Il prossimo giovedì, insieme a Nunzio Lopizzo, Massimo Capuano e Corinna Fornasier parleremo, in diretta su Facebook, degli Ostacoli alla Pratica dello Yoga.
Parleremo della pratica personale, degli stati di alterazione percettiva delle trasformazioni di mente, parola e corpo che accompagnano (o dovrebbero accompagnare) il percorso dello Yoga.
Talvolta le trasformazioni provocate dal sādhana sono poco evidenti, altre hanno l'effetto di uno Tsunami sulle relazioni e sulla vita sociale.
La parola sādhana (sostantivo neutro... in italiano "IL" sādhana) significa "strumento" (la Toolbar dei programmi per PC in sanscrito sarebbe sādhanaśalākā...) e, anche se ormai è di moda definirci Yogin o Yogi il praticante dovrebbe essere chiamato sādhaka che significa "colui che si addestra", "colui che impara ad usare gli strumenti".
La pratica quotidiana, di solito individuale, è la pratica autentica dell'aspirante yogin, una pratica che, vuoi per le istruzioni del maestro, vuoi per una serie di causalità (la "Grazia" arriva spesso in maniera insaspettata) a volte provoca dei "cambiamenti di stato", dei salti coscienziali che possono anche venir recepiti in maniera negativa da chi ci sta intorno.
Ciò che un tempo ci appariva familiare ci appare (può apparire) strano o distante e questo crea spesso un senso di inquietudine che spinge alcuni a rinunciare alla pratica, a renderla "segreta" o addirittura a rompere delle relazioni con persone care.
A dispetto dell'immagine che ne dà il main stream, la vita dello yogin (o meglio del sādhaka) non è tutta sorrisi buddhici, lacrime di dolce gratitudine e profumi di incenso: ogni esperienza "reale" si accompagna (può accompagnarsi a fasi "evacuazione", fisica e psichica, assai aspre e a lunghi periodi di straniamento durante i quali ci sentiamo alieni dal mondo conosciuto sino al giorno prima, e alieni appaiamo al mondo.
Sorgono emozioni sconosciute e la paura di non "ritrovarsi più", la paura di perdere ciò che si è costruito nella vita "ordinaria", spinge molti a sospendere la pratica quotidiana o ad edulcorarla.
Gli insegnamenti di Patañjali riguardo agli ostacoli alla pratica, sono assaiprecisi e circostanziati, ne parla in I,29-31, mentre nei successivi versetti discute degli "otto rimedi agli ostacoli".
Penso che sia utile darci un'occhiata:
ततः प्रत्यक्चेतनाधिगमोऽप्यन्तरायाभवश्च ॥२९॥
tataḥ pratyak-cetana-adhigamo-'py-antarāya-abhavaś-ca ॥29॥
tataḥ pratyak-cetana-adhigamo-'py-antarāya-abhavaś-ca ॥29॥
Tatas = “da quello, da quel posto, in quel posto, quindi”.
Pratiak = “all’indietro, in direzione opposta”[1].
Cetana = “anima, mente, percipiente, senziente, cosciente”.
Pratyakcetana = “uno i cui
pensieri sono rivolti a se stesso o alla propria interiorità”.
Adhigama = “acquisizione, realizzazione, l’atto di realizzare”.
Api = “anche”.
Antarāya = “ostacolo, impedimento, interruzione”.
Abhava = “distruzione, non esistenza, fine”.
Ca = “e, pure, entrambi, così come”.
12. Da questo procedono la realizzazione
della coscienza interiore e la rimozione degli ostacoli.
व्याधि स्त्यान संशय प्रमादाअलस्याविरति भ्रान्तिदर्शनालब्धभूमिकत्वानवस्थितत्वानि चित्तविक्षेपाः ते अन्तरायाः ॥३०॥
vyādhi styāna saṁśaya pramāda-ālasya-avirati bhrāntidarśana-alabdha-bhūmikatva-anavasthitatvāni citta-vikṣepāḥ te antarāyāḥ ॥30॥
vyādhi styāna saṁśaya pramāda-ālasya-avirati bhrāntidarśana-alabdha-bhūmikatva-anavasthitatvāni citta-vikṣepāḥ te antarāyāḥ ॥30॥
Vyādhi = “malattia”[2].
Styāna = “rozzezza, rigidità”[3].
Saṁśaya = “dubbio”.
Pramāda = “negligenza”[4].
Ālasya = “pigrizia”.
Avirati = “smoderatezza, mancanza di controllo”[5].
Bhrāntidarśana = “errata percezione”.
Alabdha = “non ottenimento, non realizzazione”.
Bhūmi = “area, posizione, posto, territorio”.
Bhūmikā = “pavimento, suolo, storia, gradino, livello”.
Alabdhabhūmikatva = “impossibilità di realizzare
alcuno stato della meditazione profonda”.
Anavasthitatva = “instabilità, mutevolezza, dissesto”.
Citta = “cuore, mente, ragione, intelligenza”.
Vikṣepa = “gettare, lanciare, scaricare”.
Te = “questi, quelli”.
Antarāya = “ostacolo, impedimento, interruzione”.
13. Gli ostacoli che gettano la mente in
una condizione di instabilità impedendole di passare attraverso i vari stadi della
meditazione profonda sono questi:
Malattia, rigidità e rozzezza, dubbio, negligenza, pigrizia, smoderatezza, errata
percezione della realtà.
दुःखदौर्मनस्याङ्गमेजयत्वश्वासप्रश्वासाः विक्षेप सहभुवः ॥३१॥
duḥkha-daurmanasya-aṅgamejayatva-śvāsapraśvāsāḥ vikṣepa sahabhuvaḥ ॥31॥
duḥkha-daurmanasya-aṅgamejayatva-śvāsapraśvāsāḥ vikṣepa sahabhuvaḥ ॥31॥
Duḥkha = “dolore, sofferenza”.
Daurmanasya = “malinconia, sconforto”.
Aṅgamejayatva = “tremore del corpo”.
Śvāsa = “sibilare, sbuffare, ansimare, disturbi del respiro,
asma”.
Praśvāsā = “respirazione, inalazione”.
Śvāsapraśvāsāḥ = “respirazione irregolare”
Vikṣepa = “gettare, lanciare, scaricare”.
Sahabhuvaḥ = “accompagnando, che accompagnano”.
14. I sintomi che accompagnano
l’atto di gettare la mente in una condizione di instabilità sono: la sofferenza,
la malinconia, il tremore del corpo e l’irregolarità del respiro.
Il tema fondamentale dei versetti 1.29-31 sono gli ostacoli
legati all’instabilità della mente. Ostacoli che impediscono al praticante di passare
attraverso i vari stadi della meditazione profonda.
Esistono cinque diverse condizioni della mente chiamate nel buddhismo delle origini
cittabhūmi, o “territori della mente”:
1. Kṣipta, “confusione”.
2. Mūḍha, “ottusità, stupidità”.
3. Viksipta, “dispersione, agitazione”.
4. Ekagra, “attenzione concentrata”.
5. Niruddha, “controllo”.
Cinque territori
nei quali il praticante vaga inconsapevolmente, mosso dagli stimoli esterni e dai
residui contenuti psichici.
Lo yogin
può cercare di rendere stabile la condizione di “controllo” (niruddha) passando attraverso la pratica,
assidua, della “attenzione controllata”, esercitandosi nella concentrazione su un
punto, un oggetto, un principio, un processo fisiologico o nella ripetizione di
un mantra.
Ma fin quando
non mente non sarà “purificata”, si incontreranno, durante la meditazione, una serie
di ostacoli che per così dire, impediranno l’esperienza detta asaṁprajñāta (vipaśyana).
Gli ostacoli
alla pratica, difficili da riconoscere in se stessi, provocano dei sintomi elencati
da Patañjali
in 1.31:
- Duḥkha = “dolore, sofferenza”.
- Daurmanasya = “malinconia, sconforto”.
- Aṅgamejayatva = “tremore del corpo”.
- Śvāsapraśvāsāḥ = “respirazione irregolare”.
Patañjali non si riferisce ovviamente
a sintomi, derivanti da problemi di natura fisica o psichica, che insorgono nella
vita quotidiana durante le attività ordinarie, ma alle difficoltà che insorgono
durante una seduta di meditazione.
Gli ostacoli
elencati in 1.30 sono sei:
1.
Vyādhi. Nel Viṣṇu Purāṇa,
vyādhi è il “figlio della morte” (mṛtyu), personificazione della malattia.
2.
Styāna di solito correttamente
tradotto con “apatia”, significa letteralmente “denso”, “rigido”, “grossolano”,
“rozzo” e indica sia la rigidità mentale, che la rigidità fisica.
3.
Pramāda significa letteralmente
“intossicazione” (da droghe o da alcool), ma in genere i commentatori lo interpretano
secondo gli insegnamenti buddhisti per i quali pramāda significa “non sforzarsi di adottare un atteggiamento salutare
ed essere restii ad abbandonare azioni non salutari”.
4.
Avirati che viene spesso
tradotto con “incontinenza” riferita specificamente alla sfera sessualità, ma il
suo significato letterale è “intemperanza” intesa come mancanza di controllo, misura
e regole.
5.
Ālasya = “pigrizia”.
6.
Bhrāntidarśana = “errata percezione”.
Malattia ed errata percezione
della realtà rientrano nella sfera di ciò che negli insegnamenti tradizionali buddhisti
viene definito “Incapacità di applicare i metodi per superare gli ostacoli”. Anche
nel caso in cui si avesse accesso a quelle che vengono definite “tecniche operative”,
ovvero le tecniche per rimuovere i contenuti psichici, le precarie condizioni fisiche
ci impedirebbero di metterle in pratica, e “l’errata percezione della realtà”, dipendente
sia da malattia (un daltonico scambierà un colore per un altro) sia da ignoranza
ordinaria ci impedirà di comprendere veramente gli insegnamenti tradizionali. Spesso
l'incapacità di applicare i rimedi, quando non ci sono impedimenti fisici, ovvero
patologie importanti, è dovuta più che
all'ignoranza alla volontà di non sciogliere definitivamente i blocchi psicofisici.
I
blocchi rappresentano la nostra personalità, ciò che chiamiamo Ego. Se ci identifichiamo
con la nostra personalità, sciogliere i blocchi significherebbe sciogliere noi stessi,
morire in un certo senso, cosa che ovviamente incute timore, e così tecniche tutto
sommato semplici per ricordarsi di sé, come il sedersi a contare le respirazioni
o l'osservare la radice dei pensieri, o il concentrarsi su determinati processi
fisiologici o il ripetere un mantra, quando sono conosciuti, non vengono applicati
a causa della volontà di mantenere integri i contenuti egotici nei quali ci riconosciamo.
La rigidità è sia fisica che mentale.
La rigidità fisica è quella, ad esempio
che impedisce di assumere le posizioni di meditazione e di mantenerle a lungo. La
rigidità mentale è la tendenza a cristallizzarsi in credenze ed opinioni, ma in
questo caso potrebbe riferirsi anche all’eccesso di disciplina, ovvero (sempre rifacendosi
agli insegnamenti buddhisti) alla "tendenza ad applicare i metodi per superare
gli ostacoli anche quando non è necessario".
L'eccesso di disciplina nasce invece dalla paura di lasciarsi andare.
Il fine ultimo dello yoga è il dispiegare le ali e gettarsi a volo di rondine nell'abisso
dell'Essere.
Un viaggio senza sostegni, senza
appigli, senza mappe né punti di riferimento. Le tecniche operative, i mantra, le
letture dei maestri, gli atti di devozione divengono talvolta delle scialuppe di
salvataggio e finiscono per sostituire la vera pratica dello yoga, che consiste
nel lasciarsi andare, nell'arrendersi alla propria natura, fino a riconoscersi uno
con l’Universo. O meglio essere testimone di questo riconoscimento (“il Veggente
che riposa in se stesso”)
L’incapacità di avere abitudini salubri
e l’incontinenza fanno parte di ciò che possiamo definire “tendenza all’oblio”.
La tendenza all’oblio, nella pratica dello
yoga, è assai difficile da inquadrare. È un fenomeno stravagante. Si vivono esperienze
particolari, eccitanti ed emozionanti e improvvisamente ce ne dimentichiamo.
Queste esperienze (samādhi) fanno parte del percorso dello
yogin e sono dovute allo scioglimento di determinati blocchi o contenuti psichici.
A volte, come si è detto, la risoluzione dei contenuti psichici è definitiva (asaṁprajñāta). Più di frequente è una condizione
temporanea (saṁprajñāta). Esempio: faccio
un periodo di ritiro o una pratica intensiva e percepisco lo scioglimento dei contenuti
psichici come “fenomeno fisico”. Un'esperienza assai forte, una specie di intrusione
del divino nella vita quotidiana. Ritornato nel mio ambiente lentamente le abitudini
prendono il sopravvento e dimentico quella intrusione nel divino che mi era apparsa
tanto appagante, quella sensazione di luminosa pienezza che avevo avvertito durante
la pratica. In poco tempo torno a vivere in uno stato di confusione, quello stato,
consueto per i più, in cui avverto continuamente un disagio, un’ansia di irrisolutezza
che mi impediscono di essere felice. Nel torpore e nell'agitazione mentale ci dominano
prima e dopo l'oblio non è difficile abbandonarsi agli eccessi.
La pigrizia del praticante
è abbastanza facile da riconoscere. Supponiamo che un istruttore mi abbia insegnato
un mantra da ripetere 108 volte o una serie di posture da effettuare ogni giorno.
I primi tempi sarò entusiasta e svolgerò i compitini come uno studente modello.
Poi piano piano l'entusiasmo si smorza e la mia mente troverà sempre nuove scuse
per non praticare: il figlio che piange, i problemi del lavoro, il mal di schiena,
ecc. ecc. finché trovare un quarto d'ora, mezz'ora al giorno per praticare diventerà
difficilissimo e ci troveremo a rimandare al giorno dopo o ad aspettare che le condizioni
siano propizie...
I versetti 1.29-31 parlano degli ostacoli
alla pratica e dei sintomi che gli accompagnano. Gli ostacoli, condizioni ordinarie
della mente non purificata, impediscono al meditante di sperimentare la condizione di coscienza/conoscenza definita e asaṁprajñāta (“L’altro tipo di coscienza/conoscenza
di 1.18). Saṁprajñāta e asaṁprajñāta sono due diversi stadi della
pratica meditativa identificabili, negli insegnamenti buddhisti, con śamatha (samatha) e vipaśyana (vipassanā). Il primo
(saṁprajñāta)
è una realizzazione “relativa”, nella quale il praticante è ancora legato al mondo
dei nomi e delle forme e, quindi, in bilico tra lo stato colmo di beatitudine del
realizzato e l’ansia di incompiutezza comune alla gran parte degli esseri umani.
Il secondo (asaṁprajñāta) è invece uno stato di infinita beatitudine,
“senza ritorno”, la condizione del “liberato in vita”.
[1]
Vedi Ṛg Veda e Atharva Veda.
[2]
Nel Viṣṇu Purāṇa vyādhi è il “figlio della morte” (mṛtyu), personificazione
della malattia.
[3]
Styāna di solito correttamente tradotto con “apatia”, significa letteralmente
“denso”, “rigido”, “grossolano”, “rozzo”.
[4]
Pramāda significa letteralmente “intossicazione” (da droghe o da alcool),
“follia”, “malattia”, ma in genere i commentatori lo interpretano secondo gli
insegnamenti buddisti per i quali pramāda significa non sforzarsi di adottare
un atteggiamento salutare ed essere restii ad abbandonare azioni non salutari.
[5]
Avirati viene spesso tradotto con “incontinenza” riferita specificamente alla
sfera sessualità, ma il suo significato letterale è “intemperanza” intesa come
mancanza di controllo, misura e regole.
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