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CHIDAMBARAM, LO SPAZIO DELLA COSCIENZA







Mi affascina il potere delle  parole, lo ripeto spesso. A volte la consuetudine, o l'ignoranza, ne nasconde il significato originale, ma prima o poi il senso nascosto fa capolino, come un affresco antico che rinasce alla bellezza tra le crepe dell'intonaco.
Prendi "afrore": "odore acuto e penetrante, come quello del mosto in fermentazione o del sudore del cavallo", dice il dizionario, ma basta una goccia di fantasia per vedere il bosco di Afrodite, e la corsa folle della Dea, le cosce snelle insanguinate dai rovi, ad abbracciare Adone, ferito a morte. Afrore è l'odore acre del cinghiale assassino. Afrore è il profumo del muschio su cui giace l'Amato. Afrore è il sudore della Dea impazzita, che volle farsi Donna.

Il profumo della Dea, in fondo questo significa "afrore".
Anche la parola indiana Chidambaram potremmo tradurla con "Profumo della Dea" (vedo già i miei amici sanscritisti sobbalzare sulla sedia...).


Chidambaram è un comune dell'India meridionale, nel distretto di Cuddalore, nel Tamil Nadu.

Per noi haṭhayogin (हठयोगिन्) è un posto speciale: è lì che si incontrarono per la prima volta (2.500 fa o 5.000 fa, non si sa bene), Patañjali, Vyāghrapāda e Tirumular, i mitici Siddha del Tamil. i padri riconosciuti (almeno da me...) dello Yoga.

Chissà quante volte, anche se non vi occupate di Yoga o di filosofia indiana vi sarete imbattuti nella parola Chidambaram: "Il tempio di Chidambaram", "i siddha di Chidambaram", "lo Yoga di Chidambaram" ma probabilmente non vi siete soffermati un solo istante sul suono e sul significato originario della parola.

Chid, sta per "cit (चित्)", sostantivo femminile che viene tradotto normalmente con "coscienza", "anima", "intelligenza", ma per i tantrici è un sinonimo di "śakti (शक्ति)" o "devī (देवी).
Come nel mantra oṃ sat cit ānanda nāmarūpa, dove sat (सत्), "l'eternamente esistente", può essere identificato con śiva (शिव), cit (चित्), "la coscienza", con śakti (शक्ति) e ānanda (आनन्द), "la beatitudine", con il godimento supremo che nasce dall'unione dei due dei, dando vita ai nomi (nāma नाम) e alle forme (rūpa रूप).
Già. in sanscrito i nomi dei fenomeni vengono prima dei fenomeni stessi: è la Parola (il "vero suono della parola) che crea la forma....


Ambaram, invece sta per ambara (अम्बर) che originariamente indica i profumi o, più specificamente, l'odore acuto (afrore?) dello zafferano.
Poi, per slittamento semantico, assume il significato di "cielo", "spazio", "etere", "sfera celeste".

In teoria quindi potrei tradurre  Chidambaram sia con "Profumo della Dea" sia con "Spazio della Coscienza" o "spazio cosciente", nomi che si addicono entrambi alla foresta di Tillai (come un tempo si chiamava Chidambaram), il luogo in cui śiva si manifestò (2.500 o 5.000 anni fa) per insegnare la Danza della Creazione ai siddha del Tamil.





Spazio si dice anche ākāśa (आकाश) in sanscrito, e ākāśa, come quasi tutte le parole sanscrite, è un termine "multi-semantico", ovvero cambia significato a seconda delle parole con cui è legato nella frase, dell'argomento del libro o capitolo in cui è inserito ecc. ecc.

Oltre che "spazio" ākāśa può significare anche "Etere" (uno dei cinque elementi), "atmosfera",  brahma (ब्रह्म) nel senso di "Assoluto", "vuoto" e "vacuità".

La stessa parola, identica, può indicare lo Spazio, il Vuoto e Dio...

Definire Dio mi risulta difficile assai, a meno di non prendere la via dei teologi cristiani e delle loro perifrasi ad effetto che dicono tutto e il contrario di tutto:

"Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque ela circonferenza in nessun luogo" - si legge nel "Libro dei Ventiquattro Filosofi" - "Dio è una Monade che genera una Monade e in sé riflette un solo fuoco d'amore", "Dio è Mente che genera la Parola e permane nell'Unione"...

"Dio è Mente che genera la Parola e permane nell'Unione" non è mica male, sembra quasi la spiegazione dell'oscuro potere delle parole, dell'emergere inaspettato, del vero significato di un suono, ma di certo non chiarisce la natura di Dio. 

Chissà cosa volevano direi ventiquattro filosofi...secondo me neppure loro conoscevano il reale significato di ciò che stavano scrivendo...

Meglio gli indiani, che, alla fin fine, forse con un pizzico di ironia, Dio lo chiamano tat (तत्) che vuol dire "Quello". Mi immagino le disquisizioni teologiche al tempo di Patañjali e Vyāghrapāda: "Cosa è Dio?" - diceva uno -"Quello, quella roba lì, insomma" - rispondeva l'altro...



Tra "Spazio" e "Vuoto" invece non sono mai riuscito a capire la differenza.

Se qualcuno mi dice "fammi spazio" vuol dire che devo spostarmi e allontanarmi da lui in modo da mettere una porzione di vuoto tra di noi. Ma poi il vuoto non è che sia proprio vuoto: c'è l'aria e la terra e un sacco di altra roba.

Sembra quella vecchia pubblicità dei cioccolatini dove una cappelluta e ammiccante nobildonna faceva sdilinquire Ambrogio, il maggiordomo mostrandosi affamata -"Ma la mia non è proprio fame...": lo spazio è vuoto ma non è proprio vuoto.

Il vuoto  si può conoscere solo al negativo, per la sua possibilità di essere riempito, e lo spazio può essere conosciuto solo grazie a ciò che lo delimita, la forma (rūpa रूप).

La forma, frutto dell'evoluzione/proiezione di un archetipo, è ciò che "qualifica" lo spazio.

Cerco di spiegare cosa significa, per me, "evoluzione/proiezione di un archetipo":

Un'automobile è una evoluzione/proiezione del carro  nel senso che se non ci fosse stata l'idea del carro, l'auto non potrebbe esistere. Il carro a sua volta è una evoluzione/proiezione della ruota e la ruota lo è del piede. 
Il piede è in questo caso l'archetipo.

Lo so che sembra roba idiota, ma credo che non lo sia.
Per comprendere lo yoga bisogna imparare a pensare come i siddha, bisogna, cioè, cogliere quei legami tra microcosmo e macrocosmo e tra i singoli principi della manifestazione che sono la base teorica dello yoga.

Da ognuno dei cinque elementi della fisica indiana, ad esempio, [spazio, vento, fuoco, acqua, terra] prendono vita una percezione, una delle cinque azioni fondamentali, un organo di senso, un organo di azione ecc. ecc.

Per rimanere all'esempio del piede-ruota, carro-macchina, il principio fondamentale è Fuoco/luce, dal Fuoco/luce "procedono", la vista, l'azione del muoversi, l'occhio e il piede, collegati, nel corpo umano al cakra dell'ombelico (detto नाभि nābhi, "ombelico" o मणिपूर maṇipūra, letteralmente "inondazione di gemme preziose") ed al "suono seme" रं raṃ. 


La forma, frutto dell'evoluzione/proiezione di un archetipo, è ciò che "qualifica" lo spazio.

Lo spazio delimitato da un pavimento, un soffitto e quattro mura io lo definisco stanza.
In termini assoluti non sarà diverso dallo spazio delimitato da un teiera, ma la forma della stanza e della teiera ne qualificano il contenuto e ne mostrano la funzione.




Se prendo una bustina di tè, la metto sul pavimento di una stanza e ci verso sopra dell'acqua bollente potrò anche dire che ho preparato il tè, ma questo si spargerà sulle mattonelle e leccare il pavimento fa brutto.

Se ci si pensa non cambiano né la natura del tè né la natura dell'acqua né la natura dello spazio.
Cambia solo la forma.

La stanza e la teiera, forme che qualificano lo spazio delimitandolo in maniera diversa, per svolgere la loro diversa funzione, devono avere delle aperture.
A cosa servirebbero una teiera senza beccuccio e con il coperchio incollata ed una stanza senza porte?

La forma non basta. Se lo spazio interno alla teiera e lo spazio interno alla stanza non avessero possibilità di comunicare sarebbero inutili: non potrebbero svolgere la loro funzione e perderebbero quindi il carattere di necessità.



Il corpo umano concettualmente, non differisce punto da una teiera o da una stanza: è un involucro con delle aperture che permettono la comunicazione tra spazio interno e spazio esterno: gli occhi, le orecchie, le narici, la bocca, i genitali e l'ano. Questo  significano i passi delle scritture in cui si parla delle "nove bocche" del corpo energetico e del corpo grossolano.


Le nove aperture hanno il compito di mettere in comunicazione spazio interno e spazio esterno per permettere la conoscenza, ovvero la discriminazione tra Io  (N.B.con "Io" si intende tutta la roba compresa nello spazio interno) e Questo (tutta la roba compresa nello spazio esterno).

Così come la teiera è costruita in modo da poter ospitare il tè e renderlo fruibile dallo sperimentatore, così il corpo sarà costruito in modo da ospitare l'Io e renderlo oggetto di conoscenza

E come il tè rimarrebbe tè, in termini assoluti, anche se sparso sul pavimento, così l'io dovrebbe rimanere tale anche se non ospitato dal corpo grossolano, solo che, come il tè versato per terra, sarebbe difficilmente "fruibile" (e probabilmente avrebbe pure un cattivo sapore...).

L'analogia teiera/corpo umano, molto usata in Cina e Giappone (in India si preferisce parlare di "vaso") funziona fino a un certo punto.
La teiera è la forma che permette la fruizione del tè da parte dello "sperimentatore" (uno sperimentatore munito di una tazza, si spera).

Il corpo/teiera è la forma che permette di fruire dell' Io/tè.

Ma il "fruitore" chi è?

Lo spazio se lo limitiamo in una teiera, una stanza o un corpo umano, appare "qualificato" in maniera diversa.
Ma questo termine "qualificato" può essere ingannevole.
In qualche modo quando lo spazio si trova all'interno di una teiera "decide" di ospitare il tè, quando si trova all'interno di una stanza "decide" di ospitare la "vita quotidiana".

All'interno del corpo è lui a "decidere" di ospitare l'Io!

C'è uno spazio interno che in questo caso nello yoga viene detto  citta ākāśa (चित्त आकाश, "spazio della memoria") e c'è uno spazio esterno (l'ambiente che "Io" può conoscere) detto mahākāśa (महाकाश, "grande spazio"). 

Ci sarà poi un'altro spazio che comprende sia "Io" che l'ambiente, e che "decide" di ospitare gli altri due.

Questo spazio è chiamato in sanscrito citākāśa (चिताकाश, "spazio senziente"), ad indicare il luogo in cui Dio si manifesta appunto, come " infinito spazio senziente".

Chidambaram è un sinonimo di citākāśa, un luogo fisico che è al tempo stesso un "infinito Spazio cosciente" e il "profumo della Dea".

Conoscendo  un po' la storia dei siddha mi viene quasi da pensare che in una sola parola, questa parola, si nascondano più insegnamenti che in mille libri....

Un sorriso, 
P.

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