L'idea di interpretare gli Yoga Sūtra alla luce degli insegnamenti buddhisti mi è venuta durante il mio periodo di pratica buddhista (1996-2000) prima con i monaci gelug Lobsang Jinpa e Lobsang Puntsok Dhosam che mi hanno iniziato alla pratica dei mantra e al Mandala del Buddha della Medicina) poi con Lama Gangchen Tulku Rinpoche - che ho incontrato solo sei volte - che mi ha inziato al N'galso e al sadhana di Tara Bianca.
Non si tratta di una ipotesi originale, sono molti gli studi in proposito, ma mi pare che in Italia si sia parlato raramente del rapporto tra Pātañjali e Buddha.
Per ciò che riguarda la traduzione dal sanscrito ho preso come riferimento, confrantandole tra loro, le sei versioni che ho studiato durante il mio addestramento all'Advaita vedānta (2006-2012) ovvero:
1) I.K. Tainmi;
2) Hariharananda Aranya;
3) Swami Satchidananda;
4) Swami Prabhavananda;
5) Swami Vivekananda;
6) Raphael;
Ho confrontato le versione tra loro, e quindi ho cercato il significato di ogni singolo termine sul Monier-Williams, riportando in nota, nella maggior parte dei casi,l'uso che dei vocaboli si fa nei testi classici indiani, sia hindu sia buddhisti.
Per le traduzioni di alcuni versetti e singoli termini dal Pāli mi sono fatto aiutare dal Ven. Piyadassi, monaco Theravada e insegnante di sanscrito.
I versetti in sanscrito e la traduzione letterale,con il significato di ogni singolo termine, sono riportati in coda all'articolo.
Un sorriso,
P.
SAMĀDHI
La parola samādhi,
talvolta usata come sinonimo di dhyāna
o jhāna, è intimamente connessa a prajñā, o conoscenza intuitiva. Per il buddhismo, “prajñā è la luce e samādhi
il lampo”, ad indicare che prajñā è la
consapevolezza che illumina ogni istante di vita dell’Universo, mentre samādhi è, per così dire, “un momento di
suprema consapevolezza”, la visione momentanea, non stabilizzata, della luce di
prajñā. Nel buddhismo Theravada Samādhi e Prajñā, sono, assieme a Sīla
(corretto agire), gli strumenti a disposizione del praticante per percorrere il
“Nobile Ottuplice Sentiero”:
1. Sīla, “corretto agire” (retta parola, retta azione, retta condotta di vita/sussistenza).
2. Samādhi, “meditazione” (retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione).
3. Prajñā “conoscenza intuitiva” (retta visione, retta intenzione).
Per arrivare alla meta finale, bodhi o Risveglio spirituale. Secondo il Canone Pāli il praticante deve realizzare otto stati progressivi di
jhāna:
Quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa jhāna).
C’è poi una nona realizzazione, la più alta, chiamata
Nirodha-Samapatti, collegata alla percezione,
e “utilizzazione” di Citta-Saṃtāna, il
flusso mentale.
SAMĀPATTI
(1.40-51)
40. Il suo
magico potere di controllo sulla materia, si può estendere dall’infinitamente piccolo
all’indefinitamente grande.
41. La mente
purificata, come il cristallo puro, assume il colore di ogni oggetto che gli sia
vicino, permettendo la realizzazione dell’identità tra conoscitore, conoscenza e
oggetto di conoscenza. Questo stato viene definito samāpatti.
42. Il samāpatti
savitarkā è lo stato in cui (c’è) la reale conoscenza del significato di suoni e
parole (ma) è mescolata con fantasie ed errate congetture.
43. Nirbhāsā
nirvitarkā è la condizione in cui, a causa della completa purificazione della memoria
la vera forma dell’oggetto viene percepita per ciò che è, come puro significato
libero da ogni genere di sovrastruttura mentale e culturale.
44. Da questo
viene la spiegazione anche di savicārā e nirvicārā che hanno per oggetto i fenomeni
sottili.
45. L’ambito
di esistenza degli elementi sottili termina nell’indefinibile senza seme (aliṅga)
46. Queste
forme di contemplazione sono conosciute come samādhi con seme.
47. Nel nirvicāra
samādhi la grazia del vero Sé si manifesta come fiducia, temerarietà e maestria.
48. Qui la
conoscenza si fa portatrice del Ritmo Universale
49. Ṛtaṁbharā
prajñā, la conoscenza portatrice del ritmo universale, ha uno scopo diverso dalla
conoscenza che insorge dall’inferenza e dalle scritture perché riguarda un altro,
particolare oggetto di percezione.
50. L’impressione
mentale così prodotta si contrappone alle impressioni mentali prodotte da esperienze
ordinarie.
51. Estinguere
anche questa impressione mentale porta all’estinzione di tutti i saṁskāra. Questo
è ciò che viene definito Nirbīja samādhi, il samādhi senza seme.
Gli undici versetti
finali (1.40-51) iniziano con la descrizione del potere di controllo sulla materia.
La parola vaśīkāra,
che abbiamo già incontrato in 1.15, nelle traduzioni del versetto 1.40 viene reso
spesso con “concentrazione estrema”, oppure con “mettere sotto controllo”, riferendosi
alla mente (vedi ad esempio la traduzione di Hariharananda Aranya[1]),
ma, come abbiamo già detto significa letteralmente “potere magico”, “incantamento”,
“fascinazione”. Un potere di controllo sulla materia che verrebbe acquisito grazie
alla purificazione della mente o, forse, come dicono alcuni, riferendosi a 1.39,
a “colui
che pratica dhyānā su un oggetto amato”.
Nel
versetto successivo, 1.41, troviamo per la prima volta la descrizione di samāpatti.
In
genere samāpatti, usato nei Veda con il
significato di “assumere la forma originale”, è considerato un sinonimo di samadhi,
ma nel buddhismo, a cui, come si è visto, Patañjali fa spesso riferimento, si opera
una distinzione tra i due termini: samadhi
viene inteso come “meditazione che conduce all’identità della mente con un oggetto”
e samāpatti indica invece “la realizzazione,
l’estasi”.
Nel versetto 1.41 si chiarisce che il samāpatti
è la realizzazione dell’identità tra “conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza” (grahītṛgrhaṇagrāhyeṣu).in altre parole,
mentre in condizioni ordinarie un oggetto o un fenomeno percepiti vengono “interpretati”
sulla base della memoria e delle sovrastrutture culturali, nel samāpatti la mente si comporta come un cristallo
puro (maṇi) assumendo le proprietà
degli oggetti percepiti (tatsthatadañjanatā, “assumere il colore di ogni oggetto che sia nelle vicinanze,
entrare in identità con ciò che è vicino”).
Ci
sono varie tipi di samāpatti.
Nel
savitarkā samāpatti la mente del meditante
viene assorbita da un insieme confuso di intuizioni e fantasie che, seppur piacevole,
non può portare alla realizzazione degli insegnamenti tradizionali. Purificando
la memoria si realizzerà invece lo stato detto nirvitarkā samāpatti, nel
quale il praticante potrà realizzare pienamente l’identità tra soggetto, conoscenza
e oggetto di conoscenza che provocherà, mediante uno “shock informativo”, la trasformazione
della mente e quindi della realtà percepita.
A
questi due (savitarkā e nirvitarkā) seguono gli stati detti savicāra, e nirvicāra, “il cui oggetto di conoscenza è sottile”.
La
descrizione dei vari tipi di samāpatti ci
riporta nuovamente agli insegnamenti del Buddha.
Vicāra,
citato in 1.44, nel buddhismo è uno dei fattori del primo dei quattro dhyāna (jhāna in Pāli), le quattro tappe che accompagnano il meditante verso
la realizzazione. Questi fattori sono evidentemente in relazione con le quattro
condizioni di coscienza/conoscenza definite nei sūtra 42- 47 (savitarkā, savicāra,
nirvitarkā e nirvicāra).
I
fattori del primo dhyāna buddhista sono:
-
Vitarka (vitakka) ovvero “ragionamento”;
-
Vicāra ovvero “investigazione”;
-
Prīti (pīti) ovvero “gioia generalizzata, senza
oggetto di godimento”;
La
differenza tra vitarka e vicāra è simile a quella che intercorre tra
soluzione di un’operazione matematica (ottengo il risultato facendo la somma o il
prodotto di più fattori) e la soluzione di un rebus. Per ciò che riguarda gli altri
due fattori, che insorgono all’estinzione di vitarka e vicāra, si può dire
che la condizione definita prīti è caratterizzata
da uno stato di eccitazione quasi febbrile, mentre quella definita sukha è caratterizzata da uno stato di calma.
Finalmente, dopo aver esperito gli stati precedenti, nel nirvicāra samādhi la grazia del vero Sé si
manifesta come vaiśāradya.
Vaiśāradya significa “chiarezza mentale, infallibilità, saggezza”,
ma nel buddhismo indica un particolare stato di coscienza dei Bodhisattva e del
Buddha caratterizzato da “fiducia, assenza di paura e maestria”.
Grazie a vaiśāradya il praticante avrà
accesso a “rtaṁbharā prajñā”, la conoscenza portatrice
del Ritmo universale che potremmo identificare con “il flusso”.
I saṁskāra
prodotti in questa condizione, prenderanno il posto di quelli prodotti in condizioni
ordinarie. L’estinzione di questi “nuovi” contenuti psichici porterà quindi all’estinzione
di “tutti” i contenuti psichici. È questo il nirbīja samādhi, il samādhi senza seme.
TESTO IN SANSCRITO E NOTE ALLA TRADUZIONE
परमाणु परममहत्त्वान्तोऽस्य वशीकारः ॥४०॥
paramāṇu parama-mahattva-anto-'sya vaśīkāraḥ ॥40॥
Paramāṇu = “infinitesima parte di un atomo, la trentesima parte di un raggio di sole[3], il passaggio di un raggio di sole attraverso un atomo”.
Parama = “supremo, assoluto”.
Mahattva = “grandezza, importanza, opulenza, gloria”.
Anta = “termine, confine, ultimo passo”.
40.
Il suo[7] magico potere di controllo sulla materia, si può estendere dall’infinitamente
piccolo all’indefinitamente grande.
क्षीणवृत्तेरभिजातस्येव मणेर्ग्रहीतृग्रहणग्राह्येषु तत्स्थतदञ्जनता समापत्तिः ॥४१॥
kṣīṇa-vṛtter-abhijātasy-eva maṇer-grahītṛ-grahaṇa-grāhyeṣu tatstha-tadañjanatā
samāpattiḥ ॥41॥
Kṣīṇa = “estinto, distrutto”.
Vṛtti = “attività, movimento, modo di essere, comportamento, predisposizione ad un
determinato comportamento”.
Abhijātasya = “qualcuno o qualcosa che è nato da…”
Iva = “come”.
Grahītṛ = “recipiente, percipiente”.
Grahaṇa = “cogliere, acchiappare, prendere la mano, sposare, imprigionare”.
Grāhyeṣu = “essere acchiappato, imprigionato, realizzato”.
Grahītṛgrhaṇagrāhyeṣu = “identità tra soggetto percipiente,
percezione e oggetto percepito” oppure “identità tra conoscitore, conoscenza e oggetto
di conoscenza”[10].
Tat = “quello, di quello, di Lui”.
Stha = “stare, essere situato, occupare un luogo”.
Tad = “lei, lui, questo, quello, in quel modo, in quel luogo”.
Añjanatā = “identità”.
Tatsthatadañjanatā = “assumere il colore di ogni oggetto che sia nelle
vicinanze, entrare in identità con ciò che è vicino”[11].
41.
La mente purificata, come il cristallo puro, assume il colore di ogni oggetto
che gli sia vicino, permettendo la realizzazione dell’identità tra conoscitore,
conoscenza e oggetto di conoscenza. Questo stato
viene definito samāpatti.
तत्र शब्दार्थज्ञानविकल्पैः संकीर्णा सवितर्का समापत्तिः ॥४२॥
tatra śabdārtha-jñāna-vikalpaiḥ saṁkīrṇā savitarkā samāpattiḥ ॥42॥
Tatra = “là, in quel luogo”.
Śabdārtha = “natura o significato di un suono, significato di una parola”.
Jñāna = “Conoscenza, conoscere, conoscenza spirituale, conoscenza perfetta, speculazione
filosofica”.
Vikalpais = “immaginazioni, fantasie, false conoscenze, diversità, varietà”.
Kīrṇā = “sparpagliato, gettato, coperto, nascosto”.
42. Il samāpatti savitarkā è lo stato in cui (c’è)
la reale conoscenza del significato di suoni e parole (ma) è mescolata con fantasie
ed errate congetture.[16]
स्मृतिपरिशुद्धौ स्वरूपशून्येवार्थमात्रनिर्भासा निर्वितर्का ॥४३॥
smṛti-pariśuddhau svarūpa-śūnyeva-arthamātra-nirbhāsā nirvitarkā ॥43॥
Svarūpa = “vera forma, la sua propria forma, natura, peculiarità”.
Śūnya = “vuoto”.
Iva = “come”.
Nirbhāsā = “apparenza, ciò che splende in lontananza, particolare forma di samādhi e di meditazione (vimala nirbhāsā)”[20].
Nirvitarkā = “sconsiderata, senza ragionamenti o congetture”.
43.
Nirbhāsā
nirvitarkā è la condizione in cui, a causa della completa purificazione della
memoria la vera forma dell’oggetto viene percepita per ciò che è, come puro significato
libero da ogni genere di sovrastruttura mentale e culturale.[21]
एतयैव सविचारा निर्विचारा च सूक्ष्मविषय व्याख्याता ॥४४॥
etayaiva savicārā nirvicārā ca sūkṣma-viṣaya
vyākhyātā ॥44॥
Iva = “come”.
Vicāra = “investigazione, inchiesta, ponderazione, deliberazione, considerazione,
riflessione, esame, indagine”[23].
Savicārā = “con vicāra, accompagnato da vicāra”, ovvero “accompagnato da investigazione,
ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione, esame, indagine”.
Nirvicārā = “senza vicāra, in assenza di vicāra”,
ovvero “senza investigazione, ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione,
esame, indagine”.
Ca = “e, pure, entrambi, così come”.
Sūkṣma = “fine, sottile, delicato”.
Vyākhyātā = “Esposto, spiegato, commentato”[25].
44. Da questo viene la spiegazione anche di savicārā e nirvicārā che hanno per oggetto i fenomeni sottili.
सूक्ष्मविषयत्वम्चालिण्ग पर्यवसानम् ॥४५॥
sūkṣma-viṣayatvam-ca-aliṅga paryavasānam ॥45॥
Sūkṣma = “fine, sottile, delicato”.
Viṣayatva = “ambito di esistenza, essere confinati in uno spazio, accadere solo in certi
ambiti”.
Aliṅga = “senza segni distintivi, senza sesso o connotazioni sessuali, senza la forma
esteriore, indefinibile”[27]
Paryavasānam = “fine, termine, conclusione, determinazione, accertamento”.
45. L’ambito di esistenza
degli elementi sottili termina nell’indefinibile senza seme (aliṅga)
ता एव सबीजस्समाधिः ॥४६॥
tā eva sabījas-samādhiḥ ॥46॥
Tāḥ (tās)= “queste, quelle”.
Iva = “come”.
Sabīja = “con seme”.
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance yogica” [28].
निर्विचारवैशारद्येऽध्यात्मप्रसादः ॥४७॥
nirvicāra-vaiśāradye-'dhyātma-prasādaḥ ॥47॥
Nirvicāra = “senza vicāra, in assenza di vicāra”,
ovvero “senza investigazione, ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione,
esame, indagine”[30].
47.
Nel nirvicāra samādhi la grazia
del vero Sé si manifesta come fiducia, temerarietà e maestria.
ऋतंभरा तत्र प्रज्ञा ॥४८॥
ṛtaṁbharā tatra prajñā ॥48॥
Bharā = “portatrice”.
Prajñā = “saggezza, intelligenza, conoscenza, una particolare śakti (energia) legata alla dea Sarasvatī
e all’ādi-Buddha”.
48.
Qui la conoscenza si fa portatrice
del Ritmo Universale
श्रुतानुमानप्रज्ञाअभ्यामन्यविषया विशेषार्थत्वात् ॥४९॥
śruta-anumāna-prajñā-abhyām-anya-viṣayā viśeṣa-arthatvāt ॥49॥
Prajñā = “saggezza, intelligenza, conoscenza, una particolare śakti (energia) legata alla dea Sarasvatī
e all’ādi-Buddha”.
Anya = “un’altra persona, altro, differente, diverso da…”.
Arthatvāt = “funzione, scopo, motivazione”[41].
49.
Ṛtaṁbharā prajñā, la conoscenza portatrice del ritmo universale, ha
uno scopo diverso dalla conoscenza che insorge dall’inferenza e dalle scritture
perché riguarda un altro, particolare oggetto
di percezione.
तज्जः संस्कारोऽन्यसंस्कारप्रतिबन्धी ॥५०॥
tajjaḥ -saṁskāro-'nya-saṁskāra pratibandhī ॥50॥
Tajjas = “originato da, saltato fuori da”.
Anya = “un altro”.
Saṁskāra = “impressione mentale”.
Pratibandhī = “contraddizione, ostruzione, contrapposizione”.
50.
L’impressione mentale così prodotta si contrappone alle impressioni mentali
prodotte da esperienze ordinarie.
तस्यापि निरोधे सर्वनिरोधान्निर्बीजः समाधिः ॥५१॥
tasyāpi nirodhe sarva-nirodhān-nirbījaḥ samādhiḥ ॥51॥
Nirodhān = “estinzione, confinamento, imprigionamento, controllo, soppressione, annichilamento” [46].
Nirbījaḥ samādhiḥ = “samādhi senza seme”.
51.
Estinguere anche questa impressione
mentale porta all’estinzione di tutti i saṁskāra. Questo è ciò che viene definito
Nirbīja samādhi, il samādhi senza seme.
इति पतञ्जल योग दर्षने समाधिपादः
iti pātañjala yoga darśane samādhi-pādaḥ
Iti = “così, in questa maniera (riferito a qualcosa che si è detto
in precedenza)”.
Pātañjala = “di Pātañjali”.
Darśana = “visione, punto di vista filosofico”.
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance yogica” [48].
Pāda = “piede, gamba, sezione, un quarto, la quarta parte di…”.
-
Così (è detto nel) samādhi-pāda dello yoga darśana di Pātañjali.
[1] “When The Mind
Develops The Power Of Stabilising On The Smallest Size As Well As On The
Greatest One, Then The Mind Comes Under Control”.
[2]
Possiamo collegare i quattro fattori anche ai quattro stati citati in 1.17,
ovvero vitarka, vicāra, ānanda e
asmitā.
[3]
Vedi Mahābhārata.
[4]
Visto che parama significa “supremo, assoluto” mahattva “grandezza, importanza,
opulenza, gloria”, anta “termine, confine, ultimo passo”, per cui la parola
composta paramamahattvānta può, appunto, indicare “ciò che è grande oltre ogni
limite”.
[5]
Asya ha vari significati, come, ad esempio, “dalla forma gigantesca” (vedi
Bhāgavata Purāṇa 3.6.22), ma qui, molto probabilmente è inteso nel senso di suo
(sesto caso singolare, possessivo, del pronome Idam). Vedi a proposito Bhagavad
gītā 2.67: “indriyāṇāṁ hi caratāṁ
yan mano ’nuvidhīyate tad asya harati prajñāṁ vāyur nāvam ivāmbhasi”.
[6]
Vaśīkāraḥ, nelle traduzioni del versetto 1.40 viene reso spesso con
“concentrazione estrema”, oppure con “mettere sotto controllo, riferendosi alla
mente (vedi traduzione di Hariharananda Aranya : “When The Mind Develops The
Power Of Stabilising On The Smallest Size As Well As On The Greatest One, Then
The Mind Comes Under Control”), ma significa letteralmente “potere magico”,
“incantamento”, “fascinazione”.
[7]
“Il suo” è riferito, molto probabilmente a “Colui che pratica dhyānā su un
oggetto amato”.
[8]
Kṣīṇa significa “estinto, distrutto, cancellato, attenuato”; vṛtti come abbiamo
visto indica le modificazioni della mente; abhijātasya sesto caso singolare (possessivo) di abhijāta, in letteratura è usato per
indicare “qualcuno che è nato da…”, per esempio in Bhāgavata Purāṇa
5.8.26 si trova hṛdaya-abhijātasya con il significato di “nato dal suo proprio
cuore”.
[9] Maṇeḥ, sesto caso singolare (possessivo) di maṇi che significa “gioiello,
pietra preziosa, gemma, rubino, perla”, ma viene anche usato nel senso di
“pietra di paragone” (vedi Śrī Caitanya caritāmṛta Ādi 7.126: “nānā ratna-rāśi
haya cintāmaṇi haite tathāpiha maṇi rahe svarūpe avikṛte”) e nel senso di
“essere puri e luminosi come gioielli” (vedi Bhāgavata Purāṇa 11.2.44: “bhagavata uru-vikramāṅghri-śākhā-nakha-maṇi-candrikayā
nirasta-tāpe hṛdi katham upasīdatāṁ punaḥ sa prabhavati candra ivodite
’rka-tāpaḥ”).
[10]
Grahītṛgrahaṇagrāhyeṣu,
parola composta da grahītṛ (recipiente, percipiente), grahaṇa
(l’atto di cogliere, acchiappare, prendere la mano, sposare o imprigionare), e
grāhyeṣu (participio futuro passivo locativo plurale di grāhya,
essere acchiappato, imprigionato, realizzato), prende qui il significato di
“identità tra conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza”.
[11]
Tatsthatadañjanatā, parola composta da
tat (“quello”), stha (“che sta”), tad (quello, in quel luogo) e añjanatā
(identità), significa secondo il Monier-Williams: “assumere il colore di ogni
oggetto che sia nelle vicinanze”.
[12]
Samāpatti, termine usato in atharva-veda-prātiśākhya con il significato di
“assumere la forma originale”, è considerato solitamente un sinonimo di
samadhi. Nel buddhismo si opera invece una distinzione tra i due termini con
samadhi che viene inteso come “meditazione che conduce all’identità della mente
con un oggetto” e samāpatti che indica invece “la realizzazione, l’estasi”.
[13] Saṁ significa “insieme, con”, kīrṇā viene usato in letteratura nel senso di
“sparpagliato, gettato” (vedi Rāmāyaṇa), oppure nel senso di “coperto,
nascosto” (vedi śakuntalā, e pañcatantra). Nel caso del versetto 1.42 “la conoscenza
del vero significato di suoni e parole parola” (śabdārthajñāna)
verrebbe “sparpagliata insieme” o nascosta insieme ai vikalpa.
[14]
Savitarka significa “con vitarka” ovvero (vedi Mahābhārata) “accompagnato da un
ragionamento, una opinione, una supposizione, una congettura”.
[15]
Samāpatti, termine usato in atharva-veda-prātiśākhya con il significato di
“assumere la forma originale”, è considerato solitamente un sinonimo di
samadhi. Nel buddhismo si opera invece una distinzione tra i due termini con samadhi
che viene inteso come “meditazione che conduce all’identità della mente con un
oggetto” e samāpatti che indica invece “la realizzazione, l’estasi”.
[16]
Per meglio comprendere il sūtra 1.42 e il successivo dovremmo forse
considerare che śabdārtha assume talvolta il significato di “comprensione degli
insegnamenti orali” Nel savitarkā samāpatti la mente del meditante viene
assorbita da un insieme confuso intuizione e fantasie che, seppur piacevole,
non può portare alla realizzazione degli insegnamenti tradizionali. Purificando
la memoria si realizzerà invece lo stato detto nirvitarka samāpatti, nel quale
la mente potrà realizzare pienamente l’identità tra soggetto, conoscenza e
oggetto di conoscenza che provocherà, mediante uno “shock informativo”, la trasformazione
della mente e quindi della realtà percepita.
[17]
Con la parola Smr̥ti si intende anche l’insieme dei testi non rivelati,
distinti dalla śruti, che raccoglie gli insegnamenti direttamente ascoltati o
rivelati ai ṛṣi. La smṛti- include i sei vedāṅga, il libro della legge di Manu,
gli itihāsa (ovvero la letteratura epica come il Mahābhārata-e il Rāmāyaṇa), i
purana ecc.
[18]
Vedi: Raghuvaṃśa, Bālarāmāyaṇa e Kathāsaritsāgara.
[19] Vedi
Pañcatantra e Kathāsaritsāgara. Il significato di arthamātra è il medesimo del
latino “pecunia” ma secondo il dizionario Monier-Williams in questo caso è da
intendersi come “being only the matter itself”.
[20]
Nirbhāsā nel versetto 1.43 viene spesso assimilato al sostantivo maschile
vimalanirbhāsa (un particolare tipo di samādhi) e tradotto quindi con
“illuminazione”. Probabilmente il versetto 1.43 fa riferimento ad una tecnica
di meditazione buddhista descritta nel Vimalanirbhāsa Sūtra.
[21]
Il versetto 1.43 tratta della percezione dello yogin definita arthamātradarśanaṃ
(visione di una cosa in sé stessa) secondo gli insegnamenti del buddhismo. La
percezione del praticante buddhista deve essere completamente separata dalla
cognizione e libera da tutte le sovrastrutture, compresi gli insegnamenti delle
scritture (āgamavikalpa). Vedi a tale proposito i testi di Dignāga (Dinnāga)
Pramāṇasamuccaya, Ālambanaparīkṣā e Hetucakra.
[22]
Vedi Bhāgavata Purāṇa 3.28.36:
“so’py etayā caramayā manaso nivṛttyā tasmin
mahimny avasitaḥ sukha-duḥkha-bāhye hetutvam apy asati kartari duḥkhayor yat
svātman vidhatta upalabdha-parātma-kāṣṭhaḥ”.
[23]
Vicāra nel buddhismo è uno dei fattori del primo dei quattro dhyāna (jhāna in
Pali), le quattro tappe che accompagnano il meditante verso la meditazione,
fattori che potremmo mettere in relazione con i quattro stati definiti nei
sūtra 42- 47 (savitarka, savicāra, nirvitarka e nirvicāra). I fattori del
primo dhyāna buddhista sono:
-
Vitarka (vitakka in Pali) ovvero
“ragionamento”;
-
Vicāra ovvero “investigazione”;
-
Prīti (pīti in Pali) ovvero
“gioia generalizzata, senza oggetto di godimento”;
-
Sukha ovvero “piacere”.
La
differenza tra vitarka e vicāra è simile a quella che intercorre tra soluzione
di un’operazione matematica (ottengo il risultato facendo a. e. la somma o il
prodotto di più fattori) e la soluzione di un rebus. Per ciò che riguarda gli
altri due fattori, che insorgono all’estinzione di vitarka e vicāra) si può
dire che la condizione definita prīti è caratterizzata da uno tato di
eccitazione quasi febbrile, mentre quella definita sukha è caratterizzata da
uno stato di calma.
[23]
Con viṣaya, nome simbolico del numero cinque, si intende genericamente
qualsiasi cosa sia oggetto di percezione, ma nello Yoga indica i cinque
elementi sottili relativi ai cinque organi di senso: śabda (suono), sparśa
(tangibilità), rūpa(forma/colore), rasa (sapore) e gandha (odore). Vedi:
yājñavalkya, śaṃkarācārya, sarvadarśana-saṃgraha.
[24]
Viṣayā, nome simbolico del numero cinque, nella filosofia indiana viene inteso
solitamente come “oggetto di godimento” o “oggetto di conoscenza” (vedi le
interpretazioni di Gauḍapāda, Māṭhara e Vācaspati a Sāṃkhyakārikā 11), ma nello
Yoga indica i cinque elementi sottili relativi ai cinque organi di senso: śabda
(suono), sparśa (tangibilità), rūpa(forma/colore), rasa (sapore) e gandha
(odore). Vedi: Yājñavalkya, Śaṃkarācārya, Sarvadarśana-Saṃgraha.
[25]
Vedi Bhāgavata Purāṇa 5.20.42, 5.21.1,
5.22.13, 6.1.3.
[26]
La congiunzione indeclinabile ca (“e, entrambi”) in non rarissimi casi può
essere intesa come “puro, senza seme” (vedi: Amarasiṃha, Halāyudha,
Hemacandra). Nel versetto 1.45 ho pensato di scegliere questa definizione, che
molti troveranno discutibile, per rafforzare il significato di aliṅga (vedi nota “112”). Ad ogni modo la mia interpretazione
di 1.45 è in linea con le traduzioni più note, vedi ad esempio Swami
Satchidananda:
“The
subtlety of possible objects of concentration ends only at the undefinable”.
[27]
La parola aliṅga, presente nel versetto 1.45, compare anche in 2.19 (विशेषाविशेषलिङ्गमात्रालिङ्गानि
गुणपर्वाणि
॥१९॥
“viśeṣa-aviśeṣa-liṅga-mātra-aliṅgāni guṇaparvāṇi ॥19॥“)
dove si descrivono i quattro stati costitutivi dei guna definiti viśeṣa, aviśeṣa,
liṅga e aliṅga (aliṅgān). Le
traduzioni, come spesso accade, danno ai quattro termini sfumature diverse,
alcuni traducono con “specifico, non specifico, definito e indefinibile” (swami
Satchidananda), altri con “definito, indefinito, indicato e senza segni” (swami
Vivekananda), altri ancora con particolare, universale, differenziato e
indifferenziato” (I. K. Taimni). Io ho preferito usare aliṅga nel senso di
“indefinibile” anche considerando che liṅga, parola che indica il membro
maschile, nello yoga viene usato per “immagine simbolica della divinità”,
“simbolo o idolo, ovvero qualcosa che “definisce e rende riconoscibile” una
divinità.
[28]
Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna o
jhāna nel buddhismo è l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di
conoscenza intuitiva che permette, a sua volta, di accedere alla bodhi, o
Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna:
quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa
jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i termini che gli
insegnamenti ad essi relativi, sono simili o identici a quelli che incontriamo
in questo testo.
Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono
un contributo originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione
vedica. Gli arupa jhana invece erano incorporati nelle tradizioni ascetiche non
buddiste.
[29]
L’aggettivo dimostrativo “quelle” (tāḥ) è riferito alle forme di samāpatti descritte in precedenza, essendo samāpatti
parola femminile.
[30]
Nel sutra 1.47 la parola nirvicāra è declinata al maschile in quanto, presumibilmente è riferita al
sostantivo maschile samādhi, mentre in precedenza abbiamo incontrato la forma
femminile nirvicārā riferita presumibilmente a samāpatti.
[31]
Vaiśāradya significa “chiarezza mentale,
infallibilità, saggezza”. Nel buddhismo con questa parola si indica un
particolare stato di coscienza dei Bodhisattva e del Buddha caratterizzato da
“fiducia, assenza di paura e competenza”.
[32]
Adhyātma è inteso come “spirito/anima
universale, vero Sé, supremo Sé”, ma può significare anche “appartenente al
Sé”.
[33]
Prasādaḥ significa “grazia, favore”, ma in Bhāgavata Purāṇa 7.11.22 viene usato col
significato di “allegria in tutte le situazioni della vita”: “śauryaṁ vīryaṁ dhṛtis
tejas tyāgaś cātmajayaḥ kṣamā brahmaṇyatā prasādaś ca satyaṁ ca kṣatra-lakṣaṇam”.
[34] R̥ta, traducibile con “giusta
legge, giusto ritmo, giusto ordine” rappresenta in realtà il Ritmo Originario
dell’Universo collegato a Varuna, dio vedico degli oceani. Scrive Panikkar (2001:350–351): "Ṛta is the
ultimate foundation of everything; it is "the supreme", although this
is not to be understood in a static sense. […] It is the expression of the
primordial dynamism that is inherent in everything …"
[35]
Tatra, che nel versetto 1.25 viene tradotto in genere con “in Lui”, o “in īśvara”, significa letteralmente “là”, “in
quel luogo”. Probabilmente, come accade spesso in questo testo, le varie
“Persone divine” vanno sempre intese come dimensioni o luoghi o stati di
coscienza a cui accedere.
[36] Śruta, secondo la chāndogya
upaniṣad e il Mahābhārata significa “ascoltato, sentito, detto, insegnato,
trasmesso oralmente di generazione in generazione”. Tradizionalmente con il
termine Śruti si intendono i quattro veda.
[37]
Anumāna significa letteralmente “inferenza,
congettura, riflessione, trarre una conclusione da determinate premesse”. Nella
filosofia indiana è uno dei tre strumenti di realizzazione della corretta
conoscenza empirica insieme a pramāṇa (“giusta misura, corretta percezione”) e
āgama (“testi rivelati”).
[38] Vedi Bhāgavata Purāṇa 10.38.15 (“athāvarūḍhaḥ
sapadīśayo rathāt pradhāna-puṁsoś caraṇaṁ sva-labdhaye dhiyā dhṛtaṁ yogibhir
apy ahaṁ dhruvaṁ namasya ābhyāṁ ca sakhīn vanaukasaḥ”).
[39]
Viṣayā, nome simbolico del numero cinque, nella filosofia indiana viene inteso
solitamente come “oggetto di godimento” o “oggetto di conoscenza” (vedi le
interpretazioni di Gauḍapāda, Māṭhara e Vācaspati a Sāṃkhyakārikā 11), ma nello
Yoga indica i cinque elementi sottili relativi ai cinque organi di senso: śabda
(suono), sparśa (tangibilità), rūpa(forma/colore), rasa (sapore) e gandha
(odore). Vedi: Yājñavalkya, Śaṃkarācārya, Sarvadarśana-Saṃgraha.
[40]
Viśeṣa significa “differenza, peculiarità, essenza
individuale”. Nella filosofia indiana (vaiśeṣika) indica anche la
caratteristica dei cinque elementi Spazio, Aria, Fuoco, Acqua e Terra così
“essenzialmente diversi che nessuno può sostituirne un altro”.
[42]
Saṁskāra letteralmente significa “mettere insieme correttamente, formare nel
modo corretto, rendere perfetto”, ma
si usa anche nel senso di “realizzazione, abbellimento, ornamento,
purificazione, pulizia, preparazione del cibo, estrazione e raffinazione dei
metalli, lucidatura di gemme preziose, allevamento di animali” (vedi
Mahābhārata), ma per estensione semantica va ad indicare anche “i sacramenti,
le iniziazioni e le cerimonie di purificazione” (vedi manu-smṛti e
Mahābhārata). Nella filosofia indiana saṁskāra indica “la facoltà della memoria, il ricordo, l'impressione mentale di
atti compiuti nel passato in un precedente stato di esistenza”. Nel buddismo i
saṁskāra sono le impressioni lasciate del karma passato che causano i fenomeni
presenti. Sono in pratica i “semi dell’esistenza individuale” in quanto
formerebbero formano la cosiddetta “coscienza deposito (ālayavijñāna) in cui si accumulano le tracce delle
azioni passate. Ciò che facciamo nel presente non sarebbe altro che un
riportare alla coscienza, rendendoli “attivi”, i saṁskāra giacenti nell’ ālayavijñāna. Nel Nyāya e nel Vaiśeṣika saṁskāra
viene definito come “disposizione latente”, e viene suddiviso in tre tipi:
inerzia, elasticità e traccia psichica (bhāvanā).
“L’inerzia spiega la continuità del moto di una sostanza in una
determinata direzione, mentre l’elasticità è la tendenza di certi oggetti, come
il ramo di un albero, a riprendere autonomamente la posizione originale quando
la sollecitazione esterna viene meno. La traccia psichica è la disposizione
attitudinale degli individui, una qualità inerente al sé (ātman), che è prodotta da esperienze
singole o abitudinarie ed è anche un elemento cardine del meccanismo della
memoria”.
[43]
Vedi Bhāgavata Purāṇa 5.12.5-6.
[44]
Nirodhe, locativo maschile singolare di nirodha, in Bhāgavata Purāṇa 1.6.24 è
inteso nel senso di “anche al tempo dell’annichilimento”:
“matir
mayi nibaddheyaṁ na vipadyeta karhicit prajā-sarga-nirodhe ’pi smṛtiś ca
mad-anugrahāt”.
[45]
Nel Mahābhārata Sarva è uno dei nomi di Śiva.
[46]
Accusativo maschile plurale di nirodha.
[47]
Il significato letterale di yoga è: “uso,
utilizzazione, modo di impiego” (vedi ṛg veda). Nel Mahābhārata indica “l’atto
di equipaggiare un esercito, di metterlo in condizione di combattere”.
[48]
Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna o
jhāna nel buddhismo è l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di
conoscenza intuitiva che permette, a sua volta, di accedere alla bodhi, o
Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna:
quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa
jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i termini che gli
insegnamenti ad essi relativi, sono simili o identici a quelli che incontriamo
in questo testo. Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono un
contributo originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione
vedica. Gli arupa jhana invece erano incorporati nelle tradizioni ascetiche non
buddiste.
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