“La filosofia mozzerà le ali dell’angelo”
(John Keats)
È un dio annichilito, l'uomo.
O un angelo caduto.
L'ho letto un sacco di volte, l'ho anche scritto, mi pare.
A volte si crede di sentirle le ali.
O magari si sentono davvero, proprio lì, tra la schiena e le spalle, nel triangolo misterioso delle scapole.
Sono strane ossa le scapole: sembrano slegate dallo scheletro, saranno tracce di un passato da pennuti? Chissà.
A volte nel muoverle si alzano verso l'alto e pare di sentire un frusciare, come di seta; viene voglia di voltarsi, ma ci si ripensa.
Meglio di no. Si trova un muro contro sole o un lampione che bagna di luce la strada della notte, si chiudono gli occhi e poi piano piano, con la lentezza ipocrita dei ragazzini che scartano i regali sotto l'albero, li si riapre.
Quasi sempre l'ombra ci rassicura, niente piume e penne ad impreziosire la schiena. In fondo è quello che desideriamo, ché sarebbe un bel problema andare in giro con delle grandi ali.
Difficile trovar posto sul tram.
Al cinema non ci si potrebbe sedere che in ultima fila, per evitare discussioni imbarazzanti e nel periodo della caccia, poi, logicamente, si dovrebbe restar chiusi in casa.
Succede a volte che nell'ombra ci sia qualcosa che non va: intravediamo delle ali piccole e inutili, come quelle dei dodo, estinti per malinconia. Allora ci si affretta a nasconderle, o a tagliarle se ci si riesce.
Una volta su mille, nel socchiudere gli occhi, si vedono penne gigantesche, come quelle delle aquile dei sogni, e lì cominciano i problemi. Che si fa? Si vola? Già in fondo è a quello che servono le ali. Se ci si lascia andare alla nostalgia del cielo, all'aria fresca che arrossa le gote, alla luce che non finisce mai, sarà difficile tornare indietro; le persone che amiamo, le cose che ci appartengono sono laggiù in basso e il volo è così bello che ci fa voglia di andare in alto, sempre più in alto. Fino a sparire.
Brutta parola sparire... Che fare? Una soluzione, la più logica, la migliore forse, è quella di costruirsi delle gabbie; gabbie con le ruote, come i girelli che proteggono le gambe non ancora salde dei bambini.
Ci sono tre tipi diversi di gabbie:
Il primo ha sbarre di nebbia, una nebbiolina colorata tenuta insieme dalla mente. Non è una gran gabbia. Basta che la volontà si annacqui, basta un raggio d'alba e le sbarre si fanno farfalle di sogno. Difficile non seguirle.
Il secondo tipo di gabbia ha sbarre di ferro. È grigio il ferro, e triste, quasi come il dodo. Quanto si può resistere? un mese? un
anno? Prima o poi ci daremo un gran daffare con lime e lame per
metallo, e unghie e denti, se non bastasse.
La gabbia migliore è quella del terzo tipo: una gabbia d'oro. Ha anche un tetto, la gabbia d'oro, a forma di pagoda, sul quale spiccano statue di dei, santi e maestri con occhi di smeraldo e labbra di rubino.
Andare in giro con la gabbia d'oro è bello, la gente si ferma a guardarti, ammira le tue ali, e tu, ogni tanto le fai fremere, come la carne degli amanti, un tremito sottile che manda in visibilio il pubblico.
La gabbia d'oro è bella.
Col tempo attratti dal luccichio e dalla vista di piume e penne, arrivano
uccelli a frotte: corvi, canarini, piccioni e gazze imitatrici.
Fanno allegria, però devi cominciare a curar le sbarre e il tetto.
Devi ripulirli dal guano, lucidarli, e una goccia di profumo, dai, non ci sta
mica male.
Le gabbie d'oro non hanno serrature, ma chi è che se ne
vorrebbe volar via? L'essenziale è mostrare le ali, far vedere che qualcuno ce le ha. "Allora pure io posso farcela, pure
io potrei volare", si dicono l'un l'altro gli spettatori. Pian
pianino la gabbia diventa la cosa più importante.
Nessuno alla fine si chiede se il pennuto che la porta a spasso abbia solcato
gli spazi infiniti una volta, una volta almeno. Non è importante: l’importante
sono i riflessi delle sbarre d'oro, le immagini divine che sorridono dal tetto,
e i racconti di voli antichi.
Si insegna a muover le scapole, di tanto in tanto, in alto in basso, di lato. Si fanno ruotare per prepararsi a voli che alla fine non è che siano tanto desiderati.
Meglio restare nella gabbia d'oro, meglio mostrar le penne nostre o altrui.
Quello che conta è l'esperienza del
volo. Le belle letture, le teorie, la "dottrina" dovrebbero
venir dopo. Ci si riconosce nelle parole scritte da generazioni senza
nome, e ci si sente meno soli, ché il volo è sempre solitario, è bello quando
succede e sono belle anche le parole, e ci piace metterle insieme,
spostarle, accarezzarle.
Son così belle che cominciamo a farne collezione, e le mettiamo una
sull'altra. Pile e pile di parole si innalzano, tra loro
vicine. Per tenerle insieme, facciamo tetti di libri e sopra i libri mettiamo le
statue degli autori.
Alla fine ci troviamo in un bell'universo, ordinato, preciso, tutto basato sul ricordo del volo. Il dito che indica la luna non è la luna, si era usi dire un tempo. Però a volte della luna sembra che non glie ne importi niente a nessuno.
Il dito va ad indicare il
dito. E se qualcuno chiama il dito LUNA scrolliamo le grandi ali
soddisfatti.
(Ryu
no Kokyu[1], “La
Gabbia d’oro”)
[1] Ryu no kokyu, in giapponese “Respiro del Drago” o “Scuola del Respiro e della
cadenza”, è il nome spirituale che mi fu dato nel 2006. Chi me lo attribuì mi
riconosceva una serie di abilità non ordinarie di controllo e utilizzazione
delle energie sottili, ciò che viene chiamato Ki in Giappone e Prana in India.
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