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La Pratica del Samadhi nel XV secolo (Lo Yoga secondo lo Yogavārttika di Vijñānabhikṣu)


 Sto leggendo il terzo dei quattro volumi dello Yogavārttika di Vijñānabhiku nella traduzione in inglese di Trichur Subramaniam Rukmani.
Si tratta di un libro - i quattro volumi intendo - che consiglio caldamente in quanto, secondo me, spazza via alcune, interpretazioni di Patañjali, in voga già dai primi del '900, che mettendo in secondo piano la pratica degli āsana, il lavoro sui cakra (ovvero sui marma) e sulle nāḍī allontanano lo Yoga Sūtra dalla tradizione dello Haṭhayoga medioevale, cui invece, a quanto sembra di capire, appartiene a pieno titolo.

Vijñānabhikè uno yogi del XV secolo famoso - in India - per i suoi commenti al Sāṃkhya Sūtra di Kapila (nelle pubblicazioni in inglese Sankhyasutrabhashya), al Brahma Sūtra di Bādarāyaṇa  (nelle pubblicazioni in inglese Vijnanamritabhashya)e allo Yoga Sūtra di Vyāsa (nelle pubblicazioni in inglese Yogabhashyavarttika).

Yoga Sūtra di Vyāsa, ho scritto, e non è un errore, nel senso che, dalla lettura del libro e delle, scarne, note bibliografiche recuperabili su Vijñānabhiku, pare di capire che per Yoga Darśana - termine con cui si indica una delle sei scuole brahminiche "ortodosse" - in origine non si intendessero gli aforismi di Patañjali, ma l'insieme degli aforismi e dei commenti di Vyāsa,, che rappresentano, così, date le caratteristiche dei sūtra, più del 90% del testo.

Perchè dicevo che lo Yoga Sūtra (risalente al V-VI secolo d.C.) appartiene a pieno diritto alla tradizione dello  Haṭhayoga?
Perchè, a parte l'indicazione degli āsana consigliati per meditarePadmāsana, Virāsana, Bhadrāsana, Svastikasana, Dandāsana, Sopāśraya ecc. - nel terzo libro  si descrive, secondo Vyāsa e Vijñānabhiku, una serie di pratiche che sono identiche a quelle insegnate nella Gorakṣasaṃhitā, probabilmente il più antico manuale di Haṭhayoga giunto ai nostri giorni:

- Dal versetto 3.26 al 3.29 [in alcune traduzioni 3.27-3.30] si descrive, secondo Vyāsa e Vijñānabhiku, 
ad esempio, una pratica sul Sole , sulla Luna e sulla Stella Polare che vanno intesi come le tre nāḍī  principali;
- Nel versetto 3,30 [3.31] si parla di una pratica riguardante il cakra dell'ombelico i dhātu  e le dieci
 nāḍī fondamentali descritta nella Gorakṣasaṃhitā;
- In 3.31 [3.32] si parla di kaṇṭhakūpa, un marma corrispondente al cakra della gola, e nel successivo - 3.32 [3.33] - si parla si descrive una tecnica di controllo di kūrmavāyu uno degli upadoṣa secondari di vāta.

Per uno haṭhayogin i commenti di Vyāsa e Vijñānabhiku sono, in genere chiari e comprensibili, ma in alcuni casi sono assai sorprendenti.
Dal commento al commento del versetto 3.51 [3.52], ad esempio, si evince che lo yoga è la pratica del samādhi [e questo non è certo una novità] e che esistono quattro diverse categorie di praticanti di yoga in rapporto alle rispettive qualificazioni e realizzazioni [!!!]. Il livello più basso, quello del neofita, sarebbe proprio del praticante che ha esperito il samādhi  savitarka.

Perchè è sorprendente questo versetto?
Perchè siamo abituati a vedere il samādhi come un punto d'arrivo, il segno dell'avvenuta realizzazione e veniamo a scoprire che, almeno per  Vijñānabhiku, l'insegnamento dello Yoga Sūtra sembra essere indirizzato a coloro che già hanno esperito il samādhi  e che vengono definiti "principianti" o "neofiti".

Molto intrigante.
Di seguito il testo del versetto 3.51 e le note esplicative.



स्थान्युपनिमन्त्रणे सङ्गस्मयाकरणं पुनरनिष्टप्रसङ्गात् ॥५१॥

sthāny-upanimantrae saga-smayākaraa punar aniṣṭa-prasagāt 51


Si può ragionevolmente tradurre in questo modo:


3.51   Quando è invitato (upanimantrae) dagli dei (sthāni)[1], lo yogi dovrebbe evitare [sia] l’associazione [con essi] sia l’orgoglio [derivante dall’invito] (saga[2]- smaya[3]-akaraam[4]), poiché c’è la possibilità (prasagāt)[5]  di tornare al male (punar-aniṣṭa)[6] [dove “male” fa riferimento alla “catena delle rinascite”][7].


Nel commento di Vyāsa si descrivono quattro categorie di yogi:

1. Prathamakalpika (प्रथमकल्पिक), che nel contesto dello yoga significa “principiante”, e, secondo lo Yogavārttika di Vijñānabhikṣu indica colui che ha sperimentato il samādhi “con seme” (savitarka, savicāra, sānanda, sasmitā);

2. Madhubhūmika (मधुभूमिक) “Colui che è al livello di conoscenza del miele”, che indica lo yogi che ha realizzato alcune siddhi dette, appunto”, madhupratīkā; secondo lo Yogavārttika di Vijñānabhikṣu si tratta della condizionedi conoscenza intuitiva descritta in 1.48 («ṛtaṁbharā tatra prajñā») e legata all’esperienza del nirvitarka samādhi

3. Prājñājyotiḥ (प्राज्ञाज्योतिः), che potremmo tradurre con “colui che sperimenta] la luce della saggezza” ed è, secondo lo Yogavārttika di Vijñānabhikṣu, uno yogi che ha ottenuto il controllo sugli elementi(3.44) e sui sensi (3.47); secondo lo Yogavārttika di Vijñānabhikṣu si tratta della realizzazione detta viśokā già citata in 1.36, nella nostra nota al versetto 3.25 e nel commento di Vyāsa al versetto 3.49, e di tutto ciò che viene ottenuto prima del raggiungimento della condizione detta asamprajñāta o saṃskāraśeṣatā (ovvero lo stato in cui restano solo le impressioni mentali latenti) proprio del quarto tipo di yogi.

4. Atikrānta bhāvanīya (अतिक्रान्त भावनीय) con atikrānta (अतिक्रांत) che significa “attraversare”, “andare oltre [il tempo e lo spazio]” e bhāvanīya (भावनीय) che si può tradurre con “essere manifestato”, “essere compiuto”. Ed è lo yogi che ha superato i sette stadi descritti in 2.27:

तस्य सप्तधा प्रान्तभूमिः प्रज्ञा ॥२७॥

tasya saptadhā prānta-bhūmiḥ prajñā

Secondo i commenti di Vijñānabhikṣu  lo yogi che viene “tentato dai semi-dei” (sthāni-upanimantraṇa) è quello appartenente alla seconda categoria, giacché il primo, il neofita, non padroneggia ancora “la conoscenza” mentre il terzo – colui che ha conquistato i sensi e gli elementi – ha già realizzato ciò che potrebbero donargli gli dei; il quarto, infine è al di là di ogni desiderio.



[1] Sthānin (स्थानिन्) significa “forma originale”, “elemento primitivo” etc.; in questo caso, secondo il commento di Vyāsa nella traduzione di Ganaganath Jha, indicagli dei.

[2] Saga (सङ्ग) può essere tradotto come “incontro tra due o più fiumi”, ma indica anche ogni tipo di associazione, “confraternita”, “unione”.

[3] Smaya (स्मय) significa sia “orgoglio”, “arroganza” sia “sorpresa”, “stupore”.

[4] Akaraam (अकरणम्) significa “non fare”, “assenza di azione”, “non artificiale”, “privo di organi” (riferiti all’Essere Supremo). In questo caso ho tradotto con “rifiutare [l’invito degli dèi e l’orgoglio che ne deriva]” prendendo come riferimento le traduzioni della maggior parte dei commentatori; come Swami Saccidananda, Taimni e Vivekananda:

Traduzione di Swami Satchidananda:

3.51 (3.52). The Yogi should neither accept nor smile with pride at the admiration of even the celestial beings, as there is the possibility of his getting caught again in the undesirable.

 

Traduzione di I. K. Taimni:

3.51 (3.52). (there should be) avoidance of pleasure of pride on being invited by the superphysical entities in charge of various planes because there is the possibility of revival of evil.

Traduzione di Swami Vivekananda:

3.51. (3.52). The Yogi should not feel allured or flattered by the overtures of celestial beings for fear of evil again.

 

[5] Prasaga (प्रसङ्ग) significa “possibilità di essere applicato”, “occasione”, “opportunità”, “incidente”.

[6] Punar (पुनर्) significa “di nuovo”, “ancora una volta”; “tornare indietro”, “restaurare”e aniṣṭa (अनिष्ट) significa “indesiderato”, “indesiderabile”, “cattivo”, “sfortunato”, “inquietante”.


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