Contestualizzare lo yoga, ovvero inserirlo nell'ambito storico e culturale in cui si è sviluppato, conduce spesso a fare scoperte sorprendenti. Durante le ricerche che hanno portato alla pubblicazione di Storia Segreta dello Yoga , ad esempio, ci siamo spesso imbattuti nello Ṣaḍaṅgayoga, o yoga delle sei membra, considerato da molti come l'autentico yoga tradizionale indiano.
Lo Ṣaḍaṅgayoga è lo yoga, dei maestri medioevali, basato essenzialmente sull'utilizzazione dell'energia sessuale, e denominato da Gorakhnath " Haṭḥayoga" . Le "sei branche" - che i vari autori definiscono con nomi diversi pur rifacendosi ai medesimi concetti e tecniche - vengono divise talvolta in quattro fasi - Sevā, o “pratica devota”, Upasādhana, o “realizzazione inferio-re”, Sādhana, inteso come “realizzazione” e Mahāsādhana, o “grande realizzazione” - ragion per cui lo Ṣaḍaṅgayoga viene definito anche Caturaṅga (vedi ad esempio lo Haṭḥayogapradīpikā di Svātmārāma).
Tra il IX e l'XI secolo per sfuggire all'invasione islamica, molti maestri indiani si rifugiarono in Nepal e in Tibet, dove diffusero l'insegnamento dello Ṣaḍaṅgayoga, traducendo i testi originari in tibetano o in un "sanscrito ibrido" difficilmente comprensibile per i traduttori contemporanei.
I tibetani lo chiamarono "sbyor ba" -"yoga sessuale" - o "Na ro pa'i chos drug" - "sei yoga di Nāropā" - dal nome del maestro tantrico indiano che introdusse nel buddhismo i rituali sessuali del Kālacakratantra e tradusse, insieme alla sua amante Nigumā e a Marpa - il maestro di Milarepa - i testi originari.
In seguito con il nome di Vajrayana, lo yoga medioevale indiano entrò a far parte dell'ortodossia del buddhismo tibetano, e i testi tantrici indiani, arrivarono integri fino al XX secolo, quando furono tradotti per la prima volta in italiano da Giuseppe Tucci e dal suo allievo Raniero Gnoli.
Si possono trovare sull'argomento almeno tredici volumi scritti da Tucci e quattordici scritti da Gnoli e dalla sua collaboratrice Giacomella Orofino. Dei veri e propri tesori che consigliamo a tutti i praticanti e gli studiosi di yoga di leggere, consultare, studiare.
Nel testo seguente cercheremo di dare una descrizione sommaria dello "yoga delle sei branche", una descrizioni che per molti sarà sicuramente sorprendente.
Un sorriso,
P.
LO YOGA DI NĀROPĀ
“Questo beato yoga,
saldo eterno, supremo nasce da Kāma.”
Lo yoga medioevale, diffuso in
Tibet da Nāropā, è lo “yoga delle
sei membra” o Ṣaḍaṅgayoga, uno yoga basato, inequivocabilmente, sul piacere
o meglio sullo sviluppo e sull’utilizzazione dell’energia sessuale.
Prima di esaminare uno per uno i
“sei passi” o “sei membra”, vediamo quali sono i principi generali:
Il praticante di Ṣaḍaṅgayoga
deve essere in grado di far circolare l’energia nei canali e nei plessi che
fanno parte del cosiddetto “corpo sottile”.
Nei testi si parla, in genere di 72.000 canali - nāḍī
- che conducono il soffio vitale - prāṇa – in tutte le parti del
corpo.
I canali più importanti sono sei:
tre sopra la “ruota
dell’ombelico” e tre, che rappresentano delle modificazioni dei tre superiori,
nella zona sotto l’ombelico.
Il primo - chiamato avadhūtī,
khagamukhā, suṣumṇā o taminī (“la tenebrosa”) - parte
dalla fontanella posteriore e scende lungo la colonna vertebrale fino
all’altezza dell’ombelico dove piegandosi a destra, dà luogo ad un altro canale
– considerato una modificazione del canale centrale – chiamato śaṅkhinī, che
svolge la funzione di emissione del seme.
Lungo questo canale centrale
(formato in realtà dal canale mediano superiore e dal canale di destra
inferiore) sono situati sei plessi energetici – cakra – da cui si
diramano altri canali, considerati petali (dala), che raggiungono il
numero totale di 156.
Il
primo cakra – dal basso – è nella zona dei genitali. Secondo la dottrina del Kālacakratantra è di colore azzurro (verde in altri
tradizioni) ed ha 32 petali.
Il secondo è nella zona dell’ombelico, è di colore giallo ed ha 64 petali.
Il terzo è nella zona del cuore, è nero (blu secondo altre tradizioni) ed
ha 8 petali.
Il quarto è nella gola, è rosso ed ha 32 petali (16 secondo altre
tradizioni).
Il quinto è nella zona della fronte, sopra le sopracciglia; è bianco ed ha
16 petali (32 secondo altre tradizioni).
Il sesto è nella parte più alta del cranio (nel
buddhismo uṣṇīṣa o “ciuffo di Buddha”), è verde
ed ha 4 petali.
A sinistra e a destra del canale centrale – nella zona sopra l’ombelico, ci
sono altri due canali, chiamati lalanā - iḍā - e rasanā - piṅgalā che si avvolgono intorno ai cakra. In questi canali associati al Sole – canale di destra – e alla Luna – canale di sinistra – circola il soffio vitale durante l’inspiro e l’espiro.
I tre canali fondamentali - avadhūtī, lalanā e rasanā - al cakra dell’ombelico si intrecciano, formando un nodo, quindi scendono verso il basso cambiando posizione:
Avadhūtī, che in alto si trovava al centro, in basso è posizionato a destra e, con il nome di śaṅkhinī,
svolge la funzione dell’emissione del seme;
Lalanā, che si trovava a
sinistra, si trova adesso al centro e svolge la funzione dell’escrezione
delle feci;
Rasanā, che si trovava a
sinistra, si trova adesso a destra e svolge la funzione di escrezione
dell’urina.
Al di sopra
dell’ombelico il “soffio vitale” che scorre nei tre canali principali viene
definito prāṇa, al di sotto dell’ombelico prende il nome di apāna.
Lo scopo della pratica dello yoga è quello di
arrestare (nirudh-) la circolazione del “soffio vitale” nei canali
laterali – del Sole e della Luna – per convogliarlo nel canale centrale, detto avadhūtī.
Questo processo – l’arresto del soffio nei
canali del Sole e della Luna – viene paragonato alle eclissi, ragion per cui il
canale mediano viene associato al “nodo settentrionale della Luna”, Rāhu – considerato
responsabile, appunto, delle eclissi - e prende il nome di taminī, “la
Tenebrosa”.
Per provocare “l’eclissi di Sole e Luna” lo yogin
pratica il prāṇāyāma, o “controllo del soffio”, variando la direzione,
l’intensità e la durata di tre fasi associate ai tre momenti respiratori,
ovvero:
Pūraka,
kumbhaka
e recaka,
sono simboleggiati dalle sillabe OṂ, ĀḤ e HŪṂ, la cui recitazione, detta vajrajāpa
o “recitazione del diamante” viene identificata con il prāṇāyāma
stesso.
Nella teoria
del kālacakratantra, il soffio vitale è il “veicolo” della mente, per
cui “dal controllo del soffio si ottiene il controllo della mente”.
Dal controllo
della mente a sua volta deriva il controllo del seme definito bindu (in
tibetano thig le).
Il bindu,
definito anche bodhicitta – “pensiero del risveglio” o “mente del
risveglio” – risiede nella parte più alta del cranio, la fontanella posteriore
chiamata nello yoga buddhista, come abbiamo già detto, uṣṇīṣa.
Una volta attivato il desiderio sessuale, il bindu
cola lungo il canale centrale, per arrivare, al glande del pene detto “gemma
del vajra” o vajrāgra.
In questo
percorso discendente penetra in tutti i centri energetici – cakra – assumendo,
in quattro di essi, caratteristiche e nomi diversi:
;- Al cuore
diviene mente/memoria, citta;
- All’ombelico
diviene parola, vac;
- Ai genitali
diviene corpo, kaya.
Jñāna,
citta, vac e kaya vengono
considerati quattro semi – bindu – diversi, che, durante la fase detta
di “concentrazione” o “ritenzione” - dharana – devono essere “fissati”
nei rispettivi cakra.
Lo
“scioglimento” del seme è causato dal “fuoco del desiderio” - kāmāgni - che
giace nell’ombelico sotto forma di una giovane donna di bassa casta - caṇḍālī - chiamata in
tibetano Gtum mo o “Fiera dama”.
Caṇḍālī, rappresentata
talvolta come una giovane vedova seduta sulla riva di un fiume (il canale
mediano) in un certo senso è un energia che viene attivata “per risonanza”
dalla presenza fisica di una yoginī, oppure da un’immagine che ritrae
una donna – da sola o intenta a far l’amore con il partner - o da un immagine
visualizzata[2].
Spesso con il termine Caṇḍālī
si indica anche il canale mediano, “vivificato” dall’energia
femminile pura.
“Caṇḍālī” - si legge
nell’Hevajratantra – “s’infiamma nell’ombelico, e brucia i cinque
Tathāgata, brucia Locan ā ecc. e, bruciatili, la luna, cioè il suono HAṂ,
comincia a fluire”.[3]
Dove per Tathāgata si
intendono i cinque elementi, “Locanā ecc.” sono i cinque sensi e gli
oggetti di percezione, mentre il verbo bruciare deve essere inteso nel senso di
“ridurre ad uno stato di non azione”.
Il seme, disciolto grazie
all'energia del desiderio, come si è detto, comincia a colare lungo il canale
mediano facendo sperimentare al praticante quattro diverse condizioni di
piacere o ānanda, ognuna delle quali è, a sua volta, suddivisa in
quattro gradi definiti “piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere
della mente” e “piacere della conoscenza”:
- Il primo piacere è detto prathamānanda – “godimento
iniziale” - e corrisponde alla discesa del seme dalla fontanella al punto
in mezzo alle sopracciglia;
- Il secondo piacere è detto paramānanda – “sommo
godimento” – e corrisponde alla discesa del seme dal centro della gola a quello
del cuore;
- Il terzo piacere è detto viramānanda o vivindharamaṇānanda
– “godimento dalle molte forme” – e corrisponde alla discesa del seme dall'ombelico
al centro dei genitali;
- Il quarto piacere è detto sahajānanda – “godimento
innato” o “godimento dello stato naturale” - e si sperimenta sul glande al
momento dell’emissione.
Alla fine del processo di discesa
del seme – caratterizzato da rāga inteso qui come “emozione del
desiderio sessuale” - si ha un processo inverso detto virāga – “sazietà”
– in cui il praticante sperimenta a ritroso il percorso precedente – ovvero sahajānanda,
viramānanda, paramānanda, prathamānanda - fino ad arrivare ad uno stato
di totale assenza di desiderio detto naṣṭacandra o “assenza della
Luna” che indica la cosiddetta Luna nera, fase finale della Luna calante.
L’uso del termine naṣṭacandra
ci rivela che il percorso discendente e ascendente del desiderio corrisponde
alle sedici fasi della Luna. Nel percorso discendente infatti:
- Il “primo godimento” - prathamānanda – diviso
in quattro gradi - piacere del corpo”, “piacere della voce”, “piacere della
mente” e “piacere della conoscenza” - coincide con il primo quarto della Luna
crescente;
- Il “secondo godimento” - paramānanda – con i
suoi quattro gradi coincide con il secondo quarto della Luna crescente;
- Il “terzo godimento” - viramānanda – con i
suoi quattro gradi coincide con il terzo grado della luna crescente;
- Il “quarto godimento” - sahajānanda – con i
suoi quattro gradi coincide con l’ultimo grado della Luna crescente.
Con l’orgasmo, ovvero il
plenilunio, ha termine la “quindicina chiara” o “quindicina del desiderio
sessuale” - ovvero il periodo di Luna crescente - ed ha inizio la “quindicina scura” o
“quindicina del non desiderio sessuale” – ovvero periodo di luna calante - che nel
percorso a ritroso, a partire dal plenilunio, passerà tutte le fasi precedenti
fino ad arrivare alla fase della “assenza di Luna” – naṣṭacandra – o
Luna nera, uguale e contraria al plenilunio.
L’insieme del due quindicine
costituisce il Saṃsāra;
Per nirvāṇa con base – prathiṣṭita – si
intende l’orgasmo ordinario;
Per nirvāṇa
senza base – aprathiṣṭita –si intende l’orgasmo della mente conseguente alla
risalita dell’essenza del seme che avviene durante la pratica yogica;
Visto che ciò che viene definito saṃsāra
è il continuo alternarsi dei due periodi – quindicina del desiderio e
quindicina del non desiderio – lo yogin per interrompere questo processo
“naturale” dovrà cercare di eliminare la “quindicina scura” ovvero la fase di
assenza del desiderio sessuale.
Immaginiamo che il desiderio
crescente sia un liquido bianco e il desiderio decrescente un liquido nero.
Se nella fase crescente il
liquido bianco, dapprima in quiete nel punto più alto della testa, scende
sempre più velocemente fino ad uscire dalla punta del pene (plenilunio), nella
fase discendente il liquido nero – l’assenza del desiderio – salirà sempre più
velocemente fino a riempire il punto più alto della testa (Luna nera).
Per invertire il processo
naturale lo yogin dovrà controllare la fuoriuscita dell’essenza del seme – bodhicitta
– e farla risalire lungo il canale centrale in luogo del liquido nero ovvero
della “assenza di desiderio”.
Nel kālacakratantra lo
scioglimento del seme a fine yogici – e non quindi a fini di riproduzione o di
ricerca delpiacere – è definito “yoga del bindu”, mentre la sua risalita
è definita sūkṣmayoga o “yoga sottile”.
La risalita del seme - sūkṣmayoga - avviene
in quattro momenti distinti, vere e proprie operazioni alchemiche che avvengono
nei centri dell’ombelico, del cuore, della gola e, infine, della testa:
1. Niḥsyanda, emanazione (ombelico);
2. Vipāka, maturazione (cuore);
3. Puruṣakāra, attività (gola;
4. Vaimalya, purezza (testa).
Questi quattro momenti sono accompagnati dai “canti
delle dee”, con cui si indicano sia i canti reali eseguiti dalle yoginī che
partecipano ai riti, sia i suoni interiori, di vario genere, percepiti dal
praticante durante lo stato meditativo.
Durante la pratica dello “yoga del bindu” e dello
“yoga sottile” il vajra del praticante deve essere mantenuto
costantemente in erezione grazie alla presenza –fisica o visualizzata - della yoginī.
Questo processo è
descritto chiaramente nei versi del Mūlakālacakratantra un testo oggi
perduto, ma citato in molti commentari del Kālacakratantra[4]:
“Fissato che abbia il vajra nel loto, egli dovrà
applicare il soffio vitale ai bindu, i bindu ai vari centri e [infine]arrestare
il movimento dei bindu nel vajra.”
“Lo yogin dovrà stare sempre in erezione, dovrà avere
il seme rivolto verso l’alto e, grazie all’unione con la mudrā, sarà visitato
[N.d.A. avrà visioni di esseri divini] […] e […] diverrà vajrasattva in
persona”.
L’arrivo del seme al centro della testa coincide con l’interruzione
della circolazione del soffio nei due canali laterali (Sole e Luna) e questo
porterà al progressivo rallentarsi delle fasi respiratorie fino all’ottenimento
di una apnea spontanea. Questa progressiva soppressione degli atti respiratori
- come dice Abhinavagupta nel Tantrāsara – conduce al “divoramento del
tempo” che molti identificano con la realizzazione finale (o comunque con un indizio della realizzazione).
La soppressione di un atto respiratorio durante la
pratica tantrica corrisponde ad un istante di “godimento supremo”. Dopo un
certo numero di questi istanti – 1800 secondo il Kālacakra, permette di
entrare in una serie di terre spirituali dette bhumi –probabilmente da
intendersi come particolari stati di coscienza - che sono da considerarsi
luoghi fisici, disposti, in corrispondenza dei vari cakra. Le terre spirituali
vanno “esplorate” progressivamente, dal cakra dei genitali sino alla
fontanella, ed ogni tappa è scandita da un numero progressivamente più elevato
di sospensioni di atti respiratori e, quindi di istanti di beatitudine.
Alla fine dell’intero percorso,
avverrà una trasformazione completa del corpo fisico, che prenderà il nome di “corpo
di conoscenza”, o Jñānadeha.
I SEI PASSI DELLO ṢAḌAṄGAYOGA
Lo Ṣaḍaṅgayoga, come dice il nome, è formato da sei “membra” o
parti:
1. Pratyāhāra, o “ritrazione”;
2.
Dhyāna, o “meditazione”;
3.
Prāṇāyāma,
o “controllo della respirazione/dei soffi vitali”;
4.
Dhāraṇā, o “ritenzione/fissazione”;
5.
Anusmṛti, o “applicazione mnemonica”;
6.
Samādhi, o “contemplazione”.
Questi sei passi nel kālacakra sono a loro volta organizzati in
quattro diversi momenti:
-
Sevā, o “pratica devota”, che comprende
Pratyāhāra e Dhyāna;
-
Upasādhana, o “realizzazione
inferiore”, che comprende Prāṇāyāma
e Dhāraṇā;
-
Sādhana, inteso come “realizzazione”, che corrisponde all’Anusmṛti;
-
Mahāsādhana, o “grande realizzazione”, che coincide con il Samādhi.
Il primo passo, Pratyāhāra, consiste nell’isolarsi dalla realtà circostante portando l’attenzione
sul vuoto. Dal vuoto emergono dieci segni:
1.
Visione del fumo;
2.
Visione di un miraggio (definito
come “visione di acqua in movimento”):
3.
Una luce simile a quella
emessa da una lucciola;
4.
Una luce simile a quella
emessa da una lampada;
5.
Una fiamma;
6.
La Luna;
7.
Il Sole;
8.
Un disco nero
(visualizzazione di Rāhu, nodo lunare settentrionale/canale mediano);
9.
Un lampo;
10.
Un disco azzurro (visualizzazione
del bindu).
Dopo il manifestarsi del
decimo segno appare, secondo il kālacakra, un’immagine “immateriale e
ineffabile”[5]
definita “forma del Buddha”, “forma dei Buddha” o “corpo di fruizione del
Buddha”, che contiene “tutti i tempi e tutte le cose”.
Il
secondo passo dello Ṣaḍaṅgayoga è la meditazione, Dhyāna durante la quale il praticante
deve “consolidare” l’immagine apparsa dopo la manifestazione dei dieci segni.
Più propriamente bisognerebbe
parlare di meditazione dell’immagine o bimbabhāvanā, che nel kālacakra viene divisa in due fasi: antecedente (o preliminare) e finale (o
susseguente).
La “meditazione dell’immagine preliminare”,
consiste nell’insorgere dell’immagine dopo la realizzazione dei dieci segni
(fumo, miraggio, lucciola ecc.). Si legge a questo proposito nella Laghutantraṭīka
di Vajrapāṇi[6]:
“Vista l’immagine e posto [il
pene] nella vulva, si ha la meditazione susseguente, allo scopo di accrescere
il supremo immoto piacere. Quindi ancora, dopo aver abbandonato la mudrā
dell’azione e della conoscenza, lo yogin deve realizzare meditando la grande
mudrā allo scopo di accrescere il grande piacere”.
Il secondo “passo”, dhyāna, è articolato in cinque diversi momenti:
1.
Vitarka, ovvero “esame”;
2.
Vicāra, ovvero “analisi”;
3.
Prīti, ovvero “gioia”;
4.
Sukha, ovvero “piacere”;
5.
Cittaikagratā, ovvero
“concentrazione della mente in un punto”.
Nel primo momento – vitarka - si ha una visione
“descrittiva”, in senso lato “razionale” della realtà (dell’immagine realizzata
dopo i dieci segni).
Nel secondo momento - vicāra - si ha una visione d’insieme o
meglio “intuitiva” della realtà (dell’im-magine realizzata dopo i dieci segni).
Nel terzo momento - prīti – il praticante si trova immerso in uno stato di pace e tranquillità
mentale che lo conduce alla gioia.
Dalla
gioia scaturisce la completa distensione del corpo che si accompagna aduna
condizione di piacere diffuso definita sukha (quarto momento).
Nel
quinto momento - cittaikagratā - il praticante è
completamente immerso nello stato definito prajña, o saggezza.
Il
terzo passo - prāṇāyāma-è il controllo del respiro e dei soffi
vitali intesi come veicolo della mente.e il suo scopo è quello di interrompere
la circolazione delle energie nei due canali laterali (rasanā a destra
e lalanā a sinistra) per immetterle nel canale di centro (Avadhūtī).
Il quarto passo - dhāraṇā
- consiste nella concentrazione – o fissazione – del soffio vitale nella parte
più alta delle testa - nel luogo del bindu - conseguente all’arresto della circolazione
delle energie nei due canali laterali (arresto realizzato grazie alla pratica
del prāṇāyāma.
Tramite l’eccitazione sessuale
l’energia definita caṇḍālī sale lungo il canale centrale e
discioglie il seme (bindu).
Il seme, come si è visto, è legato a quattro diversi tipi di piacere e
durante la pratica di dhāraṇā viene fissato nei diversi cakra:
-
Il cosiddetto “bindu corporeo” - Kāyabindu
–viene fissato al cakra dei genitali;
-
Il “bindu della voce” al cakra dell’ombelico;
-
Il “bindu della mente” al cakra del cuore;
-
Il “bindu della conoscenza” al cakra della gola.
Il quinto passo – anusmṛti - lo possiamo definire “meditazione
susseguente” o “meditazione finale”. La risalita della caṇḍālī si
accompagna alla di nuovo alla manifestazione dei dieci segni – “fumo, miraggio,
lucciola, lampada, fiamma, Luna, Sole, disco nero, lampo e disco azzurro”
- dopo i quali appare la
“divinità desiderata” – Heruka, Hevajra, Kālacakra ecc. – accompagnata
da una luce diffusa.
La caṇḍālī - con cui si
intende sia la yoginī che partecipa al rito, sia la sua immagine
visualizzata, sia l’energia dell’eccitazione sia il canale in cui scorre –
viene quindi identificata con la “grande mudrā” e viene divinizzata,
nel senso che si trasforma nell’incarnazione fisica delle energie che
assumono i nomi delle varie dee. Lo yogin colto da un potentissimo desiderio
fisico, passa quindi attraverso dieci stati emotivi – messi in relazione con i
dieci segni – detti dieci stati di Kāma:
1. Pensiero fisso (fumo);
2. Desiderio (miraggio
dell’acqua in movimento);
3. Febbre (lucciola);
4. Pallore del volto
(lampada);
5. Inappetenza (fiamma);
6. Tremore (Luna);
7. Follia(Sole);
8. Vertigine (disco
nero);
9. Confusione mentale
(lampo);
10.
Insensibilità (disco azzurro).
Il desiderio si trasforma in azione sfociando nel rapporto
sessuale – fisico o visualizzato – e provoca la discesa del seme la cui essenza,
attraverso il canale mediano, risale verso la testa anziché essere disperso
all’esterno.
Il sesto passo - samādhi – è caratterizzato
dallo stato di beatitudine permanente o “piacere onnipervadente” - ānanda
– ed è definibile come condizione del “due in uno”.
Si realizza in altre
parole l’identità tra yogin e yoginī, tra essere umano e divinità, tra
interno ed esterno.
[1]
Vedi: Raniero Gnoli, Giacomella Orofini, Testo citato, pag.68-
[2] È bene a proposito fare delle precisazioni:
-
Nei testi tantrici non
si fa menzione di tecniche analoga per attivare caṇḍālī
nelle donne, ma si accenna a tecniche di autoerotismo e a “danze
serpentine” che insorgono spontaneamente (Vedi.
Drimé
Kunga,“The Life and Visions of Yeshé
Tsogyal: The Autobiography of the Wisdom Queen”, Snow Lion Publisher
(2017). ISBN- 10 1611804345) il che,
secondo noi, significa che per le concezioni tantriche la yoginī ha in
sé una capacità di attivare naturalmente e di utilizzare le energie del
desiderio.
-
L’uso del termine del caṇḍālī - che
indica propriamente una donna appartenente alle caste più basse -viene
di solito spiegato con la necessità del tantrico di andare oltre i principi del
bene e del male, del puro e dell’impuro ecc. L’appartenenza delle più
importanti maestre tantriche – come Yeshe Tsogyal, Ma gcig Lab sgron e Nigumā
- alle classi abbienti e il loro essere donne di altissima preparazione
culturale lascia intravedere nell’uso termine caṇḍālī, più che
l’indicazione di una determinata provenienza sociale, la capacità di
abbandonarsi ad istinti, tra virgolette, “bassi” e di compiere azioni e
assumere posizioni che, allora come oggi, in certi ambiti vendono considerate
“squalificanti”.
[3] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero
Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 71. Biblioteca Orientale 1. Adelphi
1994).
[4] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero
Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 75. Biblioteca Orientale 1. Adelphi
1994).
[5] Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero
Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 95. Biblioteca Orientale 1. Adelphi
1994).
[6]
Vedi: Cicuzza, C. (1994), La Laghutantraṭīkā di Vajrapāṇi, tesi di
laurea, Università La Sapienza di Roma.
Bellissimo
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