LA DANZA DI ŚIVA - SIGNIFICATO DEL MANTRA DELLE CINQUE SILLABE E DELLA POSTURA DEL NAṬARĀJA - Formazione Yoga Citra 27-28 giugno
La parola शिव śiva in sanscrito non è il nome proprio
di una persona, ma un aggettivo che significa “benigno”, “benefico”,
“grazioso”.
Talvolta il “dio col tridente” è
chiamato anche शंभु śambhu, “il benefattore”,
o शंभु शङ्कर śambhu śaṅkara, “il
benefattore che dona la prosperità”, epiteti che testimoniano la gratitudine
nei confronti di colui che ha insegnato lo Yoga, una serie di tecniche
psicofisiche finalizzate alla salute del corpo, alla bellezza, alla longevità,
e, infine, alla “Realizzazione” ovvero al definitivo affrancamento da
quell’ansia di vivere che accompagna l’essere umano sin dalla nascita.
Un’ansia
provocata dalla paura della morte e della sofferenza, fisica e morale,
provocata dalla coscienza dell’instabilità della condizione umana, sottoposta
alle leggi dello Spazio (l’essere limitati in una forma fisica), della
Conoscenza (intesa come perdita di quell’innocenza e di quella istintività che
vengono invece riconosciute negli animali), della Passione (ovvero
l’attaccamento a ciò che è impermanente), del Tempo e del “Principio di Causalità,
per il quale ogni pensiero e azione, del passato o del presente, crea dei
frutti che influenzano ogni evento presente e futuro rendendo la vita umana una
gabbia - talvolta dorata, talvolta plumbea - in cui ognuno di noi è, al tempo
stesso, prigioniero e carceriere, continuamente in bilico tra il naturale anelito
alla libertà e quelle mirabolanti, ma illusorie architetture create dalla
mente, che prendono il nome di माया māyā (letteralmente
“frode”, “illusione”, “irrealtà”.
Śiva, quindi, è il
“benefico” che insegna lo Yoga e chiunque, con animo puro, decida di mettersi
al servizio degli altri condividendo, dello Yoga, la sua personale visione, le
proprie esperienze, le proprie realizzazioni in un certo senso è, o meglio
dovrebbe essere, Śiva.
Śivo’ham, “io sono Śiva”, dovrebbe essere, nello Yoga, il
mantra di ogni insegnante e istruttore, ad indicare non la mancanza di umiltà,
ma lo spirito di servizio con cui si dedica alla sua opera di condivisione e
divulgazione.
L'ARTE DELL'INSEGNAMENTO
Śiva, il नटराज NAṬARĀJA, insegna lo Yoga attraverso una
serie di strumenti diversi, adeguati alle diverse caratteristiche
(qualificazioni) dei discenti, che, a loro volta, possono appartenere a tre
diverse categorie:
Allievi, Aspiranti e Discepoli.
Gli Allievi sono tutti
coloro che con motivazioni diverse (migliorare la salute fisica, cercare la
calma della mente, seguire una moda del momento) cercano un istruttore (che può
essere sia una persona fisica che un libro) per avvicinarsi allo Yoga.
L’istruttore, o l’autore del libro,
proporranno una serie di esercizi e tecniche uguali per tutti, in modo da
stabilire un linguaggio comune che abbia lo scopo di introdurre i discenti nel
mondo dello Yoga.
Gli Aspiranti sono coloro
che spinti dall’anelito alla liberazione, decidono di intraprendere un साधन sādhana (letteralmente “preparazione,
addestramento”) sotto la guida di un आचार्य ācārya “letteralmente “maestro,
precettore”).
Il sādhana è un percorso progressivo che passa attraverso una serie
di eventi trasformativi detti Samādhi[1] o Samāpatti[2].
Il sādhana solitamente è individuale.
Ci sono dei “fondamentali”, ovvero
le posizioni, i mantra, la conoscenza dei testi e delle tecniche meditative, ma
l’ācārya, che solitamente sceglie
l’Aspirante in base ad una serie di segni o coincidenze significative (e a sua
volta viene scelto in maniera analoga dall’Aspirante) terrà conto delle
caratteristiche individuali, o qualificazioni, e sceglierà le pratiche adatte,
secondo lui, a far emergere i naturali talenti del discente e a risolvere i
contenuti psichici (Saṁskāra[3]) che
impediscono l’insorgere di quei talenti.
I Discepoli
infine sono coloro che riconoscono nel docente il “principio divino”, la
manifestazione di un potere ed un sapere non ordinario, e dal docente vengono
addestrati per assumere un ruolo ben definito in uno dei lignaggi (परंपर
paraṃpara) dalla “Tradizione” - सनातन धर्म Sanātana dharma, letteralmente “Ordine Eterno”)
o, in rari casi, un ruolo riconosciuto da tutti i lignaggi tradizionali. In
questo caso il docente (chiamato spesso गुरु guru, letteralmente “grande, grosso,
pesante” - considerato emanazione diretta della divinità o della “Tradizione”
può non avere una forma fisica definita: può essere una persona comune, che
assume il ruolo, l’aspetto e il sapere del guru solo in presenza di Discepoli
qualificati, oppure un animale, un evento naturale o un oggetto. In questi casi
viene definito उपगुरु upaguru, letteralmente
“assistente guru” o “facente le veci
del guru”.
Il concetto di upaguru, per cui uno zoccolo, il volo di un aquila o un bastone di
bambù, possono donare l’illuminazione, è decisamente in contraddizione con
l’idea che noi abbiamo in occidente del maestro con la barba bianca e il
sorriso buddhico, onnisciente e immensamente buono. In realtà nel Sanātana dharma non c’è nessuna regola
prestabilita per l’incontro con il guru, perché il vero maestro, सद्गुरु
sadguru, è il maestro
interiore e le modalità del suo manifestarsi dipendono esclusivamente dal
discepolo.
Le tecniche
di insegnamento dello Yoga si possono, grosso modo, dividere in tre
diverse, grandi, categorie, relate alle diverse caratteristiche dei discenti,
che possono essere principalmente:
1) Visivi, ovvero portati
all’apprendimento mediante le cose viste o visualizzate. Si tratta di coloro
che per natura fanno prevalere le impressioni visive.
2) Uditivi, ovvero portati
all’apprendimento mediante le parole e i suoni. Si tratta di coloro che per
natura fanno prevalere le impressioni auditive.
3) Propriocettivi, ovvero portati
all’apprendimento mediante l’ascolto. Si tratta di coloro che, per natura,
fanno prevalere le impressioni tattili.
Spesso le caratteristiche dei discenti
sono una combinazione delle varie categorie e in certi casi nello stesso
individuo compaiono tutte e tre le modalità di apprendimento. Gli strumenti di
insegnamento dello Yoga, che possono essere riferiti alle varie categorie, sono:
1)
La
via dei simboli, attraverso rappresentazioni grafiche, pittoriche o scultoree.
2)
La
via dei suoni, attraverso la musica, la recitazione di mantra o brani tratti
dai testi tradizionali o il dialogo che presenta diverse analogie con la
Maieutica di Socrate.
3)
La
via del corpo con l’apprendimento, attraverso il processo di mimesi, di
posizioni, sequenze, gesti.
L’insieme delle tecniche didattiche è
esposto, principalmente in una serie di testi chiamati आगम
āgama. Āgama, che
talvolta viene tradotto con “testimonianza” o con “parola degna di fede” in
sanscrito significa " sia “teoria” che “strada d’accesso” e indica un
gruppo di testi conosciuti solitamente come Tantra. Si tratta di testi
principalmente शैव śaiva ma esistono anche āgama riferiti
ad altre divinità Hindu, āgama buddhisti e āgama jainisti. Ogni āgama è diviso
in quattro parti:
1)
Jñāna Pāda (o Vidya Pāda).
Ovvero le dottrine e la conoscenza filosofica e spirituale, ciò che
potremmo definire la teoria dello Yoga.
2)
Yoga Pāda.
Ovvero gli esercizi fisici (posizioni, sequenze, pratiche respiratorie...)
e mentali (meditazione, visualizzazione, concentrazione), ciò che potremmo
definire la pratica dello Yoga.
3)
Kriyā Pāda. Ovvero le regole per i rituali,
tecniche di costruzione e consacrazione di templi, statue e icone, rituali di
iniziazioni dei discepoli.
4) Caryā Pāda.
Ovvero le tecniche di insegnamento, cioè la didattica.
ॐ नमः शिवाय - oṃ namaḥ
śivāya
A prescindere dagli strumenti
didattici scelti, il docente dovrà tener conto dei diversi livelli di
interpretazione tradizionali, e, quindi, dovrà esserne a conoscenza ed averne
compreso l’essenza.
Ogni simbolo, mantra o sequenza
tradizionale si rivolge a quattro diversi piani coscienziali definiti nella
filosofia e nella teologia occidentale Letterale,
Allegorico, Morale e Anagogico.
Il piano letterale è quello della
comprensione, per esempio, delle singole parole i un mantra e di una scrittura,
del riconoscimento dei simboli e della giusta maniera di assumere una
posizione.
Si tratta di quella che potremmo
definire conoscenza eruditiva.
Nel caso dello śiva pañcākṣara
(il mantra delle cinque sillabe, OṂ NAMAḤ ŚIVĀYA) la comprensione letterale
consisterà, ad esempio, nella conoscenza della giusta pronuncia (OMNG NAMÀHA SCIVÀ YA) e nella traduzione, appunto, letterale, che in questo caso potrebbe
essere “Io saluto/invoco il Benefico (Śiva)”.
Andando avanti, sul piano
“Letterale” posso raccontare ai discenti che il mantra compare per la prima
volta nello Yajurveda
(TS 4.5.8.1), in un inno dedicato a रुद्र rudra, il
“Terribile”, nella forma:
नमः शिवाय च शिवतराय च
namaḥ śivāya
ca śivatarāya ca
Il piano
Letterale è il piano della riflessione intellettuale, della logica razionale e
della conoscenza eruditiva.
Il piano Allegorico è quello
dell’intuizione, il docente dovrà dare la chiave per interpretare il mantra
secondo la “simbolica” hindu, introducendo i discenti nella dimensione,
paragonato al sogno o alla fiaba, in cui niente è come sembra e ogni lettera,
gesto o posizione ha un significato nascosto, legato per lo più alle leggi
naturali.
Così verrà spiegato al discente
che:
1.
NA è il suono della Terra.
2.
MA è il suono dell’Acqua.
3.
ŚI il suono del Fuoco.
4.
VĀ il suono dell’Aria.
5.
YA il suono dello Spazio.
Ogni suono verrà collegato ad uno
dei cinque sensi, una delle cinque azioni fondamentali, uno dei cinque elementi
sottili ecc.:
1.
NA è legato all’Olfatto, al Naso, alla Defecazione, all’Ano e all’Odore
2. MA è legato al Gusto, alla Lingua, alla Generazione, agli Organi Sessuali e
al Sapore.
3.
ŚI è legato alla Vista, all’Occhio, al Movimento, al Piede e alla Luce.
4.
VĀ è legato al Tatto, alla Pelle, all’Afferrare, alla Mano, alla
Tangibilità.
5.
YA è legato all’Udito, all’Orecchio, all’Esprimere, alla Gola, al Suono.
Il piano Allegorico
è il piano della rivelazione, in cui il discente deve prendere coscienza della
valenza operativa, cioè trasformativa, dei simboli e delle tecniche.
Il piano Morale è quello della
comprensione reale delle leggi fondamentali della manifestazione.
Qui il docente metterà in
relazione i nomi, i simboli e le tecniche con i principi religiosi e
filosofici, innescando la meditazione e mettendo in contatto il discente con le
parti più profonde del suo inconscio.
Su questo piano l’apparente
differenza tra tecniche, concetti e credenze scomparirà lasciando il posto ad
una comprensione unitaria.
Il Docente rivelerà al discente,
ad esempio, che le cinque sillabe sono la rappresentazione grossolana dei
cinque poteri della manifestazione e che coincidono con i gesti delle statue e
delle posture yoga.
1.
NA rappresenta il potere dell'assorbimento o distruzione, manifestato,
nelle statue nella mano posteriore sinistra che regge il fuoco
2.
MA rappresenta il potere del velamento manifestato nel passo del piede
destro che schiaccia la testa del "nano dell'ignoranza)
3.
ŚI è il potere della creazione manifestato nella mano posteriore destra che
regge e suona il tamburello.
4.
VĀ è la grazia dello svelamento manifestata nel movimento del piede
sinistro, sospeso a metà tra cielo e terra.
5.
YA è il potere della protezione/mantenimento indicato dalla mano anteriore
destra nell'atto di assumere la mudrā chiamato अभय मुद्रा abhaya mudrā, la mudrā
che allontana la paura.
Nelle posture invece:
1.
NA rappresenta i piedi dello yogin.
2.
MA rappresenta il suo ombelico.
3.
ŚI rappresenta le spalle.
4.
VĀ rappresenta la bocca.
5.
YA rappresenta la “Fontanella posteriore”, il “Sincipite”.
Meditando sui cinque poteri della manifestazione
(creazione, distruzione, mantenimento, velamento, grazia) e sulle loro
corrispondenze nella realtà grossolana può accadere che i pensieri comincino a
girare da soli fino a farmi perdere il concetto dell'individualità e il
desiderio del voler conoscere/comprendere. La mente del discente a questo punto
si può identificare completamente nel mantra ॐ नमः शिवाय -
OṂ NAMAḤ ŚIVĀYA - che “rimane” come seme della
meditazione.
Il piano Morale
è il piano della Meditazione, ovvero del “momentaneo” annichilimento
dell’individualità dovuto alla realizzazione, magari per un istante, della
sostanziale identità tra macrocosmo e microcosmo.
Infine vi è il piano Anagogico
nel quale il docente non ha nessuna possibilità di intervento diretto, e la
parola, il simbolo o la posizione non hanno alcuna rilevanza.
Il piano
Anagogico è il piano della Contemplazione, nel quale il praticante, realizzata
l’identità sostanziale tra microcosmo e macrocosmo, si svela a sé come
Testimone nell’atto di contemplare se stesso.
[1] Samādhi, talvolta usato come sinonimo di dhyāna
o jhāna nel buddhismo è l’esperienza che apre le porte a prajñā, la condizione di conoscenza intuitiva che permette, a sua
volta, di accedere alla bodhi, o
Risveglio spirituale. Il Canone Pāli descrive otto stati progressivi di jhāna: quattro meditazioni con forma (rūpa) e quattro meditazioni senza forma
(arūpa jhāna). Una nona forma è Nirodha-Samapatti. Come vedremo sia i
termini che gli insegnamenti ad essi relativi, sono simili o identici a quelli
che incontriamo in questo testo.Secondo molti commentatori, i quattro rupa jhana sono un contributo originale
del Buddha, ovvero non appartenente alla tradizione vedica. Gli arupa jhana invece erano incorporati
nelle tradizioni ascetiche non buddiste.
[2] Samāpatti, termine usato in atharva-veda-prātiśākhya con il significato di “assumere la forma
originale”, è considerato solitamente un sinonimo di samadhi. Nel buddhismo si opera invece una distinzione tra i due
termini con samadhi che viene inteso
come “meditazione che conduce all’identità della mente con un oggetto” e samāpatti che indica invece “la
realizzazione, l’estasi”.
[3] Saṁskāra letteralmente significa “mettere insieme
correttamente, formare nel modo corretto, rendere perfetto”, ma si usa anche nel senso di “realizzazione,
abbellimento, ornamento, purificazione, pulizia, preparazione del cibo,
estrazione e raffinazione dei metalli, lucidatura di gemme preziose,
allevamento di animali” (vedi Mahābhārata), ma per estensione semantica va ad
indicare anche “i sacramenti, le iniziazioni e le cerimonie di purificazione”
(vedi manu-smṛti e Mahābhārata). Nella filosofia indiana saṁskāra indica “la facoltà della memoria, il ricordo, l'impressione mentale di
atti compiuti nel passato in un precedente stato di esistenza”. Nel buddismo i
saṁskāra sono le impressioni lasciate del karma passato che causano i fenomeni
presenti. Sono in pratica i “semi dell’esistenza individuale” in quanto
formerebbero formano la cosiddetta “coscienza deposito (ālayavijñāna) in cui si accumulano le tracce
delle azioni passate. Ciò che facciamo nel presente non sarebbe altro che un
riportare alla coscienza, rendendoli “attivi”, i saṁskāra giacenti nell’
ālayavijñāna. Nel Nyāya e nel Vaiśeṣika saṁskāra
viene definito come “disposizione latente”, e viene suddiviso in tre tipi:
inerzia, elasticità e traccia psichica (bhāvanā). “L’inerzia spiega la continuità del moto di una sostanza in una
determinata direzione, mentre l’elasticità è la tendenza di certi oggetti, come
il ramo di un albero, a riprendere autonomamente la posizione originale quando
la sollecitazione esterna viene meno. La traccia psichica è la disposizione
attitudinale degli individui, una qualità inerente al sé (ātman), che è prodotta da esperienze
singole o abitudinarie ed è anche un elemento cardine del meccanismo della memoria”.
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