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IL (FALSO?) MITO DI PATAÑJALI E DEL RĀJA YOGA


PATAÑJALI


Patañjali, l’autore degli Yoga Sūtra, secondo la tradizione Tamil era un siddha vissuto tra il IV e il V secolo d.C.
Durante la sua permanenza nel Thillai Nataraja Temple di Chidambaram[1] fece un’esperienza definita, in termini moderni ”illuminazione” di cui il suo libro più celebre - Yoga Sūtra appunto – sarebbe la cronaca.

In base a questa esperienza ed ai racconti di altri autori suoi contemporanei come Tirumular (Tiroomular) venne riconosciuto come uno dei grandi maestri illuminati (18 secondo alcuni 84 secondo altri) della tradizione Siddha, sia dagli Hindu sia dai buddhisti.

Nel Sud dell’India è considerato il padre della danza assieme a Bharatamuni, l’autore del Nātyaśāstra, e si dice fosse uno dei più grandi interpreti della sua epoca della “Śiva Tāndava”, la danza estatica del dio Śiva – N.B. la danza detta Tāndava non è specifica del dio Śiva: molte delle divinità hindu hanno una propria Tāndava - insegnata dallo Yogin Taṇḍu proprio nel tempio di Chidambaram.

Il “lignaggio”, ovvero la linea di insegnamento cui appartiene Patañjali è quello del Primo grande Siddha Agastya, il creatore delle “Arti marziali del Sud”, kalaripayatt e Silamban.
Un lignaggio in cui le tecniche di guerrieri e danzatori si fondono con la pratica dello yoga alchemico – il cui massimo esponente è considerato Boghanathar, maestro di Babaji-nagaraji -  con lo āyurveda e con l’astrologia/astronomia “vedica”.
Questo almeno è ciò che si insegna nella maggior parte delle scuole di yoga e di danza, negli “Akhara” – le scuole di arti marziali e, a quanto ci risulta-ovviamente se qualcuno ha notizie diverse saremo grati delle segnalazioni -  nelle università indiane.
In occidente, soprattutto in Italia, e in alcuni ambiti indiani, più vicini alla tradizione moderna creata da Vivekananda - si raccontano invece storie diverse.
Sintetizzando si dice che:


1.     Patañjali è vissuto tra il V e il II secolo a.C.
2.     Patañjali è il padre dello yoga classico che viene identificato con il Rāja yoga è uno “stile” di Yoga in cui si dà poca importanza all’aspetto fisico (Posture, sequenze, bandha ecc.).

Esamineremo adesso questi punti evidenziando i motivi che hanno portato molti ricercatori e praticanti a considerare come verità storiche delle teorie e delle interpretazioni nate, secondo noi, da errori o da motivi che riguardano la religione e la politica.


Il dibattito, per chi è interessato resta comunque aperto: noi [il Team di ricercatori di “Storia Segreta dello Yoga”] non abbiamo assolutamente la pretesa di avere la verità in tasca e ci limiteremo a dare notizie suffragate da dati storici e riferimenti bibliografici.

1)    Cominciamo con il primo punto:

QUANDO È VISSUTO  PATAÑJALI?


La confusione di date nasce dall’esistenza di vari autori che rispondono al nome di Patañjali, e lo si può constatare consultando il “Catalogus Catalogorum” dell’Università di Madras[2] dal quale risulta che vi siano stati nella storia dell’India ben dieci autori di opere di rilievo che rispondono al nome di Patañjali.

A.  Il primo in ordine di tempo è l’autore del Māhābhasya, un testo così importante da essere chiamato semplicemente “Grande Commento”.
Si tratta di un trattato di grammatica basato sullo Aṣṭādhyāyī di Pāṇini che gli studiosi sia occidentali sia indiani fanno risalire al I-II secolo a.C.[3]. Da più di duemila anni il Māhābhasya di “questo” Patañjali è considerato un classico della grammatica e della linguistica, sia in ambiti hindu, sia buddhisti, sia jainisti e il suo successo non è mai venuto meno.

B.     Il secondo, sempre in ordine di tempo è il Patañjali degli Yoga Sūtra considerato dagli studiosi indiani uno dei più importanti esponenti del Smkhya[4], la scuola filosofica ateistica indiana che sta alla base sia dello āyurveda sia dello yoga che sarebbe vissuto intorno al IV secolo d.C.[5]

Al contrario del suo omonimo autore del Māhābhasya “questo” Patañjali si può supporre che sia stato praticamente dimenticato almeno dal XVI secolo al XIX secolo- a parte una poesia fatta risalire al XVIII secolo - dato che, a quanto ci risulta, non esiste in tutta la letteratura indiana una sola pubblicazione, commento o recensione di Yoga Sūtra risalente a quel periodo.

Gli autori che citano o commentano il testo in epoche precedenti al XVI secolo – almeno quelle che risultano dalle nostre ricerche - sono tre:

1.     Vācaspati Miśra (900–980 CE) autore del "Tattvavaiśāradī";
2.     Bhoja Raja, (X secolo) autore del “Rāja-Mārtana”;
3.     Ramananda Sarasvati (XVI secolo) autore dello "Yogamani-Prabha";

A questi si deve si deve aggiungere l'anonimo autore di "Yogabhashyavarttika" Un lavoro forse X secolo;

Per ciò che riguarda le traduzioni che secondo molti ricercatori sarebbero centinaia o comunque molte[6], dalle nostre ricerche ne risultano solo due precedenti al XVI secolo:

1. XI secolo traduzione in arabo e persiano da parte di Al Biruni;
2. XV secolo traduzione in javanese di anonimo conservata oggi allo "Staatsbibliothek" di Berlino.

Le altre numerosissime traduzioni e i moltissimi commentari che si citano al giorno d'oggi sono stati tutti composti dal 1874 ad oggi.

C.     Il terzo Patañjali è l’autore del “Patañjalatantra” testo ayurvedico segnalato come fondamentale da molti autori medioevali[7].

A questi tre autori si deve aggiungere almeno il Patañjali autore di un commentario della Caraka Saṃhitā, uno dei testi fondamentali della medicina indiana[8], che sarebbe visuto tra il IV e l’VIII secolo d.C.

Secondo gli autori moderni come P.V. Sharma, autore della più importante opera moderna sulla Caraka Saṃhitā[9]Patañjali autori di testi ayurvedici sarebbero la stessa persona.

Ci sono buone probabilità che il Siddha Patañjali sia anche l’autore dei testi ayurvedici, ma è impossibile, a detta degli studiosi, che sia il medesimo Patañjali autore del Māhābhasya.

La confusione tra il Patañjali grammatico e il Patañjali yogin – e quindi la tendenza a retrodatare la vita e l’opera del secondo – nasce, in tempi moderni, dalle ipotesi di Surendranath Dasgupta che propose l’identità dei due – nati a cinquecento anni di distanza l’uno dall’altro - nel suo “A History of Indian Philosophy” (Cambridge University Press 1922).

L’ipotesi risaliva al XVIII secolo – alla poesia di Shivarama i cui versi sono cantati ancora oggi nelle classi di Ashtanga Yoga in cui si onora Patañjali come yogin, grammatico e medico - ed era stata ripresa da James Haughton Woods nella sua traduzione degli Yoga Sūtra del 1914[10], ma oggi, in genere la si ritiene infondata[11].

A sua volta Shivarama faceva riferimento ad un verso di Bhartṝhari, grammatico e poeta del V secolo d.C. - autore del Vākyadīa, il più importante trattato dilogica linguistica” del medioevo, e del testo poetico Śatakatraya[12] -  che parla di un anonimo yogin che sarebbe stato esperto di medicina e di grammatica. 

Il verso sarebbe stato interpretato da Re Boja nel suo Rāja-Mārtana, come un omaggio a Pataṅjali e otto secoli la teoria dell’identificazione del grammatico con il siddha fu riproposta da alcuni studiosi.

In conclusione allo stato attuale delle ricerche la grande maggioranza degli studiosi ritiene che:

-         Il Pataṅjali grammatico e il Pataṅjali yogin siano due personaggi affatto diversi;
-         Ci sono grandi probabilità che il Pataṅjali yogin e il Pataṅjali medico ayurvedico siano la stessa persona. 

Per ciò che riguarda la data di nascita del Pataṅjali yogin, Edwin Bryant[13] ritiene che nonostante per la maggior parte degli studiosi “Gli Aforismi dello Yoga” siano stati composti tra il IV e il V secolo d.C. le possibilità di una data più antica sono tutt’altro che da escludere.

La nostra opinione è che se il Pataṅjali yogin è da identificarsi con il Pataṅjali siddha - l’uomo rasato con la coda di serpente che vediamo nelle rappresentazioni scultoree e pittoriche – la sua data di nascita non può che porsi tra il IV e il V secolo d.C. dato che il gruppo dei Siddha cui apparteneva ha vissuto ed operato nel tempio di Chidambaram, la cui prima costruzione risale al IV secolo d.C.

Veniamo al secondo punto:

2.     Pataṅjali è il padre dello yoga classico che viene identificato con il Rāja yoga è uno “stile” di Yoga in cui si dà poca importanza all’aspetto fisico (Posture, sequenze, bandha ecc.).

RĀJA YOGA

Per capire che si tratta – secondo noi, ovviamente – di false verità o di verosimili bugie, occorre introdurre la figura di Swami Vivekananda, grande uomo e grande filosofo, ma soprattutto grande patriota.

Vivekananda è passato alla storia per essere stato il primo ad introdurre lo Yoga ed il Vedānta in Occidente e l’eco dei suoi insegnamenti risuona ancora oggi nelle moderne concezioni dello Yoga e della filosofia new age.

Molte delle idee che circolano oggi nel mondo dello yoga nascono dai concetti che lui espose nei suoi libri e nelle sue lezioni e che da allora vengono ritenuti “tradizionali”.

In realtà non si tratta specificamente di concetti appartenenti alla tradizione indiana, ma di personali interpretazioni, sue e degli intellettuali bengalesi del suo tempo, che nel corso degli anni - grazie all’enorme lavoro di diffusione dei suoi scritti compiuto dalle case editrici legate al Ramakrishna Math e alle varie società esoteriche occidentali del XX secolo - si sono trasformate in verità ontologiche.

Di fatto gli intellettuali bengalesi del XIX secolo inventarono un nuovo Yoga ed un nuovo Vedānta, che, come abbiamo già detto, dal nostro punto di vista non sono né migliori né peggiori dello Yoga e del Vedānta tradizionali, ma ne differiscono in maniera, spesso, sostanziale.

Noi non abbiamo né la volontà né le capacità di discutere la bontà dei principi filosofici diffusi da Vivekananda, ma, per amor di verità, ci pare giusto sottolineare che, in base alle nostre ricerche, lo swami non venne in Occidente per insegnare Yoga o Vedānta tradizionale, ma si fa interprete e portatore di una nuova religione, anzi un nuovo sincretismo religioso la cui eco profonda è avvertibile ancora oggi nelle pratiche e nelle teorie della New Age.

Fissiamo adesso alcuni punti fondamentali:

1.     Sincretismo. Lo Yoga ed il Vedānta insegnati da Vivekananda e da molti maestri moderni sono frutto di una elaborazione moderna del Vedānta originario ispirata a tre movimenti filosofici e culturali occidentali: l’Unitarianismo, il Perennialismo, l’Orientalismo[14].

2.     Censura. Dallo Yoga insegnato da Vivekananda vengono eliminate completamente o messe in secondo piano le pratiche strettamente fisiche - āsana, sequenze, bhanda, mudrā - e le pratiche legate all’energia definita kuṇḍalinī̄ - comprese pratiche che riguardano la sfera sessuale – considerate invece fondamentali dagli yogin dell’antichità e del medioevo[15].

3.     Nazionalismo. La non menzione o la sottovalutazione delle pratiche fisiche ed energetiche nasce da ragioni politiche ed ideologiche, collegate alle esigenze del Movimento Nazionalista indiano di cui Vivekananda faceva parte.

LO YOGA DI VIVEKANANDA


Quattro sono i libri sullo Yoga scritti da Vivekananda:
1.     Jnana Yoga- lo Yoga della conoscenza[16];
2.     Bhakti Yoga – lo Yoga dell’amore e della devozione”[17];
3.     Karma Yoga- lo Yoga dell’azione[18];
4.     Raja Yoga – lo Yoga di Patañjali[19].

Quattro libri che pongono le basi per una divisione dello Yoga in “quattro branche” - Jñāna, Bhakti, Karma e Rāja – presentata oggi come “tradizionale” nella maggior parte delle scuole di Yoga nonostante – a quanto ci risulta- non ci[PP1]  siano prove della sua esistenza prima del XIX secolo.

Se si leggono i quattro libri di Vivekananda[20]alla luce di quanto sappiamo oggi sulla storia dello Yoga e della filosofia indiana, noteremo alcune singolari coincidenze[21], delle apparenti dimenticanze[22] e, degli errori, o forse sarebbe meglio dire “dei giochi di parole”, che finiscono per generare molta confusione.

Non è facile spiegare, a chi non ha una conoscenza approfondita delle scritture dello Yoga, i “giochi di parole” realizzati, con ogni probabilità, da Vivekananda, ma pensiamo valga la pena provarci:

Dello Yoga di Patañjali, definito Aṣṭāṅga Yoga, o Yoga in otto parti, si sa che a partire dalle lezioni americane di Vivekananda viene identificato con il Raja Yoga, o Yoga reale[23], ritenuto da molti, ancora oggi, lo Yoga autentico, lo Yoga “vero”, considerato ad un “gradino superiore” rispetto allo Yoga che all’inizio abbiamo chiamato “fisico”.

Ma secondo molti commentatori attuali, tra cui David Gordon White[24] in India, fino al XIX secolo (e almeno dal XII secolo), lo Aṣṭāṅga Yoga di Patañjali era praticamente sconosciuto e sarebbe stato portato a conoscenza del grande pubblico, sia occidentale che orientale, proprio da Vivekananda e dalla Società Teosofica.

Prima di allora i testi di riferimento per gli yogin erano altri, decisamente più “fisici” dello Yoga di Patañjali:

1.     Lo Ṣaḍaṅga Yoga, ovvero lo Yoga in sei parti decritto in un testo di Gorakhnath, il Gorakṣaśataka (Gorakshashatakam) [25];

2.     Il Saptāṅga Yoga, ovvero lo Yoga in sette parti descritto nella Gheraṇḍa Saṃhitā, testo attribuito ad un maestro chiamato Gheraṇḍa[26].

3.     Il Caturaṅga Yoga, ovvero lo Yoga in quattro parti descritto in un testo di Svātmārāma - un allievo di Gorakhnath – lo Haṭhayogapradīpikā.

Il terzo di questi manuali – lo Haṭhayogapradīpikā – che tra i tre è il più studiato e citato ancora oggi, inizia con un verso sibillino che in italiano suona più o meno così (Haṭhayogapradīpikā I.1):

“Sia lode al primo maestro che rivelò la conoscenza dello Haṭhayoga, una scala che conduce alla vetta suprema del Rāja Yoga.”

Il senso è chiaro, lo capirebbe anche un bambino: se si identifica lo Aṣṭāṅga Yoga di Patañjali con il Rāja Yoga, il versetto significa che lo Haṭhayoga, fatto di intense e rigorose pratiche fisiche, non è una via alla realizzazione, ma conduce, al massimo a poter praticare lo Yoga di Patañjali.

Quasi tutti i commentatori, da Vivekananda in poi interpretano il versetto in questo modo, ignorando però – o fingendo di ignorare- che in un brano successivo l’autore dello Haṭhayogapradīpikā spiega cosa è, secondo lui, il “Rāja Yoga” (Haṭhayogapradīpikā IV, 3-4):

"Rāja Yoga, samādhi, estinguere il Manas, andare oltre il Manas, Realtà, śūnyā...Stato del Jīvanmukta, Sahaja, Turiya... Significano tutti la stessa cosa.”[27]

Rāja Yoga quindi è sinonimo di realizzazione, per cui Svātmārāma - l’autore dello Haṭhayogapradīpikā – voleva semplicemente dire che grazie alle pratiche psicofisiche dello Yoga si giunge alla realizzazione, ma il gioco di parole di Vivekananda e le successive traduzioni del primo versetto dello Haṭhayogapradīpikā, ha fatto passare il messaggio che lo “Yoga fisico” può essere inteso al massimo come una preparazione allo Yoga meditativo di Patañjali.

Un messaggio che non corrisponde affatto al pensiero degli autori dello Haṭhayogapradīpikā, della Gheraṇḍa Saṃhitā e del Gorakṣaśataka, ma è frutto delle interpretazioni di Vivekananda.

NECESSITÀ DEL PROSELITISMO

Per comprendere a pieno il lavoro di riforma dell’induismo e dello Yoga operata da Vivekananda e dai suoi “fratelli missionari, dobbiamo cominciare facendoci una domanda:

“Per quale motivo a partire dal XIX secolo gli indiani vengono in Occidente a portare lo Yoga e l’induismo?”

La domanda nonostante l’apparenza non è affatto banale, perché il concetto di proselitismo non esiste nell’induismo.

L’Induismo non è una religione strutturata come le grandi religioni monoteiste: si tratta di un insieme assai complesso di concetti filosofici, principi etici e culti locali legati a particolare realtà geografiche; per un induista tradizionale andare a fare il missionario è impensabile: non si può “esportare”, ad esempio, il culto di Śiva di Arunachala o di Tārā di Tarapith, perché sono legati indissolubilmente ad un monte – Arunachala – e ad un campo crematorio –Tarapith - in cui si dice sia apparsa la dea in carne ed ossa. Per esportare il culto si dovrebbero esportare il monte Arunachala o il crematorio di Tarapith!

Il proselitismo Hindu di Vivekananda e dei suoi fratelli missionari non nasce da insegnamenti tradizionali – come accade per il cristianesimo -o dal desiderio di alzare il velo dell’ignoranza che ottenebrava l’Occidente, ma da ragioni strettamente politiche.

L’idea di mandare in giro per il mondo dei missionari Hindu nasce il 10 aprile 1875 ad opera di Dayananda Saraswati, che nell’atto di fondazione dell’organizzazione riformista Arya Samaji mette per scritto alcune regole tra le quali troviamo la necessità del proselitismo Hindu per limitare l’influenza dell’Islam e del Cristianesimo, con il conseguente invito a spedire missionari in Occidente[28].

Per ciò che riguarda la leggenda che Vivekananda e i suoi abbiamo portato per la prima volta lo Yoga e il Vedānta in occidente si tratta appunto di una leggenda. 

Quando Vivekananda arriva negli stati uniti nel 1896, lo Yoga e il Vedānta erano già noti da secoli.

Lo Yoga era conosciuto almeno dai tempi dell’incontro di Alessandro Magno con i Gymnosophisti della Valle dell’indo – IV secolo a.C.- e, il primo studio scientifico che parla delle attività psicofisiche degli indiani, è un’opera del francese François Bernier (1620 - 1688), che, nel XVII secolo, per dodici anni fu medico di corte dell’imperatore Mughal Aurangzeb[29]

Per ciò che riguarda la filosofia Vedānta viene studiata nelle università europee a partire dalla stessa epoca di Bernier – XVII secolo – grazie all’opera del gesuita Roberto de Nobili[30].

L’intenzione di Vivekananda e dei missionari del brahmoismo non è assolutamente quella di introdurre lo Yoga e l’induismo in Occidente – dove peraltro erano già studiati da almeno duecento anni – anche perché, anche se può sembrare assurdo, non erano propriamente né yogin né induisti: erano essenzialmente patrioti.

Il progetto di cui Vivekananda si fa portatore nasce agli inizi del XIX secolo da Raja Ram Mohan Roy, un cristiano unitariano[31] che, insieme a Denendranath Tagore, padre del premio Nobel Rabindranath, fondò la religione monoteista chiamata brahmoismo.
. Il Brahmosimo – che legava l’interpretazione di alcuni testi tradizionali indiani – come la Bhagavad Gītā - a principi del cristianesimo unitariano.

Dal brahmoismo – che, a dispetto della sua enorme influenza politica e culturale come movimento religioso ha interessato una piccolissima parte della popolazione[32] - nacquero nel1861 il Brahmo Samaji di Hermendrenath Tagore – fratello di Rabindranath - e nel 1875 l’Arya Samaji di Dayananda Saraswati, due gruppi strettamente legati al Movimento Nazionalista indiano.

L'unitarianismo è una religione che vede in Cristo non una incarnazione di Dio, ma un profeta, o per meglio dire, un illuminato. Il dio senza nome dell’Unitarianismo in India divenne Brahman, e Cristo entrò a far parte della schiera delle “emanazioni del dio unico – Brahman - insieme a Buddha, Kṛṣṇa e Rāma. I brahmoisti, che annoveravano tra le loro fila gli appartenenti alle più ricche e aristocratiche famiglie aristocratiche bengalesi, avevano come scopo ultimo la creazione di un India moderna e non esitarono a reinterpretare i testi tradizionali induisti per adeguarli ai principi del Cristianesimo unitariano. Per fare un esempio il “Maha Nirvana Tantra” reso famoso dalla traduzione in inglese di Arthur Avalon – al secolo John Woodroffe – e creduto da molti un antico testo tradizionale, fu scritto in quell’epoca (XIX secolo) dal co-fondatore del Brahmoismo, Raja Ram Mohan Roy, un maestro tantrico – Sahardana Vidyavagish – e un missionario battista, l’inglese William Carey.

Quando arrivò in Occidente Vivekananda espose il pensiero unitariano, creando dei collegamenti con la dottrina del Perennialismo[33], o “Filosofia Perenne” - assai in voga nell’epoca, che si basava sul mito di un’antichissima tradizione non umana, comune a tutte le religioni - e strizzando l’occhio all’Orientalismo, il movimento artistico nato in Europa nel XVIII secolo, basato su una reinvenzione occidentale dei costumi del medio e dell’estremo Oriente. 

Attentissimo all’immagine, si faceva ritrarre spesso in vesti e atteggiamenti di un’eleganza raffinata, e questo, insieme alla sua intelligenza, alla sua abilità retorica e alla sterminata cultura, conquistò completamente il pubblico occidentale. In poco tempo ottenne i risultati che si era prefisso: cambiare l’immagine che gli europei e gli americani avevano dell’India, e trovare amici e sostenitori della causa del nazionalismo indiano. 

Vivekananda non era un apostolo dello Yoga, ma un servitore devoto di Bharati Mata, la Madre India: ogni sua azione e, ogni sua parola erano dedicate alla sua terra e al suo popolo. Sacrificò se stesso per la causa dell’indipendenza – morì a soli 39 anni stroncato dallo stress e dalla fatica – e per questo è giusto onorarlo come un eroe.

Per ciò che riguarda lo Yoga, forse – senza voler in alcun modo offendere la sua memoria - dovremmo domandarci sino a che punto i suoi insegnamenti siano attendibili. 

Visto che Vivekananda era un patriota - un “Fighter of Freedom” - e che in quel momento le donne e gli uomini cui si rivolgeva erano i suoi avversari, la possibilità che abbia volutamente evitato di dire qualcosa o manipolato qualche concetto ci sembrano tutt’altro che remote.

Vivekananda, i missionari del Ramakrishna Math e coloro che ne seguirono le tracce nei decenni successivi, insegnano in Occidente uno Yoga religioso, che si basa quasi esclusivamente sulla devozione, il lavoro per gli altri e una serie di pratiche di meditazione e contemplazione simili agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.

Uno Yoga in cui non trovano posto le pratiche psicofisiche descritte nel Malla Purāṇa – testo di cui abbiamo parlato all’inizio - nello Haṭhayogapradīpikā, nella Gheraṇḍa Saṃhitā e nel Gorakhśatakam, testi che a partire dal medioevo sino all’epoca di Vivekananda erano considerati “classici”.

Ma quale sarà lo Yoga “autentico?
Quello di Vivekananda che vede negli asana e nelle sequenze roba per fakir e mendicanti che si esibiscono in posture complicate per denaro”?
Oppure quello di Gorakhnath per il quale le posture conducono all’illuminazione?
Si legge nel Gorakhśatakam (versetti 2 e 9):

“Colui che in virtù delle pratica dei Bandha e delle altre tecniche fisiche si illumina della luce della coscienza è lodato come yogin e come essenza e misura del tempo […]”
“Ognuno degli 8.400.000 āsana è stato descritto da Śiva. Tra questi Śiva ne scelse ottantaquattro.”

Le parole di Gorakhnath sono inequivocabili e sono confermate sia dalle Yoga Upaniṣad – venti testi considerati “tradizionali” da tutti i lignaggi induisti - sia dagli āgama[34]
lo Yoga fisico, fatto di posture, sequenze ed esercizi di concentrazione sui cakra, conduce alla Realizzazione.

La verità, tanto semplice da apparire assurda, è che Vivekananda non insegnava affatto Yoga, ma una nuova dottrina frutto delle elaborazione ottocentesche del Brahmo Samaji, nella quale il Vedānta veniva unito con i principi dell’unitarianismo cristiano e della “Filosofia Perenne” rinascimentale. 

Lo Yoga occidentalizzato di Vivekananda, grazie all’enorme lavoro di diffusione a mezzo stampa e al sostegno delle società esoteriche dell’epoca, in poco tempo divenne una visione “generale” che finì per togliere visibilità alle altre forme di insegnamento, né migliori né peggiori, ma sicuramente più antiche e, tra virgolette, “tradizionali”.

Nelle pratiche di Yoga proposte da Gorakhnath, il creatore dello haṭhayoga e dagli altri maestri considerati “tradizionali” prima della riforma di Vivekananda, oltre che agli esercizi fisici si dà ampio spazio al lavoro sui centri di energia chiamati cakra – i principali “marma” della medicina indiana - e sull’energia “interiore” detta kuṇḍalinī.

Il cosiddetto “risveglio di kuṇḍalinī” nello Yoga viene accompagnato dall’insorgere di una serie di poteri paranormali detti “siddhi” che vanno dall’ottenimento della bellezza e della salute alla capacità di rendersi invisibili. 

Le siddhi fanno parte da sempre della tradizione indiana e vengono considerate prove di un avvenuta realizzazione o di trasformazione psicofisica che precede la realizzazione.

Vivekananda però non le vede di buon occhio; scrive infatti:

“I Tapas e gli altri Yoga intensi praticati in altri Yuga non funzionano ora. Ciò che è necessario in questo Yuga è dare, aiutare gli altri”[35].
“Dice Patañjali, il padre dello Yoga: Quando un uomo rifiuta tutti i poteri superumani raggiunge il massimo della virtù” [36].

MANIPOLAZIONE

La seconda frase, in particolare, è molto interessante perché mostra il modo di procedere di Vivekananda e di coloro che hanno contribuito a creare il “nuovo Yoga occidentale”:
Vivekananda esordisce affermando: “Dice Patañjali, il padre dello Yoga…”. In realtà nessuno prima di lui aveva mai definito Patañjaliil padre dello Yoga”, ma da grande comunicatore quale è sa che utilizzando questa forma retorica lascia filtrare il messaggio “che il vero Yoga è quello di Patañjali” dando nel contempo autorevolezza alle sue parole seguenti[37]..

Poi lo swami usa delle parole che vanno esaminate con attenzione: “Quando un uomo rifiuta tutti i poteri superumani raggiunge il massimo della virtù”. 

Secondo Vivekananda questo è un insegnamento tratto dagli Yoga Sūtra di Patañjali, ma se andiamo a cercarlo non lo troveremo né nel terzo pāda – “parte”, “sezione” – degli Yoga Sūtra, in cui Patañjali descrive i poteri “superumani”, né negli altri tre[38]. La frase è un’invenzione o comunque una interpretazione personalissima dello swami.

La verità, ripetiamo, è che Vivekananda sta creando uno Yoga ad uso degli occidentali.

Quando arriva negli Stati Uniti nel 1896 non ha nessuna intenzione di insegnare lo Yoga tradizionale – che ai suoi tempi era quello di Gorakhnath, Dattatreya e Gheraṇḍa – ma vuole perseguire due scopi precisi, tra loro connessi:

1.     Lottare contro le nozioni della “white supremacy” e della western superiority” divulgate dai colonizzatori britannici e condivise allora da tutto il mondo occidentale.
2.     Creare le condizioni per arrivare alla nascita di una nuova India, libera dal giogo del colonialismo inglese e fondata sui principi sociali e religiosi del Brahmo Samaji.

Ai nostri giorni, negli ambienti dello Yoga e delle discipline new age, il concetto della superiorità morale e culturale dei bianchi è ormai superato, anzi sono molti a criticare il materialismo occidentale e a individuare nell’India il centro di una nuova/antica spiritualità, ma all’epoca di Vivekananda il razzismo nei confronti degli indiani era assai diffuso.

 Molti dei pregiudizi erano collegati al loro politeismo, a certe loro credenze e a pratiche corporee allora assai comuni, che gli inglesi di epoca vittoriana giudicavano troppo estreme o addirittura immorali.

Quando Vivekananda arrivò negli Stati Uniti, l’idea che molti occidentali avevano dello Yoga e dell’induismo era legata ai sannyasin che andavano in giro per le città, completamente nudi, intossicati di hashish e marihuana e si esibivano, per soldi, in posizioni circensi; se avesse parlato dello Yoga fisico e addirittura si fosse esibito in qualche āsana le reazioni sarebbero state di scherno e di meraviglia mista a disgusto.

Il pubblico di Vivekananda era composto soprattutto da giovani donne e uomini dall’alta borghesia americana e britannica, e lui se voleva trasformare l’immagine del suo popolo e creare il mito dell’India madre della lingua e della spiritualità occidentale non poteva certo rischiare di provocare moti di sdegno e risatine imbarazzate: doveva mostrarsi serio, elegante, affascinante e, soprattutto casto.


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[1] Alcuni parlano del Brahmapureeswarar Temple di Thirupattur.
[2][2] V.Raghavan e altri autori; New catalogus catalogorum, 11. Madras, Universiti of Madras, 1968. Pagg. 89-90
[3] Vedi ad esempio G.Cardona: Panini: A Survey of Research. Motil Banarsidass. ISBN 978-81-208-1494-3.
[4] Vedi Surendranath Dasugupta, “A History of Indian Philosophy”, Volume 1, Motilal Benarsidass Pubblications. ISBN 8120804120.
[5] Vedi ad esempio Edwin F. Bryant. The Yoga Sutras of Patanjali: A new Edition, Traslation and Commentary.. North Point Press, New York 2009. ISBN 978-0865477360.
[6] Vedi David G. White, The Yoga Sutra of Patanjali: A Biography. Pricetown University Press 2014. ISBN 978-0691143774.
[7] Vedi G.Jan Meulenbeld. History of Indian Medical Literature Volume I. Groningen, E. Forsten 1999. ISBN 978-906981247.
[8] Vedi E. Schultzeisz, History of Philosiology. Pergamon Press 1981. ISBN 978-0080273426.
[9] P.V. Sharma Caraka Samhita (in tre volumi), Chaukhambha Orientalia Varanasi, Delhi, 1981.
[10] James haughton Woods, The Yoga Sutras of Patanjali, Harvard University, Ginn & Co.
[11] Vedi:
-          David G. White, The Yoga Sutra of Patanjali: A Biography. Pricetown University Press 2014. ISBN 978-0691143774.
-          James G. Lochtefeld, The Illustrated Encyclopedia of Hinduism. The Rosen Pubblishing Group. ISBN 978-0-8239-3180-4.
-          P.V. Sharma, History of medicine in India. Indian national Science. New Delhi 1992.
[12] Non tutti concordano sul fatto che Bhartṝhari sia l’autore del testo poetico. Per approfondire puoi vedere, ad esempio, Saroja Bhate, Bhartrhari philosopher and grammarian, Motilar banarsidass Publisher.ISBN 978-81-208-1198-0
[13] Edwin F. Bryant, The Yoga Sutra of Patanjali, A new edition, Traslation and commentary, North Point Press. New York 2009. ISBN 978-086-5477360
[14] Fonte:
-          Richard King, Orientalism and Religion: Post Colonial Theory, India and “The Mystic East. Routledge (2002).
[15] Fonte:
-          Karl baier, Philip A. Maas, Karin Preisendanz (eds.), Yoga in Trasformation, Historical and Contemporary Perspectives,  Vienna University Press (2018). ISBN E-Lib:9783737008624.
[20] In realtà si tratta della trascrizione delle “lectures” di Vivekananda, fatta dai suoi allievi.
[21] I “quattro Yoga” di Vivekananda, ad esempio, corrispondono con i quattro principi fondamentali del New Thought Movement:
1.            Jnana Yoga – conoscenza dell’Assoluto – “Dio, o infinita intelligenza, è Dio è "supremo, universale ed eterno";
2.            Bhakti Yoga – devozione per la divinità che è in ogni essere umano – “La divinità dimora in ogni persona, poiché tutte le persone sono esseri spirituali”;
3.            Karma Yoga – comprensione del proprio karma e della interconnessione tra tutti gli esseri viventi – “Il più alto principio spirituale è amarsi reciprocamente incondizionatamente, [gli esseri spirituali] insegnano l’uno all’altro e si guariscono a vicenda";
4.            Raja Yoga – conoscenza, controllo e sospensione degli stati mentali (cittavṛtti) – “I nostri stati mentali” si esprimono nella manifestazione e diventano la nostra esperienza nella vita quotidiana”.
[22] Vivekananda ad esempio non parla né delle pratiche fisiche né delle attitudini marziali degli yogin guerrieri, neppure accenna alle tecniche sessuali - parte integrante anche se non fondamentale dello Yoga (vedi: Haṭhayogapradīpikā III, 87-9).- nonostante il suo maestro fosse lo yogin illuminato Ramakrishisna Paramhamsa, sposato con la bellissima Sarada Devi, fosse un sacerdote di Kālī  iniziato  ai riti sessuali denominati “Tantra di Viṣṇu (vedi: Mahendranath Gupta, “Il Vangelo di Sri Ramakrishna”. Opera citata).
[23] In sanscrito a dir la verità Raja Yoga significa “Yoga della polvere” o “Yoga del polline”. La grafia corretta dovrebbe essere Rāja Yoga.
[24] David Gordon White (Pittsfield, 3 settembre 1953), storico delle religioni statunitense è uno dei più conosciuti esperti di letteratura Yoga viventi
Laureato in hindi presso la Hindu University di Benares, si è laureato alla École Pratique des Hautes Études, a Parigi, negli anni 1977-1980 e 1985-1986. Nel 1988 si laurea in Storia delle Religioni presso la University of Chicago. Attualmente è docente di studi religiosi alla California University di Santa Barbara.
[25] Fonte:
-          David Gordon White, YOGA IN PRACTICE. Princeton University Press (2012). ISBN 978-0-691-14085-8.
-          Mikel Burley, Haṭha-Yoga: its context, theory, and practice, Motilal Banarsidass Publications., 2000. ISBN 978-81-208-1706-7.
[26] Fonte:
-          Op. Cit. Mikel Burley, Haṭha-Yoga: its context, theory, and practice, Motilal Banarsidass Publications. 2000. ISBN 978-81-208-1706-7.

[27] Questo il testo in sanscrito:
राज-योगः समाधिश्छ उन्मनी मनोन्मनी |
अमरत्वं लयस्तत्त्वं शून्याशून्यं परं पदम || ||
अमनस्कं तथाद्वैतं निरालम्बं निरञ्जनम |
जीवन्मुक्तिश्छ सहजा तुर्या छेत्येक-वाछकाः || ||

rāja-yoghaḥ samādhiścha unmanī cha manonmanī |
amaratvaṃ layastattvaṃ śūnyāśūnyaṃ paraṃ padam || 3 ||
amanaskaṃ tathādvaitaṃ nirālambaṃ nirañjanam |
jīvanmuktiścha sahajā turyā chetyeka-vāchakāḥ || 4 |
[28] Fonte:
-          G.R. Thursby, Hindu-Muslim relations in British India: a study of controversy, conflict and communal movements in norther India 1923-1928. ISBN 9789004043800.
[29] Fonti:
-          Frédéric Tinguely, Un libertin dans l'Inde moghole - Les voyages de François Bernier (1656–1669), Edition intégrale, Chandeigne, Paris. (2008). ISBN 978-2-915540-33-8.
-          Bernier, François. Travels in the Mogul Empire, A.D. 1656–1668. Archibald Constable, London. (1891) ISBN 81-7536-185-9.
[30] Allievo del maestro hindu Shivadharma. De Nobili assunto il nome di Romaca Brahmana, fondò un proprio ashram a Madurai dove insegnava contemporaneamente teologia cristiana e filosofia vedanta. Scrisse numerose opere in sanscrito e tamil, ed una serie di commentari alle opere tradizionali indiani studiati ancora oggi nelle facoltà di Filosofia e Teologia. Fonte:
-          Vincent Cronin. A Pearl to India: The Life of Roberto de Nobili. (1959). ISBN 0-246-63709-9
[31] L'unitarianismo è un movimento religioso nato all'interno del cristianesimo protestante che rifiuta l'idea di Trinità - la dottrina secondo cui in Dio sussistano tre persone coeterne e coeguali - e quindi pone in dubbio la divinità di Cristo e dello Spirito Santo in favore dell'unicità di Dio come solo Essere generatore. In italia era una credenza condivisa da molti esponenti del Risorgimento, tra cui Giuseppe Garbaldi e Giuseppe Mazzini. Fonte:
-          Judy Slinn, "Shaen, William (1821–1887), radical and lawyer" in Oxford Dictionary od National Biography, Oxford University Press (2004)
[32] Nel momento del massimo successo del brahmoismo, intorno alla fine del XIX secolo, si dichiaravano devoti della nuova religione 8.000 indiani su una popolazione di più di 223 milioni di abitanti.
[33]Il termine "perennialismo" riferito alla filosofia ricorre nell'espressione "philosophia perennis" usata per la prima volta nel XVI secolo dal teologo agostiniano Agostino Steuco (1497-1548) nel suo libro intitolato De perenni philosophia libri X (1540) dove, rifacendosi ai principi filosofici di Marsilio Ficino e di Giovanni Pico della Mirandola, sosteneva l'esistenza di un principio di verità che attraversa tutte le filosofie e le religioni che, a partire dall'ermetismo fino al platonismo e alla teologia cristiana sono alla ricerca della conoscenza di Dio”. (Tratto da Enciclopedia Treccani). La Dottrina della Filosofia Perenne è alla base di tutti i movimenti esoterici occidentali del’900.
[34]  Gli āgama sono una serie di testi che possiamo considerare dei veri e propri manuali di Yoga ad uso dei devoti delle diverse divinità induiste – śakta, śaiva e vaiṣṇava - e dei praticanti buddhisti e jainisti.
[35] Fonte:
-          The Complete Works of Swami Vivekananda”, p.1062, Manonmani Publishers. (2015).
[36] Fonte:
-          The Complete works of Swami Vivekananda”, p. 3828, manomani Pubblishers (2015)
[37] Intendiamoci, nessuno di noi vuole sminuire la grandezza di Patañjali, vogliamo solo far notare che altri maestri come Gorakhnath, Dattatreya o Vasiṣṭha, importanti almeno quanto Patañjali, da Vivekananda in poi smettono quasi di essere citati.
[38] L’unico ammonimento che riguarda l’utilizzazione dei poteri psichici si trova in Y.S. III.51, ma il versetto non fa nessun cenno ad un rifiuto o alla non accettazione dei poteri psichici. Lo citiamo nella traduzione di Raphael (edizioni Ashram Vidya): “[si deve] evitare il piacere e l’orgoglio quando si è invitati dalle potenze celesti perché vi è la possibilità di una indesiderabile ricaduta”






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