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Vyāsa e l'Incomprensibilità di Patañjali

 




Dal 2006 al 2012, sotto la guida di Bodhananda Premadharma, ho studiato almeno 5 traduzioni dello Yoga Sūtra di Patañjali[1]; in questi giorni, su richiesta degli allievi del programma di Formazione Continua CSEN, ho ripreso in mano i versetti del “padre dello Yoga” – come lo definiva Vivekananda -, confrontandomi anche con altre traduzioni, come quelle di Squarcini e di Iyengar, e valutandole in base alle mie esperienze, alle mie, scarse, conoscenze del sanscrito e della filosofia indiana e, soprattutto, al commento attribuito a Vyāsa e pubblicato nel 1882/1909 da Rama Prasad e nel 1907 da Ganganatha Jha.

Come credo sappiano tutti gli insegnanti e gli appassionati di Yoga, fino alla prima metà del XX secolo i versetti di Patañjali e il commento di Vyāsa venivano considerati un’opera unica chiamata semplicemente Yoga-Darśana (“visione dello Yoga” o “insegnamento dello Yoga”) e, dato che Vyāsa potrebbe è un nome proprio, ma un “ruolo” – “colui che arrangia i testi”, “colui che compila i testi” – la possibilità che versetti e commento fossero opera dello stesso autore è tutt’altro che da scartare.

Sia che il Vyāsa dei commenti e Patañjali siano la stessa persona, sia che si tratti del saggio Vyāsa compilatore dei Veda e dei Puran̤a e ideatore della filosofia Vedānta, sarebbe logico che i traduttori moderni tenessero conto delle sue spiegazioni, e invece, con sorpresa, ho verificato che sono pochi coloro che tengono in considerazione il commento originale e ancora meno sono coloro che lo citano.

I moderni traduttori sembrano preferire l’interpretazione personale - talvolta interessantissima, bisogna dire - a quella di Vyāsa, che potrebbe anche  essere, addirittura, opera dell’autore stesso dei Sūtra.

Se si trattasse di un romanzo storico o di una poesia d’amore, non ci sarebbero problemi, in quanto l’erudizione e l’intuizione condurrebbero, probabilmente i traduttori a compilare versioni in genere rispettose delle volontà dell’autore; ma nel caso dello Yoga Sūtra potrebbe crearsi dei problemi a causa di due fattori diversi:

1.      La natura del sūtra, inteso come forma letteraria;

2.      La natura del testo, che è di fatto un manuale tecnico dedicato a praticanti, si suppone esperti, di Yoga;

Per ciò che riguarda la natura del sūtra è bene ricordare che si tratti di un genere letterario caratterizzato dall’uso di versi assai brevi, chiamati anch’essi sūtra, “cordicelle” - spesso formati da due o tre parole al massimo; l’estrema concisione e – altra caratteristica del sūtra – l’abitudine a dare significato soggettivi a determinate parole o singole sillabe rende necessaria una lunga serie di commenti e spiegazioni, per favorirne la comprensione.

In origine la funzione del sūtra era, molto probabilmente, mnemonica, nel senso che l’allievo imparava brevi versi – come noi impariamo a memoria le formule matematiche – cui si collegava, mentalmente, la spiegazione del maestro o del “compilatore”; è un procedimento simile a quello usato nel teatro occidentale per interpretare una parte: si memorizzano le battute del personaggio che si vuole interpretare sapendo che ad ogni frase o addirittura ogni parola, corrispondono una serie di movimenti, espressioni e interazioni con gli altri attori, movimenti espressioni e interazioni che non sono necessariamente collegati al significato letterale delle battute.

Per ciò che riguarda, invece, la natura del testo è ovvio che si tratta di un manuale pratico ad uso di esperti praticanti di yoga, con una conoscenza non elementare delle pratiche fisiche, della meditazione e della filosofia indiana; in special modo, a giudicare dai termini usati, sembra che l’autore faccia riferimento al buddhismo e alla scuola sakhyā, e la cosa è assai rilevante, giacché alcune parole e concetti che si usano comunemente nell’ambito dello yoga – come dharma, karma, jīva ecc. - assumono significati diversi o addirittura contrastanti, a seconda della scuola di riferimento.

Per avere un’idea di come sono scritti i sūtra di Patañjali prendiamo adesso due versetti, uno più o meno comprensibile ed uno assai oscuro  il 2.7 e il 3.13:

Il versetto 7 del secondo pāda recita così:

2.7. सुखानुशयी रागः ॥७॥

sukhānuśayī rāga 7

 

-          Sukha significa “piacere”, “godimento”, “felicità”;

-          Anuśayī/Anuśaya significa “pentimento”, “rimorso”;”rimpianto”, “tristezza” ecc. ma, a detta di tutti i commentatori, in questo versetto va interpretato nel senso buddhista di Anusaya (vedi: https://www.palikanon.com/english/wtb/dic_idx.html), ovvero: “attaccamento”, “tendenza di fondo”, “ossessione”;

-          Rāga significa infine “passione”, “colore” (il colore rosso in genere), rossore.

Quindi abbiamo “piacere” + “ossessione/attaccamento” + ”passione” che possiamo interpretare con un minimo di intuito, come “Rāga è l’attaccamento al piacere”. I commentatori moderni tradurranno poi Rāga con “brama di possesso” o “desiderio” o “attaccamento” a seconda della loro personale visione, ma nonostante sia conciso il versetto 2.7 sembra essere di facile interpretazione.

Vediamo adesso il sūtra 3.13:

3.13. एतेन भूतेन्द्रियेषु धर्मलक्षणावस्थापरिणामा व्याख्याताः ॥१३॥

etena bhūtendriyeu dharma-lakaāvasthā-pariāmā vyākhyātā 13

 

In questo caso la situazione è assai più complessa, sia perché il versetto è tutt’altro che conciso, sia per il significato particolare dato ad almeno quattro parole su otto.

Cominciamo dalle parole il cui significato si può facilmente rintracciare sui vocabolari:

-          Etena (eta) significa “da questo”, “da ciò”, ovvero dai versetti precedenti che parlano di tre “modificazioni della mente chiamate “nirodha pariāma, samādhi-pariāma e ekāgratā-pariāma”;

-          Bhūta ha almeno 20 significati diversi, ma in questo contesto – ovvero lo yoga – si intende di solito come elemento grossolano (Terra, Acqua ecc.) o, talvolta, come elemento sottile (odore, sapore ecc.);

-          Indriyeu (indriya), locativo plurale di indriya, significa “negli organi di senso” (naso, lingua ecc.) ma può indicare anche gli organi di azione (mano piede ecc.) o insieme, gli organi di senso e gli organi di azione;

-          vyākhyātā (vyākhyāta) significa “descritto”, “spiegato”, “è stato spiegato”.

 

Per ciò che riguarda le altre parole del versetto, ovvero dharma, lakaa, avasthā e pariāma (pariāmā) i vocabolari sono solo relativamente utili.

La parola dharma che solitamente viene intesa come “legge”, “giustizia”, “virtù”, “merito”, “moralità”, “religione” nel versetto 3.13 secondo il commento di Vyāsa, indica le “proprietà” o le “caratteristiche” di una sostanza o, meglio, di un “substrato”, chiamato dharmī.

La cosa è decisamente complicata, tanto è vero che Vyāsa usa molte metafore per tentare di spiegare il versetto, come, ad esempio, la metafora dell’argilla:

dharmī è l’argilla e dharma è il vaso o il bicchiere o la statuetta che puoi ottenere dall’argilla.

Lakaa, che vuol dire “segno”, “indicazione”, caratteristica”, nel versetto 3.13 significa genericamente “caratteristica secondaria” – ovvero subordinata a dharma -  e specificamente indica la trasformazione del dharma nel tempo:

Per riprendere l’esempio precedente l’argilla, il vaso e il vaso, eventualmente rotto, sono tre lakaa ovvero tre caratteristiche secondarie del vaso, che, a sua volta, è un dharma dell’argilla.

Il vaso è il “futuro” rispetto all’argilla (e all’idea di creare il vaso), mentre per il vaso rotto è il passato.

Per ciò che riguarda avasthā genericamente significa “stadio”, “condizione”, ma può essere interessante che si tratta di un termine tecnico sia del teatro-danza indiano sia del tantrismo Śaiva.

Nello specifico nel teatro-danza riguarda le cinque fasi dell’azione di un “eroe” teso al raggiungimento di un oggetto (la vittoria in battaglia, la donna amata ecc.)[2].

Ovvero:

  1. Prarambha (inizio);
  2. Prayeratna (sforzo);
  3. Prāptisambhava (possibilità di raggiungimento);
  4. Niyataprāpti (certezza del raggiungimento);
  5. Phalayoga o phalaprāpti (raggiungimento dell'oggetto).

Nel tantrismo Śaiva riguarda invece i “cinque stati della mente” o pañcāvastha[3], simili o identici, ai cinque cittabhūmi[4] di cui parla Vyāsa nel commento allo Yoga Sūtra:

  1. Ghūri, vorticoso; 
  2. Nidra, sonno;
  3. Kampa, tremore;
  4. Udbhava, ascesa;
  5.  Ānanda, beatitudine.

 

Nel caso del versetto 3.13 avasthā riguarda “la diversa condizione” dell’oggetto, o dharma.

Il vaso di argilla può essere ad esempio, nuovo o vecchio, integro o rovinato ecc.

 

Per quanto riguarda pariāma, secondo il dizionario Monier-Williams può assumere decine di significati diversi - ovvero “cambiamento”, “alterazione”, “trasformazione”, “sviluppo”, “evoluzione”, “maturazione, “maturità”, “appassire”, “digerire”, “declino”, “declinare”, “emissione”, “conseguenza”, “risultato” ecc. – ma nel nostro caso bisogna tener conto del significato specifico che assume nelkhya, dove indica una caratteristica primaria – dharma – di prakti, ovvero il “flusso” generato dall’alternarsi dei gua, rajas, sattva e tamas.

Questo flusso può essere di due tipi:

-           Svarūpa-pariāma (o sadśa-pariāma) che è il flusso “omogeneo” che insorge durante la fase di dissoluzione o scioglimento della manifestazione (pralaya). Nel flusso di svarūpa-pariāma tamas, sattva e rajas sono in equilibrio e ognuno di essi “si trasforma in sé stesso”.

-          Visadśa-pariāma (o virūpa pariāma) che è il flusso “eterogeneo che insorge nel momento del contatto tra prakti e purua, causando lo squilibrio dei  guna  e l’inizio della manifestazione.

 

La cosa più importante da osservare è che pariāma è un qualcosa di “insito nella natura stessa” e dato che la mente è una “determinazione della Natura pariāma è anche una delle caratteristiche fondamentali della mente, ovvero uno dei “cittadharma”.

 

Citta ha due tipi di dharma (attributi).

  • - Paridṛṣṭa, ovvero direttamente percepibili;
  • - Aparidṛṣṭa ovvero non percepibili.

I cittadharma aparidṛṣṭa sono sette:

  1. 1. Nirodha; 
  2. 2. Dharma;
  3. 3. Saskāra;
  4. 4. Pariāma;
  5. 5. Jīvana (vitalità);
  6. 6. Cetā (volontà);
  7. 7. Śakti.

Continuare con la spiegazione del versetto 3.13 sarebbe lungo e non so quanto utile.

Mi limito a far notare che nirodha è un dharma – ovvero una proprietà – connaturata alla mente; a questo punto il versetto più famoso di Patañjali, yogaś-citta-vr̥tti-nirodha,  e in realtà tutto lo Yoga Sūtra,potrebbe assumere dei significati inaspettati….

Un sorriso,

P.



[1] Ovvero le traduzioni di Raphael, Tainmi, Swami Vivekananda, Swami Satchidananda, Rama Prasad.

[2] Vedi yaśāstra, Cap. XXI.

[3] Vedi: Īśvarapratyabhijñāvimarśinī 65, 330.

[4] I cittabhūmi  sono:

1.        Kipta, “confusione”;

2.        Mūdha, “ottusità;

3.        Vikipta, “eccitazione;

4.        Ekāgra, “concentrazione”;

5.        Nirodha, “Controllo”.



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