Gara di Kabaddi: gli attaccanti devono mostrare la capacità di controllare il respiro entrando nel campo dell'altra squadra, colpendo un avversario e ritornando nel proprio campo in apnea.
Il 1° febbraio del 2007, giorno del mio
compleanno, mi arrivò, dono inaspettato, una cassa di libri, quasi tutti
traduzioni di testi di Saṅkara e di altri autori di quella che allora mi
sembrava una scuola filosofica: l'Advaita Vedānta, o Vedānta non
duale.
Tra le pagine della Bhagavadgītā c'era un biglietto:
- “Caro
fratello ti prego di accettare questi libri. Sono sempre appartenuti a te...” -
Era un dono di Premadharma Bodhananda, uno degli "uomini straordinari! che ho avuto la fortuna di conoscere nella mia vita.
Cominciai a studiare come un
forsennato, andavo anche al bagno con i libri di Saṅkara, mi sembrava di
“essere tornato a casa”.
Un giorno, dopo
un paio d'anni, Saṅkara mi apparve.
Lo so che sembra strano, ma
praticando Yoga ho vissuto spesso stati di alterazione percettiva con
allucinazioni visive e uditive: luci colorate, simboli, suoni acuti come
campanelli o cupi come un tuono d'inverno.
Una volta mi è apparso un intero
monastero tibetano con tanto di monaci in tonaca amaranto.
Credo che si tratti
di una elaborazione
del cervello,
di una qualche funzione del sistema
nervoso centrale:
quando metto a fuoco un insegnamento o
intravedo la soluzione di un problema si forma, in meditazione, un'immagine
tridimensionale (e tangibile, in molti casi), una proiezione delle mie
riflessioni a cui sono avvezzo, forse sbagliando, a dar fiducia, quasi fosse
uno spirito buono, o un maestro interiore.
Comunque sia mi apparve
Saṅkara.
Ero sulla spiaggia di Ansedonia, seduto in padmāsana e
“respiravo il mare” con gli occhi fissi sulla punta del naso. A un tratto, tipo venere
che spunta dalle onde, esce dall'acqua un monaco śaiva con le vesti arancioni, tre linee bianche sulla fronte e una mālā di rudraska in mano.
Camminava
piano verso di me e sorrideva.
Si fermò, per qualche istante, a un
paio di metri e poi mi sparì dentro. Io lo sapevo che era una specie di
allucinazione, ma in qualche modo la presi come un segno: pensai di aver
compreso, o di essere sul punto di comprendere, dopo due anni di studio
forsennato, gli insegnamenti dell'Advaita Vedānta.
Ricordo che ero stupidamente felice.
Pensavo che sarebbe successo qualcosa, qualcosa
di bello e di molto ma molto importante, e invece, di lì a poco,
cominciarono i problemi.
Su un sito internet indiano trovai una serie di
testi di Saṅkara, mai tradotti in italiano, che parlavano di āsana, di
kuṇḍalinī, di cakra…ovvero di corpo fisico.
Quello che avevo studiato e
continuai a studiare anche dopo, non “mi tornava più”.
Quello che credevo
il nucleo dell'insegnamento di Saṅkara, la teoria dell'Ajāti Vāda, del “Mai
Nato” (così come me la avevano insegnata) che mi sembrava così profonda,
logica, onnicomprensiva mi pareva mostrasse delle smagliature.
Molti
commentatori occidentali (e non solo) parlando dell'advaita vedānta mettono
in risalto la scarsa importanza che questa scuola attribuisce alle pratiche
dello haṭhayoga e del kuṇḍalinī yoga.
Sulla base della teoria dell'illusione, il
Māyāvāda, costoro arrivano ad abbracciare le idee di alcuni buddisti Theravāda o di alcuni neo-platonici che vedono il corpo come un inutile sacco pieno di fluidi corporei, ed a
creare, infine, una contrapposizione tra il Vedānta Advaita e lo haṭhayoga,
tra la pratica dell'auto-indagine tesa a mostrare l'inesistenza sostanziale, o
l'apparenza fenomenica di tutto ciò che chiamiamo corpo, emozioni,
individualità (il Ko'Ham) e le tecniche psicofisiche (āsana, mudrā, kriyā).
Il
sistema interpretativo dell'advaita vedānta occidentalizzato strizza l'occhio
a Platone e alla filosofia tedesca del XIX e XX secolo e lascia intendere che
si può progredire nella via dello yoga e raggiungere la cosiddetta
illuminazione senza perder tempo ad annodarsi le gambe e senza conoscere la
complessa fisiologia sottile su cui si basa lo haṭhayoga. .
Lo Saṅkara dell'advaita vedānta “occidentalizzato”
sembra insegnare la superiorità del lavoro di destrutturazione del pensiero sul
mero lavoro fisico ricreando, paradossalmente (advaita vuol dire non duale) la
dicotomia corpo-mente o materia-spirito che caratterizza l'insegnamento
cattolico in cui siamo nati e cresciuti.
E' facile che un intellettuale
occidentale si innamori di questa teoria affascinante (e non priva di effetti
sul comportamento e sulla personalità dei praticanti), ed è anche possibile che
qualcuno raggiunga la cosiddetta illuminazione o realizzazione o comunque stati
di coscienza tra virgolette”elevati”, seguendo questi insegnamenti.
Ma,
non è l'insegnamento di Saṅkara.
A molti questo non interesserà affatto,
anzi il commento più comune sarà, probabilmente, “e allora?”, ma per me in
qualche modo si tratta di una rivelazione dagli effetti devastanti.
Molto
di ciò che ho letto, studiato e anche scritto negli anni passati, si basava
sulla differenza sostanziale, almeno a livello qualitativo, tra il lavoro dell'advaita vedānta e
quello dello haṭhayoga.
La pratica fisica, lo haṭhayoga , credevo, poteva essere al massimo, un
punto di partenza, “una scala verso il Rāja yoga” (il sistema di Patañjali, maestro del maestro del maestro - così mi dicevano - di
Saṅkara), il figlio di un dio minore.
E invece la via di Saṅkara (vedi
lo Saṅkaravija di Ānanda giri
o il commento all'Ānandalahari di Pandit Ānanda Shastri) era proprio
quella: lo Haṭhayoga con tanto di
Cakra, Nāḍī e Kuṇḍalinī che sale.
Il commento del capostipite della
Advaita Vedānta alla Bhagavadgītā, mai pubblicato in Italia, ne è, secondo
me, una prova inconfutabile:
“[...] messo sotto controllo
il fiore di loto del
cuore, si raggiunge Bhūmi e attraverso la via mediana che porta verso l'alto,
dopo aver posto Prāṇa tra le sopracciglia, si raggiunge lo splendente Puruṣa
che emana luce” Saṅkara (Bhagavadpāda – commento alla Bhagavadgītā VIII, 9,10.)
Saṅkara era allievo di Gauḍapādācārya:
Un maestro i cui testi più importanti (mai tradotti in Italiano) sono:
1) il Subha Godaya Stuti, in cui si
descrive il triplice aspetto di Kuṇḍalinī (Fuoco, Sole e Luna) e la sua risalita
attraverso la pratica del “mantra supremo di Kāma (Ka E Ī I La Hrīṃ - Ha Sa Ka Ha La Hrīṃ - Sa Ka La Hrīṃ .
2) L'Uttara Gīta Bhāṣya, in cui si
spiegano gli insegnamenti di Haṭhayoga
impartiti da Kṛṣṇa ad Ārjūna.
3) Il Durgā Saptaśatikā in
cui si tessono le doti di Durgā e si descrive la sua vittoria contro il demone
Mahiṣāsura. In questi tre testi è contenuta l'essenza del Samāyācara,
o meglio sarebbe dire, del Tantra.
Gauḍapāda era uno yogin del Kashmir (o del
Bengala secondo alcune fonti) ed era un maestro delle pratiche di
Kuṇḍalinī.
Saṅkara era un suo allievo ed era un maestro della via dei
Mantra.
Per molti questo non significherà niente, ma per me è assai
importante.
Significa che le dotte disquisizioni e gli
accesi dibattiti sulle differenze tra
Tantra, yoga “fisico “, yoga “spirituale” e vedānta
che riempiono i forum di filosofia, i libri delle case editrici specializzate e
riecheggiano nelle conferenze e nelle lezioni delle scuole di yoga sono completamente
campate in aria.
La verità dei testi e semplice e chiara: la
linea di insegnamento di quello che noi chiamiamo advaita vedānta è la stessa
dello haṭhayoga di Gorakanath.
Lo yoga di Patañjali, Gauḍapāda, Saṅkara è
lo stesso yoga insegnato dai siddha nath: Āsana,
Mantra, Mudrā, Cakra, Nāḍī, Kuṇḍalinī...questo, e solo questo, secondo le ricerche che abbiamo fatto (vedi "Storia Segreta dello Yoga" https://www.amazon.it/dp/1697773559) è lo
Yoga come veniva inteso sino al XIX secolo.
Che poi sia lecito o meno definire Yoga delle pratiche derivate da
concezioni particolari o inventate di sana pianta è un altro discorso, che a me
interessa relativamente poco. Come relativamente poco mi interessano i
motivi che hanno spinto molti a scindere e dividere ciò che appare, sin
dall'inizio, come un unico sistema.
È possibile, secondo voi che lo yoga sia uno solo e che si
basi sulla pratica di āsana, mudrā, mantra e sulla conoscenza della
fisiologia sottile?
Io non ho una risposta certa…ma mi piacerebbe parlarne, testi alla
mano, con insegnanti, praticanti e appassionati di yoga.
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Mandukyakarika, alatasànti prakarana 45-50, 82 ; traduzione di Raphael : "E' la coscienza - senza nascita, senza moto e non grossolana e allo stesso modo tranquilla e non duale - che sembra muoversi ed avere qualità Così la mente/coscienza è non nata e le anime sono altre-sì senza nascita. Coloro i quali conoscono ciò non cadono nell'errore/sofferenza. Come il movimento di un tizzone ardente sembra avere una linea dritta o curva così il movimento della coscienza appare essere il conoscitore e il conosciuto. Come il tizzone ardente quando non è in moto diviene libero dalle apparenze e dalla nascita, cosi la coscienza quando non è in movimento rimane libera dalle apparenze e dalla nascita. Quando il tizzone ardente è in moto , le apparenze non gli provengono da nessuna parte. Né esse vanno in altro luogo quando il tizzone ardente è fermo, né ad esso ritornano. Le apparenze non provengono dal tizzone ardente a causa della loro mancanza di sostanzialità. Anche nei confronti
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