Il 23 settembre prossimo, nell'ambito dell'incontro mensile del Corso di Formazione insegnanti Citra Yoga (info: info@madreterraitalia.it ), condurrò una master class su Citta Saṃtāna (tibetano
sems rgyud.Rgyud), il Flusso Mentale la cui percezione rappresenta, allo stesso tempo, lo strumento e il punto d'arrivo delle pratiche meditative.
Tecnicamente Citta-Saṃtāna è "il flusso, consequenziale, degli istanti di consapevolezza sperimentati dal praticante".
Per fare un esempio è come se facessimo una serie di sogni nei quali,,ogni volta, la storia comincia dal punto in cui si era interrotta nel sogno precedente.
Anche se ciascun sogno avvenisse a distanza di mesi o anni dal precedente, avremmo la sensazione di un "continuum",come un film che, nonostante sia interrotto dagli spot pubblicitari, mantiene la propria coerenza narrativa. Citta-Saṃtāna,inteso come sequenza di istanti di pura consapevolezza, è ciò che ci permette una continuità coscienziale sia durante la vita terrena (una specie di centro di gravità permanente), sia tra una vita all'altra, quasi fosse la fiamma che viene passata da una candela all'altra.
Il "flusso mentale" in pratica ci fornisce una continuità della personalità in assenza di quel "sé" assoluto, che va tanto di modo nelle pratiche post-new age, di cui il buddhismo delle origini negava l'esistenza.
Ma c'è dell'altro:
Citta-Saṃtāna è la base di ciò che viene talvolta chiamato "tulpa", ovvero la capacità, magica, di creare immagini, oggetti e fenomeni con il potere della mente.
Buddha riesce a creare un corpo mentale, o manomāyakāya, ( vedi Samaññaphala Sutta) e a moltiplicarlo fino a riempire il cielo di infinite forme a sua somiglianza (vedi Divyāvadāna),proprio grazie all'utilizzazione del flusso mentale.
Nel Patisambhidamagga (canone Pali) e nell Visuddhimagga di Buddhaghoṣa, si afferma che gli yogin, usando Citta-Saṃtāna possono creare un corpo mentale con il quale viaggiare nei regni terreni e nei regni celesti.
Questa capacità di usare il flusso mentale viene definita nell'Abhidharmakośa di Vasubandhu "nirmita", mentre Asanga nel Bodhisattvabhūmi la chiama "nirmāṇa" e la definisce "un'illusione magica e fondamentalmente, qualcosa senza una base materiale".
In tempi moderni Alexandra David-Neel (vedi: David-Neel, Alexandra; DʼArsonval, A. 2000. Magic and Mystery in Tibet. Escondido, California: Book Tree) definisce i tulpa "formazioni magiche generate da una potente concentrazione di pensiero" e racconta di essere stata testimone di fenomeni paranormali legati al Citta-Saṃtāna nel Tibet del XX secolo.
Secondo David-Néel "un Bodhisattva completo è in grado di eseguire dieci tipi di creazioni magiche."
Il potere di produrre formazioni magiche durature che abbiano effetti nella realtà materiale non apparterrebbe solo ai grandi illuminati: ogni essere vivente sarebbe in grado di generare delle "forme pensiero" (altra definizione di tulpa)il cui grado di "realtà" dipenderebbe solo dai diversi livelli di concentrazione del praticante.
Secondo Alexandra David-Néel i tulpa avrebbero la capacità di sviluppare una propria mente: "Una volta che il tulpa è dotato di sufficiente vitalità per essere capace di recitare la parte di un essere reale, tende a liberarsi dal controllo del suo creatore. Gli occultisti tibetani, accade quasi meccanicamente, proprio come il bambino, quando il suo corpo è completato e capace di vivere a parte, lascia il grembo materno.
La studiosa franco-belga sosteneva di aver creato personalmente un tulpa nell'immagine di un "frate allegro". Il frate in seguito avrebbe sviluppato una vita propria e dovette essere distrutto. "Forse" scrive ancora David-Néel "ho creato la mia allucinazione, ma anche gli altri potevano percepirla" .
Il "flusso mentale" sarebbe quindi sia una via per liberarsi "dalla catena delle rinascite", sia la chiave per accedere ai poteri magici.
Leggende?
Possibile.
Di certo l'immagine dei buddhisattva che creano dei corpi mentali a loro immagine,dotati di coscienza propria, e li mandano in giro per questo e per gli altri mondi stride un pochino con l'idea che abbiamo oggi del monaco buddista.
Ci hanno insegnato che la pratica buddhista, è finalizzata alla quiete della mente e al distacco dai desideri, mentre a leggere testi come Divyāvadāna Patisambhidamagga
e Visuddhimagga pare che Buddha e i suoi discepoli fossero dei maghi che facevano mostra, senza troppo pudore, dei loro incredibili poteri psichici .
Comunque sia credo sarebbe interessante sapere come sia possibile attivare (o percepire,o comprendere) Citta Saṃtāna.
I metodi buddisti,a quanto credo di aver capito, non differiscono in nulla dagli insegnamenti di Patañjali, anzi gli Yoga Sūtra, secondo me descrivono, in buona parte, le tecniche di attivazione del flusso mentale, solo che vanno letti con attenzione, facendo caso all'uso delle singole parole e al significato che queste assumono nella letteratura indiana.
Patañjali nel primo libro, usando moltissimi di termini tecnici buddhisti, descrive tutta una serie di metodi per purificare la mente, attivando così quello che abbiamo chiamato "flusso mentale". I suoi insegnamenti, se si fa riferimento agli insegnamenti di Buddha, sono assai chiari, ma di solito i commentatori preferiscono ignorare i legami tra le due tradizioni rendendo alcuni versetti assai poco comprensibili.
Faccio un esempio con il versetto 1.21.
Nel versetto precedente (1.20) Patañjali descriveva un percorso graduale che il praticante doveva intraprendere per purificare la mente e realizzare un particolare stato di coscienza/conoscenza. adesso scrive:
तीव्रसंवेगानामासन्नः ॥२१॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ ॥21॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ ॥21॥
Sentite come traducono tre dei più grandi maestri del'900:
1) Swami Satchidananda:
"To the keen and intent practitioner this [Samadhi] comes very quickly".
2) Swami Prabhavananda:
"Success in yoga comes quickly to those who are intensely energetic".
3) Swami Vivekananda:
"Success is speeded for the extremely energetic".
In pratica i tre concordano con l'affermare che ,secondo Patañjali "più alacremente si lavora e prima si raggiunge l'obbiettivo".
Se lo dicono loro tre non c'è che da credergli, e infatti la maggior parte dei commentatori moderni si adegua alla loro interpretazione.
Ma, mi chiedo, è possibile che il testo più importante dello yoga ci dica che bisogna "usare l'olio di gomito", possibile che gli insegnamenti di Patañjali siano a livello di "chi dorme non piglia pesci"?
Sono andato a cercare il significato delle singole parole sul vocabolario Monier-Williams ed ho trovato delle cose interessanti:
Tīvra = “aspro, severo, intenso”.
Saṁvegāna =
“meraviglioso, impetuoso, veemente, terribile, shock emotivo”.
Āsanna = “vicino, nelle vicinanze, prossimità”.
Da dove prendono i tre maestri le parole "pratica, yoga, successo"?
La cosa più stravagante è che nessuno di loro presta attenzione all'uso che si fa nel buddhismo e nell'estetica indiana (Abhinavagupta) del termine saṁvegāna, in pali samvega.
Si tratta di un sinonimo di "vismaya" (stupore) e indica l'abbassamento del livello di coscienza che si prova di fronte ad una profonda esperienza estetica (sindrome di Sthendhal), ad un piacere sublime o ad un dolore devastante.
Saṁvegā è la condizione che precede l'illuminazione del Buddha e l'insegnamento delle quattro nobili verità e dell'ottuplice sentiero.
Si tratta dello shock emotivo che Shakyamuni sperimenta dopo aver meditato sulla malattia,la vecchiaia e la morte, uno dei fondamenti dello yoga buddista.
Possibile che Swami Satchidananda, Swami Prabhavananda e Swami Vivekananda non conoscessero i fondamenti del buddhismo?
Non credo. Probabilmente hanno deciso, a ragione, di non tenerne conto.
Magari, chissà, gli insegnamenti di Patañjali in proposito di flusso mentale e di poteri psichici sono così chiari che i tre hanno preferito mescolare le carte per impedire che mente non preparate potessero accedere a tecniche potenzialmente pericolose.
Comunque sia, se si procede alla traduzione degli Yoga Sūtra tenendo conto delle scritture buddhiste, assumono significati inaspettati.
Sembra quasi che Patañjali abbia voluto indicarci la via per accedere a Citta Saṃtāna ed utilizzarlo sia per fini magici (dedica un intero capitolo alle siddhi, o poteri psichici) sia per la realizzazione finale.
Un Patañjali molto più buddhista di quanto si possa credere.
Per dare un'idea delle possibilità che offre questo genere di interpretazione, e della visione che gli Yoga Sūtra danno del Citta Saṃtāna incollo alcuni brani della traduzione che ne sto facendo. Eventuali commenti, critiche e consigli sono ovviamente più che bene accetti.
Un sorriso,
P.
भवप्रत्ययो विदेहप्रकृतिलयानम् ॥१९॥
bhava-pratyayo videha-prakṛti-layānam ॥19॥
bhava-pratyayo videha-prakṛti-layānam ॥19॥
Bhava = “nascita, stato di esistenza, venire ad essere,
ottenimento”[1].
Pratyaya = “concetto, nozione, idea, verità fede, causa di
ogni cosa”.
Videha = “incorporeo, disincarnato”.
Prakrti[2] = “natura, origine, fonte primaria”.
Layana = “luogo di riposo, giacere, aderire”.
Prakrtlaya = “particolare classe di yogin”[3].
19. Coloro che hanno il potere di uscire dal corpo (videha) risolvendosi nella prakṛti
realizzano questo secondo tipo di coscienza/conoscenza in virtù della nascita, ovvero
di talenti ereditati dagli avi o da incarnazioni precedenti.
श्रद्धावीर्यस्मृति समाधिप्रज्ञापूर्वक इतरेषाम् ॥२०॥
śraddhā-vīrya-smṛti samādhi-prajñā-pūrvaka itareṣām ॥20॥
śraddhā-vīrya-smṛti samādhi-prajñā-pūrvaka itareṣām ॥20॥
Śraddhā = “fede, fiducia, credenza, desiderio, appetito”.
Vīrya = “eroismo, forza, potere, virilità”.
Smṛti = “memoria, rimembranza, l’insieme delle scritture
tradizionali non rivelate”.
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance
yogica”.
Prajñā = “saggezza, intelligenza, conoscenza, una particolare
śakti (energia) legata alla dea Sarasvatī e all’ādi-Buddha”.
Pūrva = “primo, iniziale, antico, precedente, est”.
Pūrvaka = “avo, antenato, ciò che precede”.
Prajñāpūrvaka = sinonimo di buddhipūrvaka
“deliberato, iniziato con intelligenza, preceduto dal discernimento”.
Itareṣām[4] = “di altri, degli altri”.
20. Gli altri devono seguire un percorso graduale le cui tappe sono:
1) Fiducia incrollabile (śraddhā).
2) Energia instancabile (vīrya).
3) Memoria (smṛti[5]).
4) Assorbimento (samādhi[6]).
5) Consapevolezza (prajñā).[7]
तीव्रसंवेगानामासन्नः ॥२१॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ ॥21॥
tīvra-saṁvegānām-āsannaḥ ॥21॥
Tīvra = “forte,
severo, aspro, intenso”.
Saṁvegāna[8]
=
“impetuoso, veemente, meraviglioso, terribile, shock emotivo”.
Āsanna = “vicino, nelle vicinanze, prossimità”[9].
21. Questo percorso realizzativo viene innescato o accompagnato dalla pratica
dello shock emotivo (per esempio dalla meditazione sulla malattia, la vecchiaia
e la morte o sulla caducità della bellezza)[10].
मृदुमध्याधिमात्रत्वात्ततोऽपि विशेषः ॥२२॥
mṛdu-madhya-adhimātratvāt-tato'pi viśeṣaḥ ॥22॥
mṛdu-madhya-adhimātratvāt-tato'pi viśeṣaḥ ॥22॥
Mṛdu = “gentile, leggero, morbido, delicato, tenero”.
Madhya = “mezzo, mediano, centro, centrale”.
Adhimātra = “eccessivo, fuori misura”.
Tatas = “da quello, da quel posto, quindi”.
Api = “anche”.
Tataḥ api = “meglio per loro, meglio di loro, per quella ragione”[11].
Viśeṣaḥ = “discriminazione, distinzione, differenza,
peculiarità”.
22. Ci sono tre diversi stadi o livelli
di pratica di questo percorso realizzativo: lieve, medio e supremo[12].
[1] Per i
buddhisti “continuità del divenire”, uno dei dodici anelli della catena
causale.
[2] Prakr̥ti, letteralmente “Natura, sostanza originaria, origine della manifestazione”,
è sinonimo di māyā, śakti ecc. “Risolversi nella prakr̥ti” equivale a dire “risolversi
nella Dea o “divenire uno con la Dea”.
[3] La parola layā significa
“dissoluzione”, layārka, ad esempio,
è il sole nel momento della ciclica dissoluzione dell’Universo. il termine
prakṛtilaya
indica una particolare classe di yogin che prativa il layāyoga, sinonimo di kuṇḍalinī
yoga.
[4] In Bhāgavata Purāṇa 8.24.30 la parola itareṣām indica “i semidei”.
[5] La maggior parte dei commentatori traduce, correttamente, smr̥ti con memoria, ma potremmo anche
considerarla come l’insieme dei poemi epici e dei testi di applicazione e
interpretazione dei Veda, detto, appunto, smr̥ti, o come “ricordo sé”.
[6] Samādhi,
talvolta usato come sinonimo di dhyāna
o jhāna nel buddhismo è l’esperienza
che apre le porte a prajñā, la
condizione di conoscenza intuitiva che permette, a sua volta, di accedere alla
bodhi, o Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi
di jhāna: quattro meditazioni con forma (rūpa)
e quattro meditazioni senza forma (arūpa
jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti.
Come vedremo sia i termini che gli insegnamenti ad essi relativi, sono simili o
identici a quelli che incontriamo in questo testo.
Secondo molti
commentatori, i quattro rupa jhana
sono un contributo originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione
vedica. Gli arupa jhana invece erano
incorporati nelle tradizioni ascetiche non buddiste.
[7]
Il versetto 1.20 è uno dei meno facilmente interpretabili. Alcuni commentatori
considerano Prajñāpūrvaka un unico termine, dandogli il significato di “supremo
discernimento”. Altri legano prajñā a samādhi, considerandoli, nel loro
insieme, la meta che il praticante si propone di conseguire (samādhi prajñā =
“unione con prajñā”). Se si tiene conto degli insegnamenti buddhisti e della
probabile influenza che hanno esercitato su Patañjali il versetto assume invece
altri significati.
Dovremmo
considerare innanzitutto prajñā e samādhi due condizioni di
coscienza/conoscenza legate tra loro ma intimamente diverse. In un certo senso,
per il buddhismo, “prajñā è la luce e
samādhi il lampo”, ad indicare che
prajñā è la consapevolezza che illumina ogni istante della vita dello yogin,
mentre samādhi è, per così dire, “un
momento di suprema consapevolezza”, la visione momentanea, non stabilizzata,
della luce di prajñā.
In quest’ottica
il percorso di addestramento indicato nel versetto 1.20 potrebbe essere
assimilato alle sei pāramitā
(“perfezioni”), del buddhismo mahāyāna:
1) Dāna, “generosità”.
2) Sīla, “corretto agire”.
3) Kṣānti,
“pazienza, resistenza”.
4) Vīrya, “energia, entusiasmo,
diligenza”.
5) Dhyāna (in questo caso sinonimo di samādhi), “meditazione, assorbimento.
6) Prajñā, “conoscenza discriminante,
conoscenza intuitiva, piena consapevolezza”.
Nel buddhismo
theravada gli strumenti del praticante, correlati al “nobile ottuplice
sentiero” si riducono a tre:
1) Sīla, “corretto agire” (retta parola,
retta azione, retta condotta di vita/sussistenza).
2) Samādhi, “meditazione” (retto sforzo,
retta presenza mentale, retta concentrazione).
3) Prajñā “conoscenza intuitiva” (retta
visione, retta intenzione).
[8] Nel
buddhismo la parola Pali samvega è
spesso usata per indicare un’esperienza estetica, lo shock o la meraviglia che
si può provare percependo la bellezza di un'opera d'arte. In altri contesti
indica “l’arretrare per la paura” o il tremare per lo Per esempio, “gli uomini
tremano (samvijante) al ruggito di un
leone “(Atharva Veda VIII.7.15), “gli uccelli tremano alla vista di un falco” (ibid. VI.21.6); “una
donna "trema" (samvijjati)
e mostra agitazione (samvegam âpajjati)
alla vista di suo padre”, e così fa un monaco che dimentica il Buddha (Majjhima
Nikâya, I.186); un buon cavallo consapevole della frusta è "infiammato e
agitato" (âtâpino samvegino,
Dhammapada 144); e come un cavallo viene "tagliato" dalla sferza,
così l'uomo buono può essere "tormentato" (samvijjati) e mostrare agitazione (samvega) alla vista della malattia o della morte e a causa di tale
agitazione potrà comprendere fisicamente
la verità ultima (parama saccam, la
"morale") (vedi: Anguttara Nikâya II.116).
"Proclamerò", dice il
Buddha, "la causa del mio sgomento (samvegam). Ho tremato (samvijitam
mayâ) quando vidi popoli che si dimenavano come pesci quando gli stagni si
prosciugano, quando vidi il conflitto dell'uomo con l'uomo e la malvagità che
festeggia nei cuori degli uomini "(Sutta Nipâta, 935938).
Lo stimolo emotivo di temi dolorosi
può essere evocato deliberatamente quando la volontà o la mente (citta) è fiacca. Il praticante viene
allora stimolato (samvejeti) a
meditare sugli Otto Temi Emotivi" (atthasamvegavatthûni)
(nascita, vecchiaia, malattia, morte sofferenze…);
Nello stato di angoscia che ne deriva,
egli allora "rallegra” con il ricordo del Buddha, della Legge Eterna e
della Comunione dei Monaci, quando ha bisogno di tale esultanza "(Visuddhi
Magga, 135).
[9] Vedi
Rāmāyaṇa, dove āsanna viene usato
anche nel senso di “realizzato, ottenuto”.
[10] Per la
traduzione di questo versetto ho preso come riferimento l’uso che si fa del
termine saṁvegāna in testi buddhisti
quali Yuvañjaya Jâtaka e
Visuddhi Magga. Nell’Arte indiana saṁvega è considerato sinonimo di vismaya (“meraviglia, stupore”). Vedi “The Aesthetic Experience According To Abhinavagupta. Ed. Tr. R.
Gnoli. Varanasi, 1968):
“In the Spanda School (Vasugupta, etc.) an
idea very like to that expressed by
camatkara is conveyed by the word vismaya,
astonishment. The yogin is penetrated by astonishment. The yogic stages are
astonishment. The general idea underlying these words (compare, in this connection, also the Pali and buddhist term samvega)
is that both the mystical and the aesthetic experience imply the cessation of a
world—the ordinary, historical world, the samsara, and its sudden replacement
by a new dimension of reality. In this sense the two are wonder or surprise. A
parallel of this idea of a kind of wonder which fills the soul in front of the
beautiful or of the scared, exists in the western thought also. We find it in
Plato and especially in Neoplatonismus".
[11] Vedi Srimad-Bhagavatam 5, 5.
[12] Questo
versetto (come il precedente al quale è logicamente legato) si presta a
numerose interpretazioni. A prescindere dal loro significato letterale della
frase le tre parole mr̥du, madhya, adhimātra sono termini tecnici dello yoga buddhista e vengono usate
con riferimento alla pratica dell’accettazione e del distacco dalle emozioni insegnata
al Buddha. Scrive Nāgārjuna nel Mahāprajñāpāramitāśāstra
(la traduzione è mia):
“Quando il discepolo del Buddha desidera abbandonare i desideri (kāma) e
le passioni (kleśa) di kāmadhātu, per mezzo della meditazione taglia le nove
categorie di passioni, forte (adhimātra),
medio (madhya) e debole (mṛdu), vale a dire:
1) forte-forte,
2) forte-medio,
3) forte-debole,
4) medio-forte,
5) medio-medio,
6) medio-debole,
7) debole-forte,
8) debole-medio,
9) debole-debole.
Dopo aver tagliato queste nove categorie, il discepolo del Buddha può
cercare di ottenere il primo dhyāna dal sāsravamārga”.
Si legge invece nella versione inglese, a cura di
Gelongma Karma Migme Chodron, dell’Asaṅga Mahāyānasaṃgraha (La Somme du Grand
Véhicule d'Asaṅga by Étienne Lamotte), pag. 250 (fonte: https://www.scribd.com/document/245933020/Asanga-Mahayanasamgraha-tr-Lamotte-English-From-French-Ed ):
“The bodhisattvas accumulate
the pure dharmas:
first, at the stage where
faith is practiced (adhimukticaryabhūmi), they gather the
accumulations (saṃbhāra). The accumulation of pure dharmas (śukladharmaparipūraṇa)
is the equipment. They attain a keen patient acceptance: abandoning
lower (mṛdu) and medium (madhya) patient acceptance, they
retain only superior (adhimātra)
patient acceptance, the dharmanidhy ānakṣānti. When this kṣānti is present,
there is superior patient acceptance”.
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