Brahmā, il Demiurgo aveva creato una moglie per il
figlio Dakṣaprajāpati, Prasūti, e aveva affidato loro l’incarico di generare
delle spose per gli dei, i guardiani delle direzioni e i saggi veggenti. Fu
così che Kāma si sposò con Rati, la Passione, Agni con Svāhā, l’Offerta, e Candra,
la Luna, con le ventisette stelle sorelle.
Il
Cosmo aveva ormai assunto la forma che ci è oggi familiare, ma giaceva in se
stesso, immobile e inutile come un vascello nel deserto. Per far girare le
ruote della Vita bisognava che Śiva uscisse dalla sua Quiete perfetta,
arrendendosi alla Legge del desiderio.
Ispirata
da Brahmā, Prasūti pregò, insieme al marito, la Grande Madre dell’Universo, la
implorò di scendere nel suo ventre in forma di donna, la supplicò di donare il
cuore al Naṭarāja.
-
“E sia!” - disse la Dea – “ma ricordate: niente e nessuno dovrà mai
mancarmi di rispetto! Niente e nessuno dovrà dimenticare, anche un solo
istante, che io sono la Madre, la Signora degli Universi!” –
Negli
indefiniti universi paralleli dei Veda gli dei, al pari degli umani, nascono
muoiono e si reincarnano. Come per gli umani anche per ciascuno di loro c’è un
destino, scritto da tempo immemore, al quale non possono sottrarsi. Lo chiamano
Lila, il gioco, un gioco sempre
diverso eppure uguale a se stesso.
All’alba di ogni ciclo cosmico Brahmā tenta
di dar vita al suo perfetto mondo ideale, e, inevitabilmente, la Dea arriva a
ricordargli la legge del caos e del desiderio.
All’alba
di ogni ciclo cosmico la Madre si fa bambina e poi donna per sposare il Naṭarāja.
È per questo che il dio del tridente viene chiamato Sāṃba Sadāśiva, colui che
è da sempre in unione con la Madre. Fu per Śiva che Satī, figlia di Dakṣa e Prasūti,
discese nel mondo degli dei portandogli in dono i suoi occhi, neri come la
notte di Brahmā, il suo sorriso, luce di mille stelle, e il suo cuore, il cuore
della Yogini.
Passava il tempo a invocare l’amato, Satī.
Gli dedicava i suoi
canti, le sue danze, le mille e mille ghirlande che intrecciava invocando il
suo nome.
Un
giorno, lei era ancora una ragazzina, l’asceta divino discese dal Monte Kailāsa
e si presentò nella dimora del re Dakṣa per chiedergli la mano della figlia. Dakṣa
si adombrò.
L’idea di abbandonare la più bella delle sue figlie, incarnazione
della Grande Madre, tra le braccia di Śiva, l’impuro, non gli piaceva affatto.
Non solo “era vecchio”, ma se ne andava in giro nudo, coperto solo da un
perizoma di pelle di tigre. I capelli sporchi di cenere e arricciati lo
rendevano simile a un demone, e pure gli occhi parevano quelli di un demone. Ne
aveva solo due a quel tempo, due occhi così duri e selvaggi da far abbassar lo
sguardo persino a Indra, il re guerriero.
Ma la Dea non volle sentir ragioni -
era per Śiva che si era incarnata, per fargli vivere la gioia dell’incontro e
il dolore della perdita – e niente e nessuno le avrebbe impedito di sposarlo.
Il
giorno delle nozze le divinità arrivarono dai mondi degli indefiniti universi
paralleli con i loro carri dai colori sgargianti. Dietro di loro centinaia di
apsaras vestite di seta preziosa, adorne d’oro, zaffiri, smeraldi danzavano al
suono delle tablas, dei bansuri, delle vīṇā,
gli antichi liuti cari alla dea Sarasvatī. Mentre i Brahmāni intonavano inni di
buon auspicio, soffiavano nelle sacre conchiglie, innalzavano al cielo il canto
di gioia di cembali e campane che scintillavano al sole dell’inizio, una
meravigliosa processione di uccelli dai mille colori, insetti, elefanti, tigri
e leoni seguiva i due sposi.
Com’era
bella Satī! I suoi capelli, mossi dal soffio gentile di Vāyu, dio del vento,
parevano le onde scure dell’Oceano infinito, il bindu sulla fronte era la luce
del tramonto, i seni, gonfi di vita, erano il sole e la luna. Tutti cercavano i
suoi occhi, trionfo di dolcezza, ma i suoi sguardi erano solo per Śiva,
l’impuro.
I
miti indiani somigliano ai monsoni scuri di pioggia che seminano vita e
distruzione insieme, e alle foreste, immense dove il fiore più bello e la serpe
più letale fanno a gara a chi veste i colori più sgargianti. Non esistono il
bene e il male, e bellezza, orrore, gioia, rabbia, disperazione entrano in
scena così, senza preavviso, senza seguire altra legge o regola che non siano
quelle del Caso e del Desiderio.
Quando
il padre Brahmā, felice per le nozze, si avvicina ai due sposi divini, la
bellezza di Satī gli entra nella carne come un ferro rovente. Tenta, il
Demiurgo, di riprendere il dominio di sé, di resistere all'eccitazione, come
già aveva fatto con la danza di Uṣā, ma è troppo tardi. Folle di gelosia Śiva
afferra la spada e, senza dire una parola gli taglia di netto una delle cinque
teste.
Per
questo Brahmā ne ha solo quattro, adesso. Si dice siano i quattro libri dei
Veda, e i quattro Yuga, le diverse ere del ciclo cosmico. La quinta testa
invece, si dice fosse il Tantra, il seme dell’immortalità, che da quel giorno
appartiene solo a Śiva, e alla sua Sposa.
Nelle
favole, nelle leggende, nelle storie raccontate nelle notti d’estate, quando il
fuoco dà vita alle ombre e ai sogni bambini, si nascondono, spesso, le voci dei
maestri antichi e verità dimenticate tornano a far capolino tra le false
certezze delle scienza e della sterile erudizione.
C’è stato un tempo, forse,
in cui Scienza, Arte e Religione (Brahmā, Śiva e Viṣṇu?) solcavano assieme
l’oceano dell’esistenza. Conoscevano la danza delle stelle e il vario
dispiegarsi dei venti e delle onde. E insegnavano agli uomini le secche, i
vulcani sommersi e gli approdi sicuri.
Poi, tutt’a un tratto le loro vie si separarono e lo scrigno dell’Arte - o Alchimia, come la chiamarono da noi – fu
sepolto tra le nevi dell’Himālaya, alle pendici arse dal sole di Aruṇācala e
sulle rive del fiume Narmadā, il grande serpente azzurro che taglia l’India in
due, dall’Alba al Tramonto, prima di tuffarsi nel Golfo d’Arabia.
Il
Tantra, via del corpo e delle emozioni, venne nascosto agli occhi dei più.
Forse, chissà, pensarono fosse inadatto alla nuova civiltà, un nuovo mondo
creato dalla mente umana a sua immagine e somiglianza, con palazzi sontuosi,
mura di pietra e armi d’acciaio.
E fuochi sempre accesi per vincere la paura
della notte e dell’abisso, nome con cui, negli incubi, chiamiamo la Natura.
Dopo
che Śiva si fu placato i due sposi partirono alla volta del monte Kailāsa. Come
succede per le giovani coppie di innamorati, i primi tempi fu tutto rose e
fiori: Śiva e Satī passano il tempo a fare l'amore su giacigli di foglie e nubi
sulla cime dell'Himālaya, nei boschi o sulle rive di fiumi dall'acqua
cristallina.
Poi, improvvisa, la tragedia.
Dakṣa
chiese a Bhṛgu, il grande astrologo, di celebrare uno Yajña, il sacro rituale del fuoco,
ed invitò alla cerimonia saggi, eroi, sovrani e principesse dell’Universo
intero. Invitò i musici celesti, i Gandharva, e le Apsaras, le sacre danzatrici
della terra del Nord. Dalla città di cristallo sulla vetta del Meru discesero
Indra, dio del Fulmine e la sua consorte, Indrāṇī dalla lingua tagliente e
arrivarono anche Yama, Puṣān, Mitra, Varuṇa. Dakṣa invitò tutti i figli di Brahmā
e di Aditi, dea della Terra.
Anzi
quasi tutti. Śiva no.
- “Dorme
e fa l'amore all'aperto” – disse Dakṣa – “preferisce bere in teschi umani che in bicchieri di cristallo, si fa
dei gran Chilum di erba e Hashish e preferisce coprire il corpo, forte e
villoso, con un perizoma di pelle di tigre, invece di indossare le vesti
eleganti e preziose che gli competerebbero.... E' decisamente non presentabile”
-
Dadichi, il maestro della Madhu Vidyā (l’arte
dell’Immortalità) protestò:
–
“Oh Prajapati! non ti conviene offendere
il Naṭarāja, e Satī poi…ricordati che è tua figlia” - ma Dakṣa non volle
sentir ragioni - “Satī ha modi più
urbani, ma sarebbe imbarazzante pregarla di venire senza il marito…Meglio non
invitare nessuno dei due…tanto se ne stanno sempre nei boschi a rotolarsi per
terra... non se ne accorgeranno nemmeno..." -
Quando
le arrivò la notizia del grande Yajña Satī
non si preoccupò neppure per un istante del mancato invito. Era la figlia
preferita, incarnazione della Madre degli Universi, le formalità, tra lei, i
genitori e le sorelle, erano prive di senso. Śiva la implorò di non partire, ma
la Dea, si sa ha la testa dura, e dopo qualche giorno, scortata da Nandi, il
toro bianco, e da un gruppo di devoti, si presentò alla dimora del padre.
- “Come osi
presentarti a casa mia senza essere invitata?” - gridò Dakṣa appena la vide
- “Tu… Tu che dividi il letto con un senza Dio! Tu che hai disonorato il mio
nome unendoti al ripugnante Signore dei cimiteri!” -
Ma come? Non erano
stati Dakṣa e Prasūti a implorare la Dea di incarnarsi nel corpo di
Satī? Non erano stati loro a pregarla di sposare Śiva? Per noi, poi, abituati a
pensare l’induismo come una religione, alla stregua del cristianesimo o
dell’ebraismo, l’accusa, rivolta a Śiva, di essere “un senza Dio” suona
stonata come una campana di latta: come fa un dio ad essere ateo? Che razza di
strana eresia è mai questa?
Si è già detto: le storie indiane vanno al di là
delle nostre capacità di comprensione. Sono piene di incongruenze, colpi di
scena, e cambi di prospettiva. Bene e male, bello e brutto, sacro e profano non
sono categorie ontologiche, ma terre dai confini incerti, che mutano bandiera
ad ogni refolo di vento. La nostra mente non è attrezzata per viaggiare nell'incertezza e nell'ignoto.
In un mondo fatto di
oceani senza sponde che sgorgano, per incanto, da un infinito vuoto creativo,
logica e coerenza sono strumenti inutili. Meglio, molto meglio arrendersi alle
fiabe.
Come quando, in estate, alla luce delle stelle la risacca fa danzare le
parole, il vino scioglie il ricordo e l’anima può riaprirsi alla gioia dello
stupore. È allora che Maghi, fate, angeli e indovini si fanno sotto, coi loro
segreti dimenticati, le nostre promesse tradite, i sorrisi perduti.
Dobbiamo arrenderci, senza esitare, ché col
sole dell’alba la fiaba, rena di sogno, scorre via dalle mani. Tronchi
sbiancati e stracci da cucina allora ripiglieranno il loro posto: angeli e fate
si sa volano solo negli sguardi bambini.
-
“Che tu sia maledetto Dakṣa, figlio di Brahmā”
- Satī si avvicinò al padre, furibonda - “Il
tuo orgoglio ti ha reso cieco. Hai dunque dimenticato chi son io? Il mio sposo,
Signore del Tempo, porterà la morte e la distruzione nel tuo regno” -
Solo
adesso Dakṣa riconobbe la Dea. Si gettò in ginocchio, fronte a terra, la
implorò di perdonarlo e si mise a cantare il nome di Śiva. Ma fu inutile.
Satī
gli occhi rovesciati all'indietro, si gettò nel fuoco del sacrificio, chiuse le
ruote dei cakra e si lasciò morire.
Il racconto si fa confuso adesso.
Secondo
alcuni, alla notizia della morte della sua sposa, Śiva gridò.
Con gli occhi
sbarrati e le mani strette a pugno, gridò la sua rabbia e il suo dolore. E il
grido prese la forma di un guerriero, un gigante con le unghie e la testa di
leone, Vīrabhadra.
Per
altri i guerrieri mostruosi erano due, Vīrabhadra e Bhadrakālī, e sarebbero
nati dai capelli arricciati del Naṭarāja.
Per
altri ancora, al grido di Śiva, i fantasmi dei guerrieri antichi sorsero dalla
terra, e marciarono al suo comando verso il regno di Dakṣa.
Di certo si sa che
la rabbia di Śiva piombò sul luogo della cerimonia, seminando morte e
distruzione, come aveva predetto Satī.
I
soldati di Dakṣa e Bhṛgu furono massacrati e gli invitati vennero pestati a
sangue:
Indra, re del tuono, venne sollevato come un fuscello, gettato a terra
e calpestato. A Yama, dio della morte,
ruppero l’osso del collo.
Candra fu preso a calci e a Puṣān, dio del Sole,
Śiva fece ingoiare i denti a suon di sberle.
Dakṣa fu decapitato e la sua testa
assieme alla barba di Bhṛgu fu issata sugli stendardi dei Bhūtagaṇa, le
schiere di demoni e fantasmi al servizio di Śiva.
Si
racconta che al sorgere della luna, dalla terra ubriaca di sangue, emerse
un’antilope. Forse si era nascosta trai cadaveri per sfuggire all’orrore, o
forse, chissà, era una creatura di sogno.
L’animale balzò dinanzi a Śiva, quasi
a sfidarlo, aspettò che lui imbracciasse arco e frecce e fuggì via scomparendo
come la nebbia d’agosto, dietro al cadavere della Sposa.
Il
corpo di Satī era intatto: le fiamme, devote alla Dea, si erano inchinate alla
sua bellezza, le braci accendevano il suo sguardo e i capelli danzavano col
vento. Śiva si placò, di colpo. Cominciò a carezzare il volto dell’amata.
Le
baciava gli occhi, la chiamava per nome - “Perché
non mi parli? Sei arrabbiata con me? Che ti ho fatto anima mia? “-
È
come quella di un bimbo la mente del dio: in un batter di ciglia passa dalla
rabbia alla quiete, dalla gioia alla disperazione.
Il
tempo non esiste, e neppure la morte.
Non
c’è nessuna differenza, per un dio, tra il sonno e la morte: gli occhi si
arrendono all'oscurità nella certezza del primo sole dell’alba.
Che sia un
nuovo giorno o una nuova vita, poco importa.
Tutto è già stato scritto sul libro
della creazione:
Satī “deve” morire, per rinascere come Parvatī, la Donna
intera, la madre di Skanda e Gaṇeśa, la Signora delle creature.
Fa parte del
“Gioco”, ma qualcosa si spezza nel cuore e nella mente di Śiva.
Nell'oceano infinito della creazione, l’esistenza - di un dio, di un demone o di un uomo –
è come l’onda del libeccio che all'improvviso si alza, corre ad abbracciar la
terra e si ritrae, senza fretta. Poi si alza per rovesciarsi di nuovo. La
risacca però si lascia dietro un sacco di cose, chi è vissuto al mare lo sa
bene: mucchi di alghe, corde, ossa di pesce scolorite che sole e salmastro
incollano agli scogli. Al tramonto si fanno facce, alberi o draghi antichi.
Sembrano lì da sempre.
Guai se ci si affeziona a quei guardiani scolpiti dal mare.
Prima o poi arriva l’onda del libeccio e li strappa via. Resta solo lei,
l’onda, che sbatte sullo scoglio e si ritrae, senza fretta. Poi si alza per
rovesciarsi di nuovo.
I
baci, i sorrisi, i gemiti di Satī si sono incollati alle ossa, alla carne, alle
viscere del Naṭarāja. Śiva piange. Nessuno aveva mai visto le lacrime di un dio
prima di allora. Prima infila la testa di un caprone, sgozzato dalla sua furia
omicida, sul corpo di Dakṣa, restituendolo alla vita. Poi riaccende il fuoco
del sacrificio, a fingere che niente sia accaduto. Infine abbraccia il corpo
dell’amata, lo stringe forte, e comincia a vagare nello Spazio infinito.
Perché
la Dea torni alla vita incarnandosi in Parvatī, bisogna che la carne di Satī
torni alla terra, ma l’energia vitale di Śiva e il fuoco del suo desiderio,
impediscono al cadavere di decomporsi.
Per questo Viṣṇu, protettore dell’ordine
e del ritmo universale, lo insegue e comincia a tagliare il corpo della Sposa.
Folle di dolore il Naṭarāja nemmeno se ne accorge. Cinquantuno pezzi caddero
sulla terra - in India, in Nepal, in Tibet, in Pakistan, in Sri Lanka - ed uno
nel mondo di mezzo, al di là dell’atmosfera.
È lì che furono costruiti i
santuari della Dea, gli Śakti Pīṭha. E
Śiva si scoprì solo, nell'universo. E spaventato, come il cigno della Muṇḍāka
Upaniṣad.
Piano piano, una nuova consapevolezza si fece strada nella sua
mente.
La Dea era discesa nel corpo di Satī per donarsi al Naṭarāja e lui non
era stato in grado di proteggerla. All’inizio la cosa più importante gli era
parsa la propria sofferenza e ne aveva dato la colpa a Dakṣa, dimentico delle
promesse fatte alla Dea, a līlā l’incomprensibile
gioco della Creazione; addirittura alla sua Sposa - “Si è uccisa per orgoglio! Teneva più al rispetto degli altri che al nostro
amore!” - Poi comprese. Nel Tantra l’unità fondamentale è la coppia.
La
Donna, Vuoto creativo, è Energia Pura, fiume che scorre, ora dolce ora
impetuoso, per generare e distruggere. Lui, l’Uomo, è la Forma, gli argini che
contengono l’acqua di vita e la accompagnano curvandosi in dolci spire se la
corrente si fa troppo forte. Rifiutandosi di seguirla nella casa del padre,
Śiva aveva lasciato Satī a se stessa, esponendola alle offese di quella
famiglia, la società, alla quale non apparteneva più. Il suo cuore si fece di
pietra. Non è una metafora. Prima il suo cuore, poi le ossa, la carne, la pelle
si indurirono, e Śiva divenne una colonna di pietra e di ghiaccio, alta e
imponente come il monte Meru.
Per
centinaia, migliaia di anni, Śiva, immerso nel ricordo di Satī, dormì di un
sonno simile alla morte. Niente e nessuno sembrava poterlo destare dalla sua
meditazione perfetta. A nulla valsero le dolci parole di Viṣṇu, i canti dei
Gandharva, le danze delle Ḍākinī, le meravigliose signore degli elementi. Il Naṭarāja
era pietra e ghiaccio. Infine la Dea rinacque in forma di Parvatī, la figlia
della montagna e la luce, gentile delle stelle, iniziò a filtrare nelle pareti
di roccia. Una goccia d’argento entrò nel suo cuore, poi un’altra e un’altra
ancora e poi le gocce salirono alla gola, divennero lacrime, dolci e acide
insieme, come il frutto del gelso.
E Śiva fu colto dalla nostalgia delle
stelle.
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