GLI "OSTACOLI ALLA PRATICA" IN PATAÑJALI ALLA LUCE DEGLI INSEGNAMENTI BUDDHISTI - Lezione On Line del 1° maggio 2020
GLI OSTACOLI ALLA
PRATICA E GLI OTTO RIMEDI
I versetti 1-39 sono dedicati agli ostacoli – dovuti all’instabilità della
mente – che lo yogin incontra durante la pratica, e ai rimedi grazie ai quali
si può mantenere condizione di “purificazione della mente” in modo da
proseguire il cammino fino alla meta finale. Se si analizzano questi sūtra
alla luce degli insegnamenti buddhisti le similitudini tra le due scuole
–quella dello yoga “hindu” e quella buddhista – appaiono abbastanza evidenti.
Non si tratta di una teoria originale:
nonostante le apparenti divisioni ideologiche – come nota Raniero Gnoli
nell’introduzione a “Nāropā Iniziazione” (Edizioni Adelphi 1994) – I punti di
contatto tra induismo e buddhisti sono frequentissimi e le due tradizioni
sembrano, a volte, sovrapporsi.
In questi sūtra le similitudini sono
assai evidenti, a partire da 1.33[1] dove ,
Patañjali cita, quali rimedi contro l’instabilità della mente maitrī
- che
ho tradotto con “cordialità” (ma può significare anche “amicizia”,
“benevolenza”, “convivialità” ecc.) - karuṇā
- “compassione” - mudita – “attitudine alla gioia” - e upekṣā – “indifferenza di fronte a
successo ed insuccesso, piacere e dolore” - che non sono altro che i quattro Brahmavihāra, le quattro divine
attitudini coltivando le quali il praticante buddhista si assicura la rinascita
nel regno di Brahma.
La traduzione è stata fatta confrontando le versioni
di sei diversi autori:
-
Hariharananda Aranya;
-
I. K. Taimni;
-
Swami Satchidananda;
-
Swami Prabhavananda;
-
Swami Vivekananda;
-
Raphael.
In coda
abbiamo aggiunto il testo originale - “TESTO SANSCRITO” - con la traduzione letterale di ogni singolo termine tratta dal vocabolario
Monier-Williams e, per molti vocaboli, l’uso che se ne fa nei classici della
letteratura indiana.
GLI OSTACOLI ALLA PRATICA (1.29-31)
29.Da
questo procedono la realizzazione della coscienza interiore e la rimozione
degli ostacoli.
30.Gli
ostacoli che gettano la mente in una condizione di instabilità impedendole di
passare attraverso i vari stadi della meditazione profonda sono questi:
Malattia, rigidità e rozzezza, dubbio, negligenza, pigrizia, smoderatezza,
errata percezione della realtà.
31.I
sintomi che accompagnano l’atto di gettare la mente in una condizione di
instabilità sono: la sofferenza, la malinconia, il tremore del corpo e
l’irregolarità del respiro.
Il tema fondamentale dei versetti
1.29-31 sono gli ostacoli legati all’instabilità della mente. Ostacoli che
impediscono al praticante di passare attraverso i vari stadi della meditazione
profonda.
Per il buddhismo esistono cinque diverse condizioni
della mente chiamate cittabhūmi, o
“territori della mente”:
1. Kṣipta, “confusione”.
2. Mūḍha, “ottusità, stupidità”.
3. Viksipta, “dispersione, agitazione”.
4. Ekagra, “attenzione concentrata”.
5. Niruddha, “controllo”.
Cinque territori nei quali il praticante vaga
inconsapevolmente, mosso dagli stimoli esterni e dai residui contenuti
psichici.
Lo yogin può cercare di rendere stabile la condizione
di “controllo” (niruddha) passando
attraverso la pratica, assidua, della “attenzione controllata”, esercitandosi
nella concentrazione su un punto, un oggetto, un principio, un processo
fisiologico o nella ripetizione di un mantra.
Ma fin quando non mente non sarà “purificata”, si
incontreranno, durante la meditazione, una serie di ostacoli che per così dire,
impediranno l’esperienza detta asaṁprajñāta
(vipaśyana).
Gli ostacoli alla pratica, difficili da riconoscere in
se stessi, provocano dei sintomi elencati da Patañjali in
1.31:
- Duḥkha = “dolore, sofferenza”.
- Daurmanasya = “malinconia, sconforto”.
- Aṅgamejayatva = “tremore del corpo”.
- Śvāsapraśvāsāḥ = “respirazione irregolare”.
Patañjali
non si riferisce ovviamente a sintomi, derivanti da problemi di natura fisica o
psichica, che insorgono nella vita quotidiana durante le attività ordinarie, ma
alle difficoltà che insorgono durante una seduta di meditazione.
Gli ostacoli elencati in 1.30 sono sei:
1.
Vyādhi. Nel Viṣṇu Purāṇa,
vyādhi è il “figlio della morte” (mṛtyu), personificazione della malattia.
2.
Styāna di solito correttamente
tradotto con “apatia”, significa letteralmente “denso”, “rigido”, “grossolano”,
“rozzo” e indica sia la rigidità mentale, che la rigidità fisica.
3.
Pramāda significa letteralmente
“intossicazione” (da droghe o da alcool), ma in genere i commentatori lo interpretano
secondo gli insegnamenti buddhisti per i quali pramāda significa “non sforzarsi di adottare un atteggiamento salutare
ed essere restii ad abbandonare azioni non salutari”.
4.
Avirati che viene spesso
tradotto con “incontinenza” riferita specificamente alla sfera sessualità, ma il
suo significato letterale è “intemperanza” intesa come mancanza di controllo, misura
e regole.
5.
Ālasya = “pigrizia”.
6.
Bhrāntidarśana = “errata percezione”.
Malattia
ed errata percezione della realtà rientrano nella sfera di ciò che negli insegnamenti
tradizionali buddhisti viene definito “Incapacità di applicare i metodi per superare
gli ostacoli”.
Anche
nel caso in cui si avesse accesso a quelle che vengono definite “tecniche
operative”, ovvero le tecniche per rimuovere i contenuti psichici, le precarie
condizioni fisiche ci impedirebbero di metterle in pratica, e “l’errata
percezione della realtà”, dipendente sia da malattia (un daltonico scambierà un
colore per un altro) sia da ignoranza ordinaria ci impedirà di comprendere
veramente gli insegnamenti tradizionali.
Spesso
l'incapacità di applicare i rimedi, quando non ci sono impedimenti fisici, ovvero
patologie importanti, è dovuta più che
all'ignoranza alla volontà di non sciogliere definitivamente i blocchi psicofisici.
I blocchi rappresentano la nostra personalità, ciò che chiamiamo Ego. Se ci
identifichiamo con la nostra personalità, sciogliere i blocchi significherebbe
sciogliere noi stessi, morire in un certo senso, cosa che ovviamente incute
timore, e così tecniche tutto sommato semplici per ricordarsi di sé, come il
sedersi a contare le respirazioni o l'osservare la radice dei pensieri, o il
concentrarsi su determinati processi fisiologici o il ripetere un mantra,
quando sono conosciuti, non vengono applicati a causa della volontà di
mantenere integri i contenuti egotici nei quali ci riconosciamo.
La rigidità è sia fisica che mentale.
La rigidità fisica è quella, ad esempio che impedisce di assumere le
posizioni di meditazione e di mantenerle a lungo.
La rigidità mentale è la tendenza a cristallizzarsi in credenze ed opinioni,
ma in questo caso potrebbe riferirsi anche all’eccesso di disciplina, ovvero
(sempre rifacendosi agli insegnamenti buddhisti) alla "tendenza ad
applicare i metodi per superare gli ostacoli anche quando non è
necessario".
L'eccesso di disciplina nasce invece
dalla paura di lasciarsi andare. Il fine ultimo dello yoga è il dispiegare le
ali e gettarsi a volo di rondine nell'abisso dell'Essere. Un viaggio senza sostegni,
senza appigli, senza mappe né punti di riferimento.
Le tecniche operative, i mantra, le letture dei maestri, gli atti di devozione
divengono talvolta delle scialuppe di salvataggio e finiscono per sostituire la
vera pratica dello yoga, che consiste nel lasciarsi andare, nell'arrendersi alla
propria natura, fino a riconoscersi uno con l’Universo; o meglio essere testimone
di questo riconoscimento (“il Veggente che riposa in se stesso”)
L’incapacità di avere abitudini salubri e l’incontinenza fanno parte di ciò
che possiamo definire “tendenza all’oblio”.
La tendenza all’oblio, nella pratica dello yoga, è assai difficile da
inquadrare. È un fenomeno stravagante:
Si vivono esperienze particolari, eccitanti ed emozionanti e
improvvisamente ce ne dimentichiamo.
Queste
esperienze (samādhi) fanno parte del
percorso dello yogin e sono dovute allo scioglimento di determinati blocchi o contenuti
psichici. A volte, come si è detto, la risoluzione dei contenuti psichici è definitiva
(asaṁprajñāta).
Più
di frequente è una condizione temporanea (saṁprajñāta).
Esempio: faccio un periodo di ritiro o una pratica intensiva e percepisco lo
scioglimento dei contenuti psichici come “fenomeno fisico”. Un'esperienza assai
forte, una specie di intrusione del divino nella vita quotidiana.
Ritornato
nel mio ambiente lentamente le abitudini prendono il sopravvento e dimentico quella
intrusione nel divino che mi era apparsa tanto appagante, quella sensazione di luminosa
pienezza che avevo avvertito durante la pratica. In poco tempo torno a vivere in
uno stato di confusione, quello stato, consueto per i più, in cui avverto continuamente
un disagio, un’ansia di irrisolutezza che mi impediscono di essere felice. Nel torpore
e nell'agitazione mentale ci dominano prima e dopo l'oblio non è difficile
abbandonarsi agli eccessi.
La
pigrizia del praticante è abbastanza facile da riconoscere:
Supponiamo che un istruttore mi abbia insegnato
un mantra da ripetere 108 volte o una serie di posture da effettuare ogni
giorno. I primi tempi sarò entusiasta e svolgerò i compitini come uno studente modello.
Poi piano piano l'entusiasmo si smorza e la mia mente troverà sempre nuove scuse
per non praticare: il figlio che piange, i problemi del lavoro, il mal di schiena,
ecc. ecc. finché trovare un quarto d'ora, mezz'ora al giorno per praticare diventerà
difficilissimo e ci troveremo a rimandare al giorno dopo o ad aspettare che le condizioni
siano propizie...
I versetti 1.29-31 parlano degli ostacoli alla pratica e dei sintomi che
gli accompagnano. Gli ostacoli, condizioni ordinarie della mente non
purificata, impediscono al meditante di sperimentare la condizione di coscienza/conoscenza definita e asaṁprajñāta (“L’altro tipo di
coscienza/conoscenza di 1.18). Saṁprajñāta
e asaṁprajñāta sono due diversi
stadi della pratica meditativa identificabili, negli insegnamenti buddhisti,
con śamatha (samatha) e vipaśyana (vipassanā). Il primo (saṁprajñāta) è una realizzazione “relativa”, nella quale il
praticante è ancora legato al mondo dei nomi e delle forme e, quindi, in bilico
tra lo stato colmo di beatitudine del realizzato e l’ansia di incompiutezza comune
alla gran parte degli esseri umani.
Il secondo (asaṁprajñāta) è invece
uno stato di infinita beatitudine, “senza ritorno”, la condizione del “liberato
in vita”.
GLI OTTO RIMEDI (1.32-39)
32. La
condizione di instabilità della mente e i sintomi che l’accompagnano, si
possono prevenire (e rimuovere) con l’esercizio assiduo della concentrazione su
un unico principio.
33. La
purificazione della mente si realizza coltivando la cordialità, la compassione,
la gioia e l’indifferenza nei confronti delle esperienze che provocano piacere
o dolore, successo o fallimento.
34. Oppure
praticando l’emissione violenta e la ritenzione del prāṇa.
35. Oppure
mediante la stabilizzazione della mente sensoriale che si ottiene dalla
contemplazione di oggetti di percezione che insorgono spontaneamente
(percezioni non ordinarie).
36. Oppure
contemplando la notte stellata (effulgenza) di viśokā, il potere (siddhi) di
vivere senza dolore[2].
37. Oppure
contemplando nel proprio cuore la “città del godimento dei sensi” nella
condizione del vītarāga, colui che è libero dalle passioni.
38. Oppure
meditando conoscenza che insorge nel sogno e di sonno profondo.
39. Oppure
come risultato della meditazione sull’amato, ovvero una persona o un oggetto
che si ama e si desidera.
Tra gli “otto rimedi” proposti da quello proposto
in 1.33[3] rivela, una volta di più, le profonde analogie
esistenti tra l’insegnamento di Patañjali e quello del Buddha: maitrī, che ho tradotto con “cordialità” (ma può significare anche “amicizia”,
“benevolenza”, “convivialità” ecc.) karuṇā,
mudita e upekṣā non sono altro che i quattro Brahmavihāra, le quattro divine attitudini coltivando le quali il
praticante si assicura la rinascita nel regno di Brahma.
Anche il termine vītarāga
di 1.37[4], che
potremmo tradurre con “distacco dalle passioni” fa parte degli insegnamenti di
Buddha.
Nel buddismo tantrico è il potere del
distacco dalle passioni che contraddistingue il sesto dei dieci livelli spirituali
progressivi della via del Buddha, i sādhāraṇabhūmi,
le qualità del Bodhisattva.
I
dieci sādhāraṇabhūmi sono:
1.
Śuklavidarśanā (tibetano dkar po rnam par mthoṅ naḥi sa, tsing kouan)
ovvero il livello della chiara visione.
2.
Gotra (rigs kyi sa, sing or tchong sing), ovvero
livello del lignaggio spirituale.
3.
Aṣṭamaka (brgyad paḥi sa, pa jen or ti pa), o “livello
dell’ottavo santo” (realizzazione della non insorgenza dei dharma personali).
4.
Darśana (mthoṅ baḥi sa, kien or kiu kien), o livello
dei veggenti.
5.
Tanū (bsrab paḥi sa, po), o livello dell’affievolirsi
delle passioni.
6.
Vītarāga (ḥdod chags daṅ bral baḥi sa, li yu), o livello
del distacco dalle passioni.
7.
Kṛtāvi (byas pa bsraṅ baḥi sa, yi tso or yi pan),
o livello di colui che ha portato a compimento il proprio “dharma-karma”.
8.
Pratyekabuddha, o livello del
muni o del Buddha solitario.
9.
Bodhisattva, ovvero i dieci
livelli dei Bodhisattva.
10.
Buddha, o livello del realizzato non duale.
Nel
versetto 1.36[5]
troviamo per la prima volta un riferimento ai poteri paranormali.
Nello
Yoga si parla di un certo numero di poteri definiti siddhi, che insorgono durante
la pratica del samadhi e che, secondo alcuni[6], sarebbero
capacità naturali dell’uomo perdute o dimenticate. Di solito si citano otto siddhi
maggiori ovvero:
1.
Il potere di diventare piccoli come un atomo (aṇimā);
2.
Il potere di diventare enormi (mahima);
3.
Il potere di diventare infinitamente pesanti (garima);
4.
Il
potere di diventare infinitamente leggeri (laghima
o potere della levitazione);
5.
Il potere di andare ovunque si voglia (prāpti).
6.
Il potere di realizzare tutti i desideri (prākāmya);
7.
Avere la supremazia sulla natura (iṣṭva).
8.
Il potere di controllare a piacimento gli eventi
atmosferici (vaśtva).
A
queste otto siddhi maggiori si accompagna
un numero variabile di siddhi minori tra
le quali, appunto viśokā inteso come potere
di allontanare il dolore (cfr. Viṣṇu Purāṇa).
Jyotiṣmatī,
sempre in 1.37, che solitamente viene tradotto con “effulgenza” o “luce
interiore”, significa letteralmente “luce delle stelle” o “notte stellata”, ma
è anche il nome di un particolare tipo di mattone usato per costruire gli altari
per il sacrificio vedico del fuoco o yajña,
ed è il titolo della prima upaniṣad dedicata
all’astrologia e alla magia, un testo oggi perduto chiamato anche Skanda Hora.
Essendo
la parola jyotiṣmatī collegata alla parola
viśokā, che indica uno dei poteri psichici
(siddhi) della tradizione tantrica,
c’è la possibilità che il versetto 1.36 faccia riferimento ad uno specifico rituale
o ad una tecnica collegata all’astrologia o ad una particolare percezione extrasensoriale.
Per ciò che riguarda il versetto 1.38[7] ho preso come riferimento la traduzione di Swami Vivekananda:
“Or
by meditating on the knowledge that comes in sleep”.
Ma l’interpretazione del sūtra varia a seconda del senso che si vuol dire
alla parola ālambanam, resa da
Vivekananda con “by meditating”.
Ālambanam, infatti può significare “supporto, sostegno, dimora” come in Kaṭh. Up.2.17.
Oppure può indicare il legame che unisce un sentimento all’oggetto che lo
causa, o la causa di un esperienza emotiva, ma è anche un esercizio di
visualizzazione in cui lo yogin cerca di annullare il dialogo interiore
portando l’attenzione su un’immagine del “dio persona”, forma grossolana
dell’Assoluto, o ripetendo mentalmente una preghiera o una formula.
Per i buddhisti ālambanam indica invece i cinque attributi degli
oggetti dei sensi, ovvero:
-
Rūpa
(forma):
-
Rasa
(sapore);
-
Gandha (odore),
-
Sparśa
(tangibilità);
-
Śabda (suono).
Se usassimo la terminologia buddhista, il sūtra 38 potrebbe essere un’indicazione a portare l’attenzione
sulla percezione sensoriale degli oggetti del sogno e delle visioni che possono
insorgere nello stato di sonno o di meditazione profonda.
I versetti 1.32-39 descrivono otto tecniche per eliminare gli ostacoli e lo
stato di confusione mentale che impediscono al praticante l’accesso agli stadi
più alti della meditazione (asaṁprajñāta). Negli otto rimedi sono riconoscibili gli
insegnamenti di vari lignaggi e scuole filosofiche:
- Vedānta (concentrazione sul Principio unico o
attenzione costante sul Brahman).
- Buddhismo (brahmavihāra sādhāraṇabhūmi).
- Haṭhayoga (prāṇāyāma, probabilmente bhastrikā e/o kapālabhātī).
- Tantrismo (Yoga del sogno e meditazione sull’Amato)
TESTO SANSCRITO
ततः प्रत्यक्चेतनाधिगमोऽप्यन्तरायाभवश्च ॥२९॥
tataḥ pratyak-cetana-adhigamo-'py-antarāya-abhavaś-ca ॥29॥
tataḥ pratyak-cetana-adhigamo-'py-antarāya-abhavaś-ca ॥29॥
Tatas = “da quello, da quel posto, in quel posto, quindi”.
Cetana = “anima, mente, percipiente, senziente, cosciente”.
Pratyakcetana = “uno i cui pensieri sono
rivolti a se stesso o alla propria interiorità”.
Adhigama = “acquisizione, realizzazione, l’atto di realizzare”.
Api = “anche”.
Antarāya = “ostacolo, impedimento, interruzione”.
Abhava = “distruzione, non esistenza, fine”.
Ca = “e, pure, entrambi, così come”.
29. Da questo
procedono la realizzazione della coscienza interiore e la rimozione degli
ostacoli.
व्याधि स्त्यान संशय प्रमादाअलस्याविरति भ्रान्तिदर्शनालब्धभूमिकत्वानवस्थितत्वानि चित्तविक्षेपाः ते अन्तरायाः ॥३०॥
vyādhi styāna saṁśaya pramāda-ālasya-avirati bhrāntidarśana-alabdha-bhūmikatva-anavasthitatvāni citta-vikṣepāḥ te antarāyāḥ ॥30॥
vyādhi styāna saṁśaya pramāda-ālasya-avirati bhrāntidarśana-alabdha-bhūmikatva-anavasthitatvāni citta-vikṣepāḥ te antarāyāḥ ॥30॥
Saṁśaya = “dubbio”.
Ālasya = “pigrizia”.
Bhrāntidarśana = “errata percezione”.
Alabdha = “non ottenimento, non realizzazione”.
Bhūmi = “area, posizione, posto, territorio”.
BhūMikā = “pavimento, suolo,
storia, gradino, livello”.
Alabdhabhūmikatva = “impossibilità
di realizzare alcuno stato della meditazione profonda”.
Anavasthitatva =
“instabilità, mutevolezza, dissesto”.
Citta = “cuore, mente, ragione, intelligenza”.
Vikṣepa = “gettare, lanciare,
scaricare”.
Te = “questi, quelli”.
Antarāya = “ostacolo, impedimento,
interruzione”.
30.
Gli ostacoli che gettano la mente in una
condizione di instabilità impedendole di passare attraverso i vari stadi della
meditazione profonda sono questi:
Malattia, rigidità e rozzezza,
dubbio, negligenza, pigrizia, smoderatezza, errata percezione della realtà.
दुःखदौर्मनस्याङ्गमेजयत्वश्वासप्रश्वासाः विक्षेप सहभुवः ॥३१॥
duḥkha-daurmanasya-aṅgamejayatva-śvāsapraśvāsāḥ vikṣepa sahabhuvaḥ ॥31॥
duḥkha-daurmanasya-aṅgamejayatva-śvāsapraśvāsāḥ vikṣepa sahabhuvaḥ ॥31॥
Duḥkha = “dolore, sofferenza”.
Daurmanasya = “malinconia, sconforto”.
Aṅgamejayatva = “tremore del corpo”.
Śvāsa = “sibilare, sbuffare, ansimare, disturbi del respiro, asma”.
Praśvāsā = “respirazione, inalazione”.
Śvāsapraśvāsāḥ = “respirazione irregolare”
Vikṣepa = “gettare, lanciare, scaricare”.
Sahabhuvaḥ = “accompagnando, che accompagnano”.
31.
I sintomi che accompagnano l’atto di gettare la mente in una condizione di
instabilità sono: la sofferenza, la malinconia, il tremore del corpo e
l’irregolarità del respiro.
तत्प्रतिषेधार्थमेकतत्त्वाभ्यासः ॥३२॥
tat-pratiṣedha artham-eka-tattva-abhyāsaḥ ॥32॥
tat-pratiṣedha artham-eka-tattva-abhyāsaḥ ॥32॥
Tat = “quello, di quello, di Lui”.
Pratiṣedha = “proibizione, rifiuto, prevenzione”.
Eka = “uno”.
Tattva = “principio, realtà, verità”.
Abhyāsa = “ripetizione, studio costante, addestramento militare”.
32.
La condizione di instabilità
della mente e i sintomi che l’accompagnano, si possono prevenire (e rimuovere)
con l’esercizio assiduo della concentrazione su un unico principio.
मैत्री करुणा मुदितोपेक्षाणांसुखदुःख पुण्यापुण्यविषयाणां भावनातः चित्तप्रसादनम् ॥३३॥
maitrī karuṇā mudito-pekṣāṇāṁ-sukha-duḥkha puṇya-apuṇya viṣayāṇāṁ bhāvanātaḥ citta-prasādanam ॥33॥
maitrī karuṇā mudito-pekṣāṇāṁ-sukha-duḥkha puṇya-apuṇya viṣayāṇāṁ bhāvanātaḥ citta-prasādanam ॥33॥
Karuṇā
= “compassione”.
Mudita = “gioia”.
Upekṣā
= “indifferenza”.
Sukha = “piacere, piacevole, confortevole”.
Dukha = “pena, dolore”.
Punya = “successo”.
Apunia = “fallimento”.
Cittaprasādana = “purificare la mente, calmare la mente,
rallegrare la mente”.
33.
La purificazione della mente si realizza
coltivando la cordialità, la compassione, la gioia e l’indifferenza nei
confronti delle esperienze che provocano piacere o dolore, successo o
fallimento.
प्रच्छर्दनविधारणाअभ्यां वा प्राणस्य ॥३४॥
pracchardana-vidhāraṇa-ābhyāṁ vā prāṇasya ॥34॥
pracchardana-vidhāraṇa-ābhyāṁ vā prāṇasya ॥34॥
Pracchardana
= “emissione violenta,
esalazione, vomito”.
Vidhāraṇa
= “dividere, separare, stoppare,
bloccare”.
Vā = “oppure”.
Prāṇa = “respiro, energia vitale, spirito vitale”.
Prāṇasya = “del prāṇa”.
34.
Oppure praticando l’emissione violenta e la ritenzione del prāṇa.
विषयवती वा प्रवृत्तिरुत्पन्ना मनसः स्थिति निबन्धिनी ॥३५॥
viṣayavatī vā pravṛtti-rutpannā manasaḥ sthiti nibandhinī ॥35॥
viṣayavatī vā pravṛtti-rutpannā manasaḥ sthiti nibandhinī ॥35॥
Viṣayavatī = “ciò che ha un oggetto”.
Vā = “oppure”.
Manasaḥ = “del manas, della mente
sensoriale”.
Sthiti = “stare, rimanere, essere stabili”.
Niandhin = “vincolante, incatenante, che confina”,
Sthitinibandhinī = “legame di fermezza, legame di stabilità”.
35.
Oppure mediante la stabilizzazione della mente sensoriale che si ottiene
dalla contemplazione di oggetti di percezione che insorgono spontaneamente
(percezioni non ordinarie).
विशोका वा ज्योतिष्मती ॥३६॥
viśokā vā jyotiṣmatī ॥36॥
viśokā vā jyotiṣmatī ॥36॥
Vā = “oppure”.
Jyotiṣmatī = “luce delle stelle, notte stellata, effulgenza”.
36. Oppure contemplando la notte stellata (effulgenza) di viśokā, il potere (siddhi) di vivere senza dolore[23].
वीतराग विषयम् वा चित्तम् ॥३७॥
vītarāga viṣayam vā cittam ॥37॥
Vā = “oppure”.
37.
Oppure contemplando nel proprio cuore la “città del godimento dei sensi”
nella condizione del vītarāga, colui
che è libero dalle passioni.
स्वप्ननिद्रा ज्ञानाअलम्बनम् वा ॥३८॥
svapna-nidrā jñāna-ālambanam vā ॥38॥
svapna-nidrā jñāna-ālambanam vā ॥38॥
Jñāna = “Conoscenza, conoscere, conoscenza spirituale, conoscenza perfetta,
speculazione filosofica”.
Vā = “oppure”.
यथाअभिमतध्यानाद्वा ॥३९॥
yathā-abhimata-dhyānād-vā ॥39॥
yathā-abhimata-dhyānād-vā ॥39॥
Abhimata = “Desiderato, voluto, apprezzato, caro, amato,
preferito (sia persona che cosa)”.
Dhyānād = “meditazione” [32].
Vā = “oppure”.
39. Oppure
come risultato della meditazione sull’amato, ovvero una persona o un oggetto
che si ama e si desidera.
[2]
Jyotiṣmatī solitamente tradotto con “effulgenza” o “luce interiore” significa
letteralmente “luce delle stelle” o “notte stellata”, ma il sutra 36 si presta
a varie interpretazioni essendo jyotiṣmatī sia il nome di un particolare tipo
di mattone usato per costruire gli altari per il sacrificio vedico del fuoco o
yajña, sia il titolo della prima upaniṣad dedicata all’astrologia e alla
magia, un testo oggi perduto chiamato anche Skanda Hora, e risalente alla
civiltà dell’Indo. Essendo la parola jyotiṣmatī qui collegata alla parola
viśokā, che indica uno dei poteri psichici (siddhi) della tradizione tantrica,
si può supporre che il versetto 36 faccia riferimento ad uno specifico rituale
o ad una tecnica collegata all’astrologia o ad una particolare percezione
extrasensoriale.
[6]
Monier–Williams.
[9] Nel Viṣṇu Purāṇa vyādhi è il “figlio della
morte” (mṛtyu), personificazione della malattia.
[10] Styāna di solito correttamente tradotto con
“apatia”, significa letteralmente “denso”, “rigido”, “grossolano”, “rozzo”.
[11] Pramāda significa letteralmente
“intossicazione” (da droghe o da alcool), “follia”, “malattia”, ma in genere i
commentatori lo interpretano secondo gli insegnamenti buddisti per i quali
pramāda significa non sforzarsi di adottare un atteggiamento salutare ed essere
restii ad abbandonare azioni non salutari.
[12] Avirati viene spesso tradotto con
“incontinenza” riferita specificamente alla sfera sessualità, ma il suo
significato letterale è “intemperanza” intesa come mancanza di controllo,
misura e regole.
[13] Vedi Bhāgavata Purāṇa 8.3.20.
[14] Vedi Bhāgavata Purāṇa 10.58.42.
[15] Vedi Bhāgavata Purāṇa 11.23.38-39.
[16] Ho tradotto con “cordialità”, ma i
significati di maitrī sono molteplici. Può significare “amicizia”,
“benevolenza”, “convivialità” ecc. Insieme a karuṇā mudita e upekṣā forma i
quattro Brahmavihāras, le quattro divine attitudini coltivando le quali il
praticante si assicura la rinascita nel regno di Brahma.
[17] Viṣayā nella filosofia indiana viene inteso
solitamente come “oggetto di godimento” o “oggetto di conoscenza”. Vedi le
interpretazioni di Gauḍapāda, Māṭhara e Vācaspati a Sāṃkhyakārikā 11.
[18] Vedi Bhāgavata Purāṇa 10.38.15 (“athāvarūḍhaḥ
sapadīśayo rathāt pradhāna-puṁsoś caraṇaṁ sva-labdhaye dhiyā dhṛtaṁ yogibhir
apy ahaṁ dhruvaṁ namasya ābhyāṁ ca sakhīn vanaukasaḥ”)
[19] Vedi Horace H. Wilson.
[21] In filosofia manas è l'organo interno (antaḥ
karaṇa) della percezione e della cognizione, ovvero lo strumento attraverso il
quale i pensieri entrano o da cui gli oggetti di senso influenzano l'anima. In
questo senso manas è sempre considerato distinto da ātman-e puruṣa -,
"spirito o anima", considerati “permanenti” e appartenente solo al
corpo, e quindi “impermanente”. Spesso è associato a cuore (hṛdaya) e occhio
(cakṣus) nell’accezione di “sentire” e “percepire”.
[22] Nello Yoga si parla di un certo numero di
poteri paranormali o siddhi, che insorgono durante la pratica del samadhi.
Secondo alcuni (cfr. Monier –Williams) le siddhi sarebbero capacità naturali
dell’uomo perdute o dimenticate. Di solito si parla di otto siddhi maggiori
ovvero diventare piccoli come un atomo (aṇimā), enormi (mahima), infinitamente
pesanti (garima), infinitamente leggeri (laghima o potere della levitazione),
essere capaci di andare ovunque si voglia (prāpti), di realizzare tutti i
desideri (prākāmya), di avere la supremazia sulla natura (iṣṭva), di
controllare a piacimento gli eventi atmosferici (vaśtva).A queste otto siddhi
maggiori si aggiungono un numero variabili di siddhi minori tra le quali,
appunto viśokā inteso come potere di allontanare il dolore (cfr. Viṣṇu Purāṇa).
[23] Jyotiṣmatī solitamente tradotto con
“effulgenza” o “luce interiore” significa letteralmente “luce delle stelle” o
“notte stellata”, ma il sutra 36 si presta a varie interpretazioni essendo jyotiṣmatī
sia il nome di un particolare tipo di mattone usato per costruire gli altari
per il sacrificio vedico del fuoco o yajña, sia il titolo della prima upaniṣad
dedicata all’astrologia e alla magia, un testo oggi perduto chiamato anche
Skanda Hora, e risalente alla civiltà dell’Indo. Essendo la parola jyotiṣmatī
qui collegata alla parola viśokā, che indica uno dei poteri psichici (siddhi)
della tradizione tantrica, si può supporre che il versetto 36 faccia
riferimento ad uno specifico rituale o ad una tecnica collegata all’astrologia
o ad una particolare percezione extrasensoriale.
[24] Vītarāga nel buddhismo tantrico è il potere
del distacco dalle passioni che contraddistingue il sesto dei dieci livelli
spirituali progressivi della via del Buddha, i Sādhāraṇabhūmi. In pratica è una
delle qualità del Bodhisattva. I dieci Sādhāraṇabhūmi sono:
1) Śuklavidarśanā (tibetano dkar po rnam par mthoṅ
naḥi sa, tsing kouan) ovvero il livello della chiara visione.
2) Gotra (rigs kyi
sa, sing or tchong sing), ovvero livello del lignaggio
spirituale.
3) Aṣṭamaka (brgyad paḥi sa, pa
jen or ti pa), o livello dell’ottavo santo (realizzazione della non
insorgenza dei Dharma personali).
4) Darśana (mthoṅ baḥi
sa, kien or kiu kien), o livello dei veggenti.
5) Tanū (bsrab paḥi sa, po), o livello
dell’affievolirsi delle passioni.
6) Vītarāga (ḥdod chags daṅ bral baḥi sa, li
yu), o livello del distacco dalle passioni.
7) Kṛtāvi (byas pa bsraṅ baḥi sa, yi tso or yi
pan), o livello di colui che ha portato a compimento il proprio “dharma-karma”.
8) Pratyekabuddha, o livello del muni o del
Buddha solitario.
9) Bodhisattva, ovvero i dieci livelli dei
Bodhisattva.
10) Buddha, o livello del realizzato non duale.
[25] Viṣayam tradotto spesso come “oggetto”,
significa propriamente “luogo” ma in letteratura indica “la Città del godimento
dei sensi” (Bhāgavata Purāṇa 4. 25. 52).
[26] Cittam, sinonimo di hṛdayam e tradotto
talvolta con “malizia”, in letteratura viene usato nel senso di “cuore”
(Bhāgavata Purāṇa 1.19. 15), “il mio cuore” (Bhāgavata Purāṇa 10. 83. 17), “la
sua consapevolezza” (Bhāgavata Purāṇa 11. 15. 12), “la nostra mente” (Bhāgavata
Purāṇa 10. 29. 34).
[28] In Śārṅgadhara-Paddhati la parola indica
“lo stato del fiore nell’atto di sbocciare”.
[29] Nel Sāhitya-Darpaṇa ālambana indica “la
naturale connessione che lega una sensazione allo stimolo che l’ha prodotta”.
Per i buddhisti indica invece i cinque attributi degli oggetti percepiti dai
cinque sensi, cioè forma, suono, odore, gusto e tatto.
[30] Ho preso
come riferimento la traduzione di swami Vivekananda (“Or by meditating on the
knowledge that comes in sleep”), ma l’interpretazione del sūtra varia a
seconda del senso che si vuol dire alla parola ālambanam, resa da Vivekananda
con “by meditating”. Ālambanam, infatti può significare “supporto, sostegno,
dimora” come in Kaṭh. Up.2.17. Oppure può indicare il legame che unisce un
sentimento all’oggetto che lo causa, o la causa di un esperienza emotiva. Ma è
anche un esercizio di visualizzazione in cui lo yogin cerca di annullare il
dialogo interiore portando l’attenzione su un’immagine del dio persona, forma
grossolana dell’Assoluto o ripetendo mentalmente una preghiera o una formula.
Per i buddisti ālambanam indica invece i cinque attributi degli oggetti dei
sensi, ovvero: rūpa (forma), rasa (sapore), gandha (odore), sparśa
(tangibilità) e śabda (suono). Se usassimo la terminologia buddhista, il sūtra
38 potrebbe essere un’indicazione a portare l’attenzione sulla percezione
sensoriale degli oggetti del sogno e delle visioni che possono insorgere nello
stato di sonno o di meditazione profonda.
[31] Yathā significa “come, a causa di” (vedi
Mahābhārata), ma viene usato anche nel senso di “quello, in modo che, così
che” (vedi Ṛg veda).
[32] Dhyānād (o
più correttamente Dhyānāt), ablativo singolare di Dhyāna, solitamente tradotto
con “meditazione” in Bhāgavata Purāṇa 4.9.10 viene usato nel senso di “dalla
meditazione su…, frutto della meditazione”. Dhyāna a sua volta tradotto con
“meditazione” può essere inteso come “assorbimento totale nei pensieri” o come
“trance derivante dalla meditazione profonda”.
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