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Il Potere del Mantra (parte prima)

 


Attivazione dei Mantra

 

All'inizio del quarto capitolo ("pāda") dello Yoga Sūtra di Patañjali si parla delle tecniche per ottenere le cosiddette siddhi, ovvero i poteri fisici e psichici non ordinari considerati il frutto della pratica dello Hahayoga:

 

janma-oadhi-mantra-tapas-samādhi-jā siddhaya 1

Ovvero:

I poteri psichici insorgono () grazie alla nascita (janma), alle erbe, (oadhi), ai mantra, alle austerità (tapas) e al samādhi.

 

-    Per samādhi[1] si intendono i progressivi stati di trasformazione della mente, e quindi di percezione della realtà, che accompagnano la pratica dello Yoga;

-    Per "austerità" si intendono le privazioni e le sofferenze autoimposte; stare per giorni senza mangiare, ad esempio, oppure costringersi a stare in equilibrio su una gamba per ore sotto il sole cocente ecc.

-    Per “erbe” (oadhi) si intendono le sostanze psicotrope;

-    Per “nascita” si intendono i talenti innati, dovuti al caso, al DNA o, per chi crede alla reincarnazione, alle vite precedenti

-    Per mantra si intende, in genere, la ripetizione di un gruppo di sillabe recitate secondo varie modalità (a voce alta, sussurrata o mentale, cioè solo pensata).

 

L’interpretazione del versetto 4.1 dello Yoga Sūtra non lascia adito a dubbi: secondo il suo autore recitare i mantra – per parlare solo di questa pratica - porta alla realizzazione delle siddhi, abilità non ordinarie come:

-          La conoscenza del passato e del futuro (Y.S. 3;16);

-          La comprensione di tutte le lingue e delle voci degli animali (Y.S. 3;17);

-          La visione delle vite precedenti (Y.S. 3;18)

-          La telepatia (Y.S. 3;19);

-          L’invisibilità (Y.S. 3;21);

-          Il diventare improvvisamente forti come un elefante (Y.S. 3;24).

 

Considerando l’altissimo numero di praticanti di Yoga e devoti di maestri spirituali che recitano quotidianamente mantra di vario genere e la scarsa percentuale di testimonianze relative alla realizzazione delle siddhi, l’assertività di Patañjali - « I poteri psichici insorgono () grazie […] ai mantra […]» - pare decisamente fuori luogo.

I casi sono due:

1.      Patañjali racconta frottole;

2.      I praticanti contemporanei non sanno recitare i mantra (ovvero non sanno come renderli “operativi”.

 

Pur senza trascurare la possibilità che Patañjali – o chiunque abbia redatto lo Yoga Sūtra – sia un contaballe – difficile credere che la ripetizione di alcune sillabe in sanscrito, tamil o tibetano ci renda simili agli XMen - dobbiamo ammettere che l’ipotesi che la maggior parte dei praticanti odierni non sappia recitare i mantra, è piuttosto plausibile; non a caso la nostra è la generazione di Deva Premal che canta il Gāyatrī[2] mantra come fosse il jingle della pubblicità di un gelato.

Secondo la tradizione tantrica per “attivare” un mantra, ovvero per renderlo in grado , ipoteticamente, di far insorgere nel praticante delle abilità non ordinarie, occorre che siano presenti cinque fattori:

1.        Ṛṣi, ovvero l’autore del mantra che fa da tramite tra il praticante e le “energie”che si vogliono “attivare” o “controllare”;

2.        Mantra devatā, ovvero una divinità di riferimento;

3.        Bīja mantra, ovvero il seme sonoro da cui prende origine il mantra;

4.       Śakti, che va intesa come una energia con un particolare ritmo ed una particolare direzione, caratteristici della divinità del mantra;

5.       kīlaka, letteralmente pilastro, che può essere inteso come la effettiva chiave di accesso al potere del mantra, ovvero la maniera di renderlo “operativo”, ovvero efficace.

 

Il kīlakakilak – è l’insieme degli insegnamenti orali che riguardano:

-          La metrica del mantra;

-          La misura, ovvero la durata di ogni verso o sillaba;

-          La pronuncia esatta;

-          Il ritmo della recitazione;

-          I collegamenti con la fisiologia sottile, l’astrologia e la mitologia indiana.

 Senza il kīlaka il mantra non è efficace, perché, secondo gli insegnamenti tantrici, non avviene il processo definito nāḍī bandha, che sarebbe collegato all’insorgere delle siddhi

Quella dei bandha è la tecnica fondamentale dello Yoga medioevale; si tratta di una pratica che consiste nel chiudere determinati canali energetici con la contrazione di determinate muscoli sottili – l’elevatore dell’ano, ad esempi, o i muscoli-bulbo cavernosi - unita, all’esecuzione di particolari gesti (mudrā) - e posture (āsana).

Nell’arte dei mantra il nāḍī bandha – ovvero la chiusura di determinati canali con la conseguente “risalita” dell’energia definita Kuṇḍalinī - avverrebbe senza l’intervento della volontà sui muscoli sottili, ma grazie alla corretta esecuzione del mantra, caratterizzata da:

-          Giusto respiro;

-          Giusta intonazione;

-          Giusta pronuncia;

-          Giusta metrica;

-          Giuste visualizzazioni;

-          Giusto riferimenti astrologico-astrologici e, di conseguenza, giusto momento del giorno o dell’anno in cui recitare il mantra.

 Questa attivazione spontanea del processo definito nāḍī bandha - e quindi della risalita della energia definita Kuṇḍalinī - secondo la fisiologia dello yoga, sarebbe causato dalla capacità del mantra di “espellere” dal corpo il cosiddetto “soffio mediano” o samāna vāyu[3], collegato al “fuoco digestivo” o Jaṭharāgni[4].

 L’espulsione creerebbe una condizione di “vuoto” nei canali della zona dell’ombelico, richiamando verso l’alto il cosiddetto soffio discendente - apāna – che, riscaldandosi, si modificherebbe in Kandarpa yu “vento del desiderio” o “vento che infiamma anche gli dèi- provocando la risalita di Kuṇḍalinī.

- Fine Prima Parte.



[1] Samādhi (समाधि, "completamento") è una parola sanscrita che si riferisce a "intenso assorbimento di sé". Nella filosofia dello yoga, Samādhi rappresenta la condizione in cui “il soggetto di conoscenza” – lo sperimentatore – si fonde completamente con “l’oggetto di conoscenza” e trascende completamente la propria individualità. Il Samādhi nello Yoga è inteso come una trasformazione, talvolta temporanea talvolta permanente, del corpo e della mente che porta ad una modificazione della percezione della realtà, con l’alterazione dei concetti di tempo e spazio e la consapevolezza – vera o presunta - di aver realizzato una visione d’insieme del mondo e della Vita, al di là di ogni conflitto e di ogni separazione duale. Nei versetti 7.3-6  della Gheraṇḍasahitā – uno dei più antichi manuali di Hahayoga  si descrivono sei diversi tipi di Samādhi:

1.       Dhyāna, sperimentabile con la meditazione ed una particolare “mudrā” degli occhi detta śāmbhavīmudrā;

2.       Nāda, sperimentabile con pratiche che riguardano il suono ed una particolare mudrā  della lingua detta khecarīmudrā;

3.       Rasānanda, sperimentabile con pratiche legate al respiro e alla sua “sonorizzazione” (bhrāmarīmudrā);

4.       Laya, sperimentabile con la meditazione e particolari manovre che prevocano l’isolamento sensoriale (yonimudrā),

5.       Bhakti, sperimentabile grazie alla devozione e all’abbandono alla divinità;

6.       Manomūrcchā, sperimentabile grazie ad una particolare forma di sospensione del respiro.

Vedi: Ma Yoga Shakti e S.A.Videha, “Gheranda Samhita. La Scienza dello Yoga”. Edizioni Mediterranee, 1995. ISBN: 978-8827210994.

 [2] Gāyatrī(गायत्री) è il nome di una Dea considerata una delle forme di Sarasvatī, dea della Musica e dell’eloquenza.

Nella poesia indiana indica metro composto da ventiquattro sillabe disposte in tre terzine di otto sillabe ciascuna.

Con tale metro furono composti numerosi inni vedici, fra i quali il più  diffusamente recitato come mantra è indicato con lo stesso nome, gāyatrī, o anche come sāvitrī́ perché dedicato a Savit́ uno dei nomi della divinità del Sole.

 [3] Samāna vāyu è uno dei cinque upadoa di Vāta (Vento), ovvero prāa, āpana, samāna, udāna e vyāna.

[4] Jaharāgni, chiamato anche Pācakapitta, è uno dei cinque upadoa di Pitta (Fuoco/Sole), ovvero sādhakapitta, pācakapitta, rañjakapitta, ālocakapitta e bhrājakapitta.

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