tibetani.
- “Where is your tunic?” -
Salutai a mani giunte e cambiai strada. Tre mesi dopo ero in ritiro insieme ad altri 11 occidentali, e Lobsang Jinpa, Lobsang Dhosam e Puntsok, il thailandese, erano i miei istruttori.
Fu quando ci iniziarono al mantra di Tārā Verde che scoprii che la Dea è una donna, in carne ed ossa. Tārā, la “Madre di tutti i Buddha”, è l'energia creativa dell'Universo. Per gli indiani è una delle dieci forme della Dea, le Mahāvidyā, i Tibetani la chiamano Dölma e pensano abbia il vezzo di scendere sulla terra, in forma umana, anche due o tre volte ogni era.
La prima “Donna/Dea”, ci raccontò Jinpa, fu Yeshe Dawa, la “Saggezza della Luna”, vissuta migliaia di anni prima di Shakyamuni. Anche allora, ci raccontò Jinpa, c'era un Buddha, uno yogin illuminato, che girava paesi e città per insegnare la legge del Dharma: lo chiamavano Tonyo o Toyon Dorge. Yeshe era una sua allieva.
Si dice fosse così bella che “il vento si fermava per guardarla e la sua voce era così dolce che gli dei scendevano dai cieli per goderne”.
Il suo nome si sparse nei tre mondi e attorno ai fuochi, nelle sere d'estate, se ne cantavano le gesta. Si sussurrava fosse un'illuminata, ma una Buddha femmina non si era mai vista e un po' per abitudine, un po' per interesse, si insegnava che solo incarnandosi nel corpo di un uomo ci si potesse liberare dal samsara, la catena delle rinascite, e guadagnarsi i gradi di “illuminato”. Preti e yogin si riunirono per discutere il da farsi. Cercarono nei libri antichi, ascoltarono gli oracoli, lessero gli astri ed evocarono gli antenati. Alla fine trovarono una soluzione. Il più anziano andò da Yeshe, si inginocchiò e le parlò così:
- “Oh saggia Yeshe! 
Luminosa come la falce della Luna e infinita, come l'Oceano Senza Sponde.
Se solo tu fossi uomo!
Un nuovo Buddha camminerebbe assieme a noi per la felicità di tutte le creature.
Ti scongiuriamo!
Va in una grotta, siediti e rivolgi la tua mente al bene degli esseri senzienti.
Mutati in un maschio.
Oppure prega che, nella prossima vita, tu possa indossare vesti virili.
Solo chi ha essenza maschile può essere un Buddha! “-

“Saggezza della Luna” stette in silenzio per un bel po'. Poi sorrise, col sorriso di una Dea, e unì le dita nel gesto della conoscenza:
- “Ti ringrazio, ma temo che le tue parole siano frutto di un errore.
Se guardo, con gli occhi del cuore, non riesco a trovare, nell'Universo intero, un solo uomo.
E neppure una donna.
Sono solo forme, diverse tra loro quanto l'onda e l'acqua.
È vero, molti sono i Buddha che han scelto di discendere come uomo, ma sono forse i peli sulle guance a far sbocciare il loto del Nirvana?
No, mi spiace, non farò sacrifici agli dei per assumere forma maschile.
Per il bene degli esseri senzienti, rinascerò mille e mille volte ancora in un corpo di donna, fino alla fine dei tempi” –

Da allora la Dea in ogni epoca discende sulla Terra per dare forma fisica, insieme, all’Estasi e alla Conoscenza.
- “She's a Woman” - disse Jinpa, è una donna la Dea, ma è anche uno strumento per il meditante, un “Ydam” (ishtadevata in sanscrito), che dorme nello spazio segreto del cuore delle nostre compagne. Risvegliarlo significa entrare, insieme, in una dimensione non ordinaria, la Terra della Beatitudine. Così almeno dicono i testi antichi. Molti credono si tratti di leggende, favole nate dalla fantasia di anonimi cantastorie addolciti dal vino e dal tramonto. Lo credevo anch’io, fino a pochi anni fa.





[1] Vedi “Tantra, la via del sesso”, Edizioni Aldenia, Firenze 2015

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