Stamattina, appena sveglio, ho aperto a caso una raccolta di Upanishad. Un giochino che facevo spesso, tempo fa. Ho aperto il libro e poi, ad occhi chiusi, ho puntato l'indice. Stamattina ho trovato il canto d'Amore della Chandogya Upanishad (Tredicesimo Khanda). Ho tradotto io, canto d'Amore, in realtà si chiama Sāman Vāmadevya. So che le disquisizioni sui termini sanscriti e sui loro vari significati annoiano parecchio e da un po' di tempo, scrivendo di yoga, tento di parlare come mangio (esercizio di purificazione dai mirabili effetti, che consiglio vivamente...), ma in questo caso una disgressione piccola piccola, priva di pretese, forse potrebbe avere una sua qualche utilità. Sāman significa melodia, abbondanza, felicità, tranquillità. Vāmadevya, se non sbaglio, vuol dire "riferito a Vamadeva" che dovrebbe essere una delle cinque facce di Shiva, quella dolce e poetica che i rishi associavano all'Acqua e gli yogin tibetani al vento e al Nord (ci so
Formazione, Promozione e Divulgazione dello Yoga