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IL SAMĀDHI IN PATAÑJALI ALLA LUCE DEGLI INSEGNAMENTI BUDDHISTI - Lezione On Line del 24 aprile 2020




L'idea di interpretare gli Yoga Sūtra alla luce degli insegnamenti buddhisti mi è venuta durante il mio periodo di pratica buddhista (1996-2000) prima con i monaci gelug Lobsang Jinpa e Lobsang Puntsok Dhosam che mi hanno iniziato alla pratica dei mantra e al Mandala del Buddha della Medicina) poi con Lama Gangchen Tulku Rinpoche - che ho incontrato solo sei volte - che mi ha inziato al N'galso e al sadhana di Tara Bianca.

Non si tratta di una ipotesi originale, sono molti gli studi in proposito, ma mi pare che in Italia si sia parlato raramente del rapporto tra Pātañjali e Buddha.

Per ciò che riguarda la traduzione dal sanscrito ho preso come riferimento, confrantandole tra loro, le sei versioni che ho studiato durante il mio addestramento all'Advaita vedānta (2006-2012) ovvero:


1) I.K. Tainmi;
2) Hariharananda Aranya;
3) Swami Satchidananda;
4) Swami Prabhavananda;
5) Swami Vivekananda;
6) Raphael;

Ho confrontato le versione tra loro, e quindi ho cercato il significato di ogni singolo termine sul Monier-Williams, riportando in nota, nella maggior parte dei casi,l'uso che dei vocaboli si fa nei testi classici indiani, sia hindu sia buddhisti.

Per le traduzioni di alcuni versetti e singoli termini dal Pāli mi sono fatto aiutare dal Ven. Piyadassi, monaco Theravada e insegnante di sanscrito.

I versetti in sanscrito e la traduzione letterale,con il significato di ogni singolo termine, sono riportati in coda all'articolo.

Un sorriso,
P.

SAMĀDHI


La parola samādhi, talvolta usata come sinonimo di dhyāna o jhāna, è intimamente connessa a prajñā, o conoscenza intuitiva. Per il buddhismo, “prajñā è la luce e samādhi il lampo”, ad indicare che prajñā è la consapevolezza che illumina ogni istante di vita dell’Universo, mentre samādhi è, per così dire, “un momento di suprema consapevolezza”, la visione momentanea, non stabilizzata, della luce di prajñā. Nel buddhismo Theravada Samādhi e Prajñā, sono, assieme a Sīla (corretto agire), gli strumenti a disposizione del praticante per percorrere il “Nobile Ottuplice Sentiero”:

1.     Sīla, “corretto agire” (retta parola, retta azione, retta condotta di vita/sussistenza).
2.     Samādhi, “meditazione” (retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione).
3.     Prajñā “conoscenza intuitiva” (retta visione, retta intenzione).

Per arrivare alla meta finale, bodhi o Risveglio spirituale. Secondo il Canone Pāli il praticante deve realizzare otto stati progressivi di jhāna:
Quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa jhāna).
C’è poi una nona realizzazione, la più alta, chiamata Nirodha-Samapatti, collegata alla percezione, e “utilizzazione” di Citta-Saṃtāna, il flusso mentale.


SAMĀPATTI (1.40-51)


40.      Il suo magico potere di controllo sulla materia, si può estendere dall’infinitamente piccolo all’indefinitamente grande.
41.      La mente purificata, come il cristallo puro, assume il colore di ogni oggetto che gli sia vicino, permettendo la realizzazione dell’identità tra conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza. Questo stato viene definito samāpatti.
42.      Il samāpatti savitarkā è lo stato in cui (c’è) la reale conoscenza del significato di suoni e parole (ma) è mescolata con fantasie ed errate congetture.
43.      Nirbhāsā nirvitarkā è la condizione in cui, a causa della completa purificazione della memoria la vera forma dell’oggetto viene percepita per ciò che è, come puro significato libero da ogni genere di sovrastruttura mentale e culturale.
44.      Da questo viene la spiegazione anche di savicārā e nirvicārā che hanno per oggetto i fenomeni sottili.
45.      L’ambito di esistenza degli elementi sottili termina nell’indefinibile senza seme (aliṅga)
46.      Queste forme di contemplazione sono conosciute come samādhi con seme.
47.      Nel nirvicāra samādhi la grazia del vero Sé si manifesta come fiducia, temerarietà e maestria.
48.      Qui la conoscenza si fa portatrice del Ritmo Universale
49.      Ṛtaṁbharā prajñā, la conoscenza portatrice del ritmo universale, ha uno scopo diverso dalla conoscenza che insorge dall’inferenza e dalle scritture perché riguarda un altro, particolare oggetto di percezione.
50.      L’impressione mentale così prodotta si contrappone alle impressioni mentali prodotte da esperienze ordinarie.
51.      Estinguere anche questa impressione mentale porta all’estinzione di tutti i saṁskāra. Questo è ciò che viene definito Nirbīja samādhi, il samādhi senza seme.

Gli undici versetti finali (1.40-51) iniziano con la descrizione del potere di controllo sulla materia.
La parola vaśīkāra, che abbiamo già incontrato in 1.15, nelle traduzioni del versetto 1.40 viene reso spesso con “concentrazione estrema”, oppure con “mettere sotto controllo”, riferendosi alla mente (vedi ad esempio la traduzione di Hariharananda Aranya[1]), ma, come abbiamo già detto significa letteralmente “potere magico”, “incantamento”, “fascinazione”. Un potere di controllo sulla materia che verrebbe acquisito grazie alla purificazione della mente o, forse, come dicono alcuni, riferendosi a 1.39, a “colui che pratica dhyānā su un oggetto amato”.
Nel versetto successivo, 1.41, troviamo per la prima volta la descrizione di samāpatti.
In genere samāpatti, usato nei Veda con il significato di “assumere la forma originale”, è considerato un sinonimo di samadhi, ma nel buddhismo, a cui, come si è visto, Patañjali fa spesso riferimento, si opera una distinzione tra i due termini: samadhi viene inteso come “meditazione che conduce all’identità della mente con un oggetto” e samāpatti indica invece “la realizzazione, l’estasi”.
Nel versetto 1.41 si chiarisce che il samāpatti è la realizzazione dell’identità tra “conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza” (grahītṛgrhaṇagrāhyeṣu).in altre parole, mentre in condizioni ordinarie un oggetto o un fenomeno percepiti vengono “interpretati” sulla base della memoria e delle sovrastrutture culturali, nel samāpatti la mente si comporta come un cristallo puro (maṇi) assumendo le proprietà degli oggetti percepiti (tatsthatadañjanatā, “assumere il colore di ogni oggetto che sia nelle vicinanze, entrare in identità con ciò che è vicino”).
Ci sono varie tipi di samāpatti.
Nel savitarkā samāpatti la mente del meditante viene assorbita da un insieme confuso di intuizioni e fantasie che, seppur piacevole, non può portare alla realizzazione degli insegnamenti tradizionali. Purificando la memoria si realizzerà invece lo stato detto nirvitarkā samāpatti, nel quale il praticante potrà realizzare pienamente l’identità tra soggetto, conoscenza e oggetto di conoscenza che provocherà, mediante uno “shock informativo”, la trasformazione della mente e quindi della realtà percepita.
A questi due (savitarkā e nirvitarkā) seguono gli stati detti savicāra, e nirvicāra, “il cui oggetto di conoscenza è sottile”.
La descrizione dei vari tipi di samāpatti ci riporta nuovamente agli insegnamenti del Buddha.
Vicāra, citato in 1.44, nel buddhismo è uno dei fattori del primo dei quattro dhyāna (jhāna in Pāli), le quattro tappe che accompagnano il meditante verso la realizzazione. Questi fattori sono evidentemente in relazione con le quattro condizioni di coscienza/conoscenza definite nei sūtra 42- 47 (savitarkā, savicāra, nirvitarkā e nirvicāra).
I fattori del primo dhyāna buddhista sono:

-         Vitarka (vitakka) ovvero “ragionamento”;
-         Vicāra ovvero “investigazione”;
-         Prīti (pīti) ovvero “gioia generalizzata, senza oggetto di godimento”;
-         Sukha ovvero “piacere”[2].

La differenza tra vitarka e vicāra è simile a quella che intercorre tra soluzione di un’operazione matematica (ottengo il risultato facendo la somma o il prodotto di più fattori) e la soluzione di un rebus. Per ciò che riguarda gli altri due fattori, che insorgono all’estinzione di vitarka e vicāra, si può dire che la condizione definita prīti è caratterizzata da uno stato di eccitazione quasi febbrile, mentre quella definita sukha è caratterizzata da uno stato di calma.

Finalmente, dopo aver esperito gli stati precedenti, nel nirvicāra samādhi la grazia del vero Sé si manifesta come vaiśāradya.
Vaiśāradya significa “chiarezza mentale, infallibilità, saggezza”, ma nel buddhismo indica un particolare stato di coscienza dei Bodhisattva e del Buddha caratterizzato da “fiducia, assenza di paura e maestria”.
Grazie a vaiśāradya il praticante avrà accesso a “rtaṁbharā prajñā”, la conoscenza portatrice del Ritmo universale che potremmo identificare con “il flusso”.
I saṁskāra prodotti in questa condizione, prenderanno il posto di quelli prodotti in condizioni ordinarie. L’estinzione di questi “nuovi” contenuti psichici porterà quindi all’estinzione di “tutti” i contenuti psichici. È questo il nirbīja samādhi, il samādhi senza seme.



TESTO IN SANSCRITO E NOTE ALLA TRADUZIONE



परमाणु परममहत्त्वान्तोऽस्य वशीकारः ॥४०॥

paramāṇu parama-mahattva-anto-'sya vaśīkāraḥ 40

Paramāṇu = “infinitesima parte di un atomo, la trentesima parte di un raggio di sole[3], il passaggio di un raggio di sole attraverso un atomo”.
Parama = “supremo, assoluto”.
Mahattva = “grandezza, importanza, opulenza, gloria”.
Anta = “termine, confine, ultimo passo”.
Paramamahattvānta = “indefinitamente grande”[4].
Asya = “il suo”[5].
Vaśīkāra = “incantamento, magico potere di controllare persone e cose[6].

40.      Il suo[7] magico potere di controllo sulla materia, si può estendere dall’infinitamente piccolo all’indefinitamente grande.



क्षीणवृत्तेरभिजातस्येव मणेर्ग्रहीतृग्रहणग्राह्येषु तत्स्थतदञ्जनता समापत्तिः ॥४१॥

kṣīṇa-vṛtter-abhijātasy-eva maṇer-grahītṛ-grahaṇa-grāhyeṣu tatstha-tadañjanatā samāpattiḥ 41

Kṣīṇa = “estinto, distrutto”.
Vṛtti = “attività, movimento, modo di essere, comportamento, predisposizione ad un determinato comportamento”.
Abhijātasya = “qualcuno o qualcosa che è nato da…”
kṣīṇavṛtterabhijātasya = “che è nato dall’estinzione delle vṛtti, mente purificata” [8].
Iva = “come”.
Maṇer = “gemma preziosa, cristallo”[9].
Grahītṛ = “recipiente, percipiente”.
Grahaṇa = “cogliere, acchiappare, prendere la mano, sposare, imprigionare”.
Grāhyeṣu = “essere acchiappato, imprigionato, realizzato”.
Grahītṛgrhaṇagrāhyeṣu = “identità tra soggetto percipiente, percezione e oggetto percepito” oppure “identità tra conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza”[10].
Tat = “quello, di quello, di Lui”.
Stha = “stare, essere situato, occupare un luogo”.
Tad = “lei, lui, questo, quello, in quel modo, in quel luogo”.
Añjanatā = “identità”.
Tatsthatadañjanatā = “assumere il colore di ogni oggetto che sia nelle vicinanze, entrare in identità con ciò che è vicino”[11].
Samāpatti = “contemplazione, estasi, realizzazione della forma originaria”[12].

41.            La mente purificata, come il cristallo puro, assume il colore di ogni oggetto che gli sia vicino, permettendo la realizzazione dell’identità tra conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza. Questo stato viene definito samāpatti.



तत्र शब्दार्थज्ञानविकल्पैः संकीर्णा सवितर्का समापत्तिः ॥४२॥

tatra śabdārtha-jñāna-vikalpaiḥ saṁkīrṇā savitarkā samāpattiḥ 42

Tatra = “là, in quel luogo”.
Śabdārtha = “natura o significato di un suono, significato di una parola”.
Jñāna = “Conoscenza, conoscere, conoscenza spirituale, conoscenza perfetta, speculazione filosofica”.
Vikalpais = “immaginazioni, fantasie, false conoscenze, diversità, varietà”.
Kīrṇā = “sparpagliato, gettato, coperto, nascosto”.
Saṁkīrṇā = “sparpagliato insieme con, nascosto insieme a…, mescolato con…”[13].
Savitarkā = “accompagnato dal ragionamento, accompagnato da una congettura”[14].
Samāpatti = “contemplazione, estasi, realizzazione della forma originaria”[15].

42.       Il samāpatti savitarkā è lo stato in cui (c’è) la reale conoscenza del significato di suoni e parole (ma) è mescolata con fantasie ed errate congetture.[16]

स्मृतिपरिशुद्धौ स्वरूपशून्येवार्थमात्रनिर्भासा निर्वितर्का ॥४३॥

smṛti-pariśuddhau svarūpa-śūnyeva-arthamātra-nirbhāsā nirvitarkā 43

Smṛti = “memoria, rimembranza” [17].
Pariśuddhi = “Completa purificazione, riabilitazione, dimostrazione di innocenza”. [18]
Svarūpa = “vera forma, la sua propria forma, natura, peculiarità”.
Śūnya = “vuoto”.
Iva = “come”.
Arthamātra = “soldi, proprietà” [19].
Nirbhāsā = “apparenza, ciò che splende in lontananza, particolare forma di samādhi     e di meditazione (vimala nirbhāsā)”[20].
Nirvitarkā = “sconsiderata, senza ragionamenti o congetture”.

43.       Nirbhāsā nirvitarkā è la condizione in cui, a causa della completa purificazione della memoria la vera forma dell’oggetto viene percepita per ciò che è, come puro significato libero da ogni genere di sovrastruttura mentale e culturale.[21]


एतयैव सविचारा निर्विचारा सूक्ष्मविषय व्याख्याता ॥४४॥
etayaiva savicārā nirvicārā ca sūkṣma-viṣaya vyākhyātā 44

Etaya = “da questo, da questi ultimi”[22].
Iva = “come”.

Vicāra = “investigazione, inchiesta, ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione, esame, indagine”[23].
Savicārā = “con vicāra, accompagnato da vicāra”, ovvero “accompagnato da investigazione, ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione, esame, indagine”.
Nirvicārā = “senza vicāra, in assenza di vicāra”, ovvero “senza investigazione, ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione, esame, indagine”.
Ca = “e, pure, entrambi, così come”.
Sūkṣma = “fine, sottile, delicato”.
Viṣayā = “ogni fenomeno che sia oggetto di percezione, esperienza, oggetto dei sensi”[24].
Vyākhyātā = “Esposto, spiegato, commentato”[25].

44.      Da questo viene la spiegazione anche di savicārā e nirvicārā che hanno per oggetto i fenomeni sottili.



सूक्ष्मविषयत्वम्चालिण्ग पर्यवसानम् ॥४५॥

sūkṣma-viṣayatvam-ca-aliṅga paryavasānam 45

Sūkṣma = “fine, sottile, delicato”.
Viṣayatva = “ambito di esistenza, essere confinati in uno spazio, accadere solo in certi ambiti”.
Ca = “senza seme, puro”[26].
Aliṅga = “senza segni distintivi, senza sesso o connotazioni sessuali, senza la forma esteriore, indefinibile”[27]
Paryavasānam = “fine, termine, conclusione, determinazione, accertamento”.

45.       L’ambito di esistenza degli elementi sottili termina nell’indefinibile senza seme (aliṅga)



ता एव सबीजस्समाधिः ॥४६॥

tā eva sabījas-samādhiḥ 46

Tāḥ (tās)= “queste, quelle”.
Iva = “come”.
Sabīja = “con seme”.
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance yogica” [28].

46.       Queste forme di contemplazione[29] sono conosciute come samādhi con seme.



निर्विचारवैशारद्येऽध्यात्मप्रसादः ॥४७॥

nirvicāra-vaiśāradye-'dhyātma-prasādaḥ 47

Nirvicāra = “senza vicāra, in assenza di vicāra”, ovvero “senza investigazione, ponderazione, deliberazione, considerazione, riflessione, esame, indagine”[30].
Vaiśāradya = “chiarezza mentale, infallibilità, saggezza”[31].
Adhyātma = “vero Sé”[32].
Prasādaḥ = “grazia, favore, stato di grazia”[33].

47.      Nel nirvicāra samādhi la grazia del vero Sé si manifesta come fiducia, temerarietà e maestria.



ऋतंभरा तत्र प्रज्ञा ॥४८॥

ṛtaṁbharā tatra prajñā 48

Ṛtaṁ = “ritmo universale”[34].
Bharā = “portatrice”.
Tatra = “là, in quel luogo”[35].
Prajñā = “saggezza, intelligenza, conoscenza, una particolare śakti (energia) legata alla dea Sarasvatī e all’ādi-Buddha”.

48.      Qui la conoscenza si fa portatrice del Ritmo Universale



श्रुतानुमानप्रज्ञाअभ्यामन्यविषया विशेषार्थत्वात् ॥४९॥

śruta-anumāna-prajñā-abhyām-anya-viṣayā viśeṣa-arthatvāt 49

Śruta = “ascoltato, sentito, trasmesso oralmente”[36].
Anumāna = “inferenza, congettura”[37].
Prajñā = “saggezza, intelligenza, conoscenza, una particolare śakti (energia) legata alla dea Sarasvatī e all’ādi-Buddha”.
Ābhyāṁ = “con loro, con quei due”[38].
Anya = “un’altra persona, altro, differente, diverso da…”.
Viṣayā = “ogni fenomeno che sia oggetto di percezione, esperienza, oggetto dei sensi”[39].
Viśeṣa = “discriminazione, distinzione, differenza, peculiarità” [40].
Arthatvāt = “funzione, scopo, motivazione”[41].

49.       Ṛtaṁbharā prajñā, la conoscenza portatrice del ritmo universale, ha uno scopo diverso dalla conoscenza che insorge dall’inferenza e dalle scritture perché riguarda un altro, particolare oggetto di percezione.


तज्जः संस्कारोऽन्यसंस्कारप्रतिबन्धी ॥५०॥

tajjaḥ -saṁskāro-'nya-saṁskāra pratibandhī 50

Tajjas = “originato da, saltato fuori da”.
Saṁskāra[42] = “impressione mentale.
Anya = “un altro”.
Saṁskāra = “impressione mentale”.
Pratibandhī = “contraddizione, ostruzione, contrapposizione”.

50.       L’impressione mentale così prodotta si contrappone alle impressioni mentali prodotte da esperienze ordinarie.



तस्यापि निरोधे सर्वनिरोधान्निर्बीजः समाधिः ॥५१॥

tasyāpi nirodhe sarva-nirodhān-nirbījaḥ samādhiḥ 51

Tasya api= “anche di lui” [43].
Nirodha= “estinzione, confinamento, imprigionamento, controllo, soppressione, annichilimento” [44].
Sarva= “completamente, totalmente, in tutte le sue parti” [45].
Nirodhān = “estinzione, confinamento, imprigionamento, controllo, soppressione, annichilamento” [46].
Nirbījaḥ samādhiḥ = “samādhi senza seme”.

51.      Estinguere anche questa impressione mentale porta all’estinzione di tutti i saṁskāra. Questo è ciò che viene definito Nirbīja samādhi, il samādhi senza seme.


इति पतञ्जल योग दर्षने समाधिपादः
iti pātañjala yoga darśane samādhi-pādaḥ

Iti = “così, in questa maniera (riferito a qualcosa che si è detto in precedenza)”.
Pātañjala = “di Pātañjali”.
Yoga= “disciplina psicofisica finalizzata alla realizzazione del Sé” [47].
Darśana = “visione, punto di vista filosofico”.
Samādhi = “mettere insieme, unire, combinare”, nel Mahābhārata è usato nel senso di “trance yogica” [48].
Pāda = “piede, gamba, sezione, un quarto, la quarta parte di…”.

-     Così (è detto nel) samādhi-pāda dello yoga darśana di Pātañjali.





[1] “When The Mind Develops The Power Of Stabilising On The Smallest Size As Well As On The Greatest One, Then The Mind Comes Under Control”.
[2] Possiamo collegare i quattro fattori anche ai quattro stati citati in 1.17, ovvero vitarka, vicāra, ānanda e asmitā.

[3] Vedi Mahābhārata.

[4] Visto che parama significa “supremo, assoluto” mahattva “grandezza, importanza, opulenza, gloria”, anta “termine, confine, ultimo passo”, per cui la parola composta paramamahattvānta può, appunto, indicare “ciò che è grande oltre ogni limite”.

[5] Asya ha vari significati, come, ad esempio, “dalla forma gigantesca” (vedi Bhāgavata Purāṇa 3.6.22), ma qui, molto probabilmente è inteso nel senso di suo (sesto caso singolare, possessivo, del pronome Idam). Vedi a proposito Bhagavad gītā 2.67: “indriyāṇāṁ hi caratāṁ yan mano ’nuvidhīyate tad asya harati prajñāṁ vāyur nāvam ivāmbhasi”.

[6] Vaśīkāraḥ, nelle traduzioni del versetto 1.40 viene reso spesso con “concentrazione estrema”, oppure con “mettere sotto controllo, riferendosi alla mente (vedi traduzione di Hariharananda Aranya : “When The Mind Develops The Power Of Stabilising On The Smallest Size As Well As On The Greatest One, Then The Mind Comes Under Control”), ma significa letteralmente “potere magico”, “incantamento”, “fascinazione”.
[7] “Il suo” è riferito, molto probabilmente a “Colui che pratica dhyānā su un oggetto amato”.

[8] Kṣīṇa significa “estinto, distrutto, cancellato, attenuato”; vṛtti come abbiamo visto indica le modificazioni della mente; abhijātasya sesto caso singolare (possessivo) di abhijāta, in letteratura è usato per indicare “qualcuno che è nato da…”, per esempio in Bhāgavata Purāṇa 5.8.26 si trova hṛdaya-abhijātasya con il significato di “nato dal suo proprio cuore”.

[9] Maṇeḥ, sesto caso singolare (possessivo) di maṇi che significa “gioiello, pietra preziosa, gemma, rubino, perla”, ma viene anche usato nel senso di “pietra di paragone” (vedi Śrī Caitanya caritāmṛta Ādi 7.126: “nānā ratna-rāśi haya cintāmaṇi haite tathāpiha maṇi rahe svarūpe avikṛte”) e nel senso di “essere puri e luminosi come gioielli” (vedi Bhāgavata Purāṇa  11.2.44: “bhagavata uru-vikramāṅghri-śākhā-nakha-maṇi-candrikayā nirasta-tāpe hṛdi katham upasīdatāṁ punaḥ sa prabhavati candra ivodite ’rka-tāpaḥ”).

[10] Grahītṛgrahaṇagrāhyeṣu, parola composta da grahītṛ (recipiente, percipiente), grahaṇa (l’atto di cogliere, acchiappare, prendere la mano, sposare o imprigionare), e grāhyeṣu (participio futuro passivo locativo plurale di grāhya, essere acchiappato, imprigionato, realizzato), prende qui il significato di “identità tra conoscitore, conoscenza e oggetto di conoscenza”.

[11] Tatsthatadañjanatā, parola composta da tat (“quello”), stha (“che sta”), tad (quello, in quel luogo) e añjanatā (identità), significa secondo il Monier-Williams: “assumere il colore di ogni oggetto che sia nelle vicinanze”.
[12] Samāpatti, termine usato in atharva-veda-prātiśākhya con il significato di “assumere la forma originale”, è considerato solitamente un sinonimo di samadhi. Nel buddhismo si opera invece una distinzione tra i due termini con samadhi che viene inteso come “meditazione che conduce all’identità della mente con un oggetto” e samāpatti che indica invece “la realizzazione, l’estasi”.
[13] Saṁ significa “insieme, con”, kīrṇā viene usato in letteratura nel senso di “sparpagliato, gettato” (vedi Rāmāyaṇa), oppure nel senso di “coperto, nascosto” (vedi śakuntalā, e pañcatantra). Nel caso del versetto 1.42 “la conoscenza del vero significato di suoni e parole parola” (śabdārthajñāna) verrebbe “sparpagliata insieme” o nascosta insieme ai vikalpa.

[14] Savitarka significa “con vitarka” ovvero (vedi Mahābhārata) “accompagnato da un ragionamento, una opinione, una supposizione, una congettura”.

[15] Samāpatti, termine usato in atharva-veda-prātiśākhya con il significato di “assumere la forma originale”, è considerato solitamente un sinonimo di samadhi. Nel buddhismo si opera invece una distinzione tra i due termini con samadhi che viene inteso come “meditazione che conduce all’identità della mente con un oggetto” e samāpatti che indica invece “la realizzazione, l’estasi”.

[16] Per meglio comprendere il sūtra 1.42 e il successivo dovremmo forse considerare che śabdārtha assume talvolta il significato di “comprensione degli insegnamenti orali” Nel savitarkā samāpatti la mente del meditante viene assorbita da un insieme confuso intuizione e fantasie che, seppur piacevole, non può portare alla realizzazione degli insegnamenti tradizionali. Purificando la memoria si realizzerà invece lo stato detto nirvitarka samāpatti, nel quale la mente potrà realizzare pienamente l’identità tra soggetto, conoscenza e oggetto di conoscenza che provocherà, mediante uno “shock informativo”, la trasformazione della mente e quindi della realtà percepita.
[17] Con la parola Smr̥ti si intende anche l’insieme dei testi non rivelati, distinti dalla śruti, che raccoglie gli insegnamenti direttamente ascoltati o rivelati ai ṛṣi. La smṛti- include i sei vedāṅga, il libro della legge di Manu, gli itihāsa (ovvero la letteratura epica come il Mahābhārata-e il Rāmāyaṇa), i purana ecc.

[18] Vedi: Raghuvaṃśa, Bālarāmāyaṇa e Kathāsaritsāgara.

[19] Vedi Pañcatantra e Kathāsaritsāgara. Il significato di arthamātra è il medesimo del latino “pecunia” ma secondo il dizionario Monier-Williams in questo caso è da intendersi come “being only the matter itself”.

[20] Nirbhāsā nel versetto 1.43 viene spesso assimilato al sostantivo maschile vimalanirbhāsa (un particolare tipo di samādhi) e tradotto quindi con “illuminazione”. Probabilmente il versetto 1.43 fa riferimento ad una tecnica di meditazione buddhista descritta nel Vimalanirbhāsa Sūtra.
[21] Il versetto 1.43 tratta della percezione dello yogin definita arthamātradarśanaṃ (visione di una cosa in sé stessa) secondo gli insegnamenti del buddhismo. La percezione del praticante buddhista deve essere completamente separata dalla cognizione e libera da tutte le sovrastrutture, compresi gli insegnamenti delle scritture (āgamavikalpa). Vedi a tale proposito i testi di Dignāga (Dinnāga) Pramāṇasamuccaya, Ālambanaparīkṣā e Hetucakra.

[22] Vedi Bhāgavata Purāṇa 3.28.36:
“so’py etayā caramayā manaso nivṛttyā tasmin mahimny avasitaḥ sukha-duḥkha-bāhye hetutvam apy asati kartari duḥkhayor yat svātman vidhatta upalabdha-parātma-kāṣṭhaḥ”.
[23] Vicāra nel buddhismo è uno dei fattori del primo dei quattro dhyāna (jhāna in Pali), le quattro tappe che accompagnano il meditante verso la meditazione, fattori che potremmo mettere in relazione con i quattro stati definiti nei sūtra 42- 47 (savitarka, savicāra, nirvitarka e nirvicāra). I fattori del primo dhyāna buddhista sono:
-          Vitarka (vitakka in Pali) ovvero “ragionamento”;
-          Vicāra ovvero “investigazione”;
-          Prīti (pīti in Pali) ovvero “gioia generalizzata, senza oggetto di godimento”;
-          Sukha ovvero “piacere”.
La differenza tra vitarka e vicāra è simile a quella che intercorre tra soluzione di un’operazione matematica (ottengo il risultato facendo a. e. la somma o il prodotto di più fattori) e la soluzione di un rebus. Per ciò che riguarda gli altri due fattori, che insorgono all’estinzione di vitarka e vicāra) si può dire che la condizione definita prīti è caratterizzata da uno tato di eccitazione quasi febbrile, mentre quella definita sukha è caratterizzata da uno stato di calma.

[23] Con viṣaya, nome simbolico del numero cinque, si intende genericamente qualsiasi cosa sia oggetto di percezione, ma nello Yoga indica i cinque elementi sottili relativi ai cinque organi di senso: śabda (suono), sparśa (tangibilità), rūpa(forma/colore), rasa (sapore) e gandha (odore). Vedi: yājñavalkya, śaṃkarācārya, sarvadarśana-saṃgraha.

[24] Viṣayā, nome simbolico del numero cinque, nella filosofia indiana viene inteso solitamente come “oggetto di godimento” o “oggetto di conoscenza” (vedi le interpretazioni di Gauḍapāda, Māṭhara e Vācaspati a Sāṃkhyakārikā 11), ma nello Yoga indica i cinque elementi sottili relativi ai cinque organi di senso: śabda (suono), sparśa (tangibilità), rūpa(forma/colore), rasa (sapore) e gandha (odore). Vedi: Yājñavalkya, Śaṃkarācārya, Sarvadarśana-Saṃgraha.

[25] Vedi Bhāgavata Purāṇa 5.20.42, 5.21.1, 5.22.13, 6.1.3.

[26] La congiunzione indeclinabile ca (“e, entrambi”) in non rarissimi casi può essere intesa come “puro, senza seme” (vedi: Amarasiṃha, Halāyudha, Hemacandra). Nel versetto 1.45 ho pensato di scegliere questa definizione, che molti troveranno discutibile, per rafforzare il significato di aliṅga (vedi nota “112”). Ad ogni modo la mia interpretazione di 1.45 è in linea con le traduzioni più note, vedi ad esempio Swami Satchidananda:
“The subtlety of possible objects of concentration ends only at the undefinable”.
[27] La parola aliṅga, presente nel versetto 1.45, compare anche in 2.19 (विशेषाविशेषलिङ्गमात्रालिङ्गानि गुणपर्वाणि ॥१९॥ “viśeṣa-aviśeṣa-liṅga-mātra-aliṅgāni guṇaparvāṇi 19“) dove si descrivono i quattro stati costitutivi dei guna definiti viśeṣa, aviśeṣa, liṅga e aliṅga (aliṅgān). Le traduzioni, come spesso accade, danno ai quattro termini sfumature diverse, alcuni traducono con “specifico, non specifico, definito e indefinibile” (swami Satchidananda), altri con “definito, indefinito, indicato e senza segni” (swami Vivekananda), altri ancora con particolare, universale, differenziato e indifferenziato” (I. K. Taimni). Io ho preferito usare aliṅga nel senso di “indefinibile” anche considerando che liṅga, parola che indica il membro maschile, nello yoga viene usato per “immagine simbolica della divinità”, “simbolo o idolo, ovvero qualcosa che “definisce e rende riconoscibile” una divinità.

[28] Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna o jhāna nel buddhismo è l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di conoscenza intuitiva che permette, a sua volta, di accedere alla bodhi, o Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna: quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i termini che gli insegnamenti ad essi relativi, sono simili o identici a quelli che incontriamo in questo testo.
Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono un contributo originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione vedica. Gli arupa jhana invece erano incorporati nelle tradizioni ascetiche non buddiste.

[29] L’aggettivo dimostrativo “quelle” (tāḥ) è riferito alle forme di samāpatti descritte in precedenza, essendo samāpatti parola femminile.

[30] Nel sutra 1.47 la parola nirvicāra è declinata al maschile in quanto, presumibilmente è riferita al sostantivo maschile samādhi, mentre in precedenza abbiamo incontrato la forma femminile nirvicārā riferita presumibilmente a samāpatti.

[31] Vaiśāradya significa “chiarezza mentale, infallibilità, saggezza”. Nel buddhismo con questa parola si indica un particolare stato di coscienza dei Bodhisattva e del Buddha caratterizzato da “fiducia, assenza di paura e competenza”.

[32] Adhyātma è inteso come “spirito/anima universale, vero Sé, supremo Sé”, ma può significare anche “appartenente al Sé”.

[33] Prasādaḥ significa “grazia, favore”, ma in Bhāgavata Purāṇa 7.11.22 viene usato col significato di “allegria in tutte le situazioni della vita”: “śauryaṁ vīryaṁ dhṛtis tejas tyāgaś cātmajayaḥ kṣamā brahmaṇyatā prasādaś ca satyaṁ ca kṣatra-lakṣaṇam”.

[34] R̥ta, traducibile con “giusta legge, giusto ritmo, giusto ordine” rappresenta in realtà il Ritmo Originario dell’Universo collegato a Varuna, dio vedico degli oceani.  Scrive Panikkar (2001:350–351): "Ṛta is the ultimate foundation of everything; it is "the supreme", although this is not to be understood in a static sense. […] It is the expression of the primordial dynamism that is inherent in everything …"
[35] Tatra, che nel versetto 1.25 viene tradotto in genere con “in Lui”, o “in īśvara”, significa letteralmente “là”, “in quel luogo”. Probabilmente, come accade spesso in questo testo, le varie “Persone divine” vanno sempre intese come dimensioni o luoghi o stati di coscienza a cui accedere.

[36]  Śruta, secondo la chāndogya upaniṣad e il Mahābhārata significa “ascoltato, sentito, detto, insegnato, trasmesso oralmente di generazione in generazione”. Tradizionalmente con il termine Śruti si intendono i quattro veda.

[37] Anumāna significa letteralmente “inferenza, congettura, riflessione, trarre una conclusione da determinate premesse”. Nella filosofia indiana è uno dei tre strumenti di realizzazione della corretta conoscenza empirica insieme a pramāṇa (“giusta misura, corretta percezione”) e āgama (“testi rivelati”).
[38] Vedi Bhāgavata Purāṇa 10.38.15 (“athāvarūḍhaḥ sapadīśayo rathāt pradhāna-puṁsoś caraṇaṁ sva-labdhaye dhiyā dhṛtaṁ yogibhir apy ahaṁ dhruvaṁ namasya ābhyāṁ ca sakhīn vanaukasaḥ”).

[39] Viṣayā, nome simbolico del numero cinque, nella filosofia indiana viene inteso solitamente come “oggetto di godimento” o “oggetto di conoscenza” (vedi le interpretazioni di Gauḍapāda, Māṭhara e Vācaspati a Sāṃkhyakārikā 11), ma nello Yoga indica i cinque elementi sottili relativi ai cinque organi di senso: śabda (suono), sparśa (tangibilità), rūpa(forma/colore), rasa (sapore) e gandha (odore). Vedi: Yājñavalkya, Śaṃkarācārya, Sarvadarśana-Saṃgraha.

[40] Viśeṣa significa “differenza, peculiarità, essenza individuale”. Nella filosofia indiana (vaiśeṣika) indica anche la caratteristica dei cinque elementi Spazio, Aria, Fuoco, Acqua e Terra così “essenzialmente diversi che nessuno può sostituirne un altro”.

[41] In Sāṁkhyakārikā 17 la parola arthatvātè usata nel senso di “motivazione per
[42] Saṁskāra letteralmente significa “mettere insieme correttamente, formare nel modo corretto, rendere perfetto”, ma si usa anche nel senso di “realizzazione, abbellimento, ornamento, purificazione, pulizia, preparazione del cibo, estrazione e raffinazione dei metalli, lucidatura di gemme preziose, allevamento di animali” (vedi Mahābhārata), ma per estensione semantica va ad indicare anche “i sacramenti, le iniziazioni e le cerimonie di purificazione” (vedi manu-smṛti e Mahābhārata). Nella filosofia indiana saṁskāra indica “la facoltà della memoria, il ricordo, l'impressione mentale di atti compiuti nel passato in un precedente stato di esistenza”. Nel buddismo i saṁskāra sono le impressioni lasciate del karma passato che causano i fenomeni presenti. Sono in pratica i “semi dell’esistenza individuale” in quanto formerebbero formano la cosiddetta “coscienza deposito (ālayavijñāna) in cui si accumulano le tracce delle azioni passate. Ciò che facciamo nel presente non sarebbe altro che un riportare alla coscienza, rendendoli “attivi”, i saṁskāra giacenti nell’ ālayavijñāna. Nel Nyāya e nel Vaiśeṣika saṁskāra viene definito come “disposizione latente”, e viene suddiviso in tre tipi: inerzia, elasticità e traccia psichica (bhāvanā). “L’inerzia spiega la continuità del moto di una sostanza in una determinata direzione, mentre l’elasticità è la tendenza di certi oggetti, come il ramo di un albero, a riprendere autonomamente la posizione originale quando la sollecitazione esterna viene meno. La traccia psichica è la disposizione attitudinale degli individui, una qualità inerente al sé (ātman), che è prodotta da esperienze singole o abitudinarie ed è anche un elemento cardine del meccanismo della memoria”.
[43] Vedi Bhāgavata Purāṇa 5.12.5-6.

[44] Nirodhe, locativo maschile singolare di nirodha, in Bhāgavata Purāṇa 1.6.24 è inteso nel senso di “anche al tempo dell’annichilimento”:
“matir mayi nibaddheyaṁ na vipadyeta karhicit prajā-sarga-nirodhe ’pi smṛtiś ca mad-anugrahāt”.

[45] Nel Mahābhārata Sarva è uno dei nomi di Śiva.

[46] Accusativo maschile plurale di nirodha.
[47] Il significato letterale di yoga è: “uso, utilizzazione, modo di impiego” (vedi ṛg veda). Nel Mahābhārata indica “l’atto di equipaggiare un esercito, di metterlo in condizione di combattere”.

[48] Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna o jhāna nel buddhismo è l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di conoscenza intuitiva che permette, a sua volta, di accedere alla bodhi, o Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna: quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma (arūpa jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i termini che gli insegnamenti ad essi relativi, sono simili o identici a quelli che incontriamo in questo testo. Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono un contributo originale del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione vedica. Gli arupa jhana invece erano incorporati nelle tradizioni ascetiche non buddiste.


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