Vinyāsa (in sanscrito विन्यास) è un termine
assai popolare nelle nostre scuole di yoga. Di solito viene tradotto con “sequenza”
o con stile degli “āsana in movimento”, e viene contrapposto allo Haṭḥayoga che sarebbe lo “yoga degli āsana immobili”, ma sono
definizioni – completamente o in parte – inesatte.
Tecnicamente, nello yoga odierno,
la parola vinyāsa indica sia i movimenti di transizione compiuti da uno
yogin per passare da una posizione all’altra sia l’insieme di posizioni e passaggi
eseguiti praticando una sequenza di āsana, ma se si tiene conto della
tradizione artistica e filosofica indiana vedremo, che si tratta di qualcosa di
molto più profondo e complesso.
In epoca moderna il primo a
descrivere i vinyāsa e ad inserirli in un sistema di
insegnamento fu Krishnamacharya, che nei suoi libri “Yoga Marakanda”
(1934)[1] e, soprattutto “Yogasanagalu”
(1941)[2]
descrive un certo numero di posizioni e di sequenze. Si tratta di testi assai
interessanti che rivelano come l’insegnamento originario fosse decisamente
diverso da ciò che comunemente si crede.
Innanzitutto non è scritto da
nessuna parte che le sequenze proposte da Krishnamacharya fossero antiche, in
secondo luogo, è chiaro che si tratta di un “work in progress”, nel senso che
le sequenze vanno adattate agli allievi tenendo conto della loro “ages,
constitutions (deha), vocations (vrttibheda), capabilities (sakti), and paths (marga)"[3].
In altre parole non
esistono “sequenze fisse” come nello yoga di Pattabhi Jois.
Krishnamacharya,
secondo Norman Sjoman[4] improvvisava la pratica ogni volta e mai avrebbe parlato di “sequenze
tradizionali” o “ereditate” da maestri e lignaggi antichi.
Agli allievi che non erano in
grado di “improvvisare” proponeva delle sequenze personalizzate “in accordo con
le loro età, costituzione fisica, qualificazione, capacità e cammino spirituale”.
Quindi vinyāsa sarebbe,
in origine un qualcosa di simile alle improvvisazioni di un danzatore crea una
coreografia?
“My guru believed that the correct
vinyasa method is essential in order to receive the full benefits from yoga
practice:
From time
immemorial the Vedic syllables…are chanted with the correct (high, low, and
level) notes. Likewise, sruti (pitch) and laya (rhythm) govern Indian classical
music. Classical Sanskrit poetry follows strict rules of chandas (meter), yati
(caesura), and prasa (assemblage). Further, in mantra worship, nyasas (usually
the assignment of different parts of the body to various deities, with mantras
and gestures)—such as Kala nyasa, Matruka nyasa, Tatwa nyasa—are integral
parts. Likewise yogasana (yogic poses), pranayama (yogic breathing exercises),
and mudras (seals, locks, gestures) have been practiced with vinyasas from time
immemorial. "However, these days, in many places, many great souls who
teach yoga do so without the vinyasas. They merely stretch or contract the
limbs and proclaim that they are practicing yoga…"
Krishnamacharya legava concettualmente
il vinyāsa alla musica, alla poesia e alla pratica tantrica chiamata nyāsa,
che consiste nel toccare determinate parti del corpo visualizzando
delle divinità, delle sillabe e dei processi fisiologici.
Ma nyāsa – grammaticalmente
legato a vinyāsa ha anche un significato tecnico nella musica indiana[6]: indica le ventuno
diverse maniere di terminare un canto o una frase musicale, ovvero indica le
note o le pause che attribuiscono un determinato “sapore” - rasa – ad una
jāti, una melodia.
Vinyāsa quindi sarebbe
“un canto” le cui note “caratterizzanti” – quelle che danno “sapore” alla
melodia” sono gli āsana fondamentali.
Il numero di āsana fondamentali
è variabile: krishnamacharya considera ogni posizione una sequenza, e
chiama vinyāsa sia le fasi che conducono alla posizione di base sia quelle
necessarie per tornare alla posizione di partenza o per assumere un’altra posizione.
"This [N.d.A. Sarvangāsana –
la “posizione della candela”] has 12 vinyasas [stages]. The 8th vinyasa is
the asana sthiti [the actual pose]."
Si tratta di un brano molto
interessante: Secondo krishnamacharya la posizione della candela, è composta da
dodici vinyāsa, l’ottavo dei quali è Āsana sthiti.
Questo significa che,
facendo il paragone con la musica indiana che si tratta di una melodia composta
da dodici frasi musicali, l’ottava delle quali è una pausa – Āsana sthiti
– che dà il “sapore” - rasa- all'intero componimento.
Āsana sthiti - che i non praticanti
traducono con “stabilità” o “perseveranza” della posizione, nel gergo yogico è una
tecnica operativa che consiste nell'utilizzare la spontanea
ritenzione del respiro – kumbhaka – per muovere nel corpo
determinate energie fisiche - vāyu – tramite una serie di contrazioni
dei muscoli sottili – bandha.
Occorre chiarire il senso di ritenzione spontanea:
Nello yoga esistono due kumbhaka: uno esterno - bāhya kumbhaka –
che si fa corrispondere all'apnea bassa, ovvero a polmoni vuoti, ed
uno interno – antar kumbhaka –
che si fa corrispondere all'apnea alta, a polmoni pieni, ma in alcune
scuole, negli insegnamenti orali, antar kumbhaka è una sospensione
del respiro che si attiva spontaneamente:
1.
Dopo la pratica dei mantra:
2.
Durante la meditazione;
3.
Durante la pratica corretta di un āsana;
4.
Durante la corretta pratica del prāṇāyāma.
Il brano di Krishnamacharya evidenzia come la corretta
esecuzione di una posizione yoga o di una sequenza debba prevedere l’esecuzione
dell’āsana sthiti, ovvero dell’attivazione/utilizzazione di
particolari fluidi ed energie fisiche mediante contrazioni di particolari
muscoli sottili - come mūlabhanda o aśvinī mudrā – in una fase di
ritenzione del respiro.
Āsana sthiti è la nota – o la pausa - fondamentale, ovvero la fase culminante
di una posizione ed una sequenza - vinyāsa – deve essere
scandita da una o più fasi di ritenzione del respiro – anthar kumbhaka –
e pratica di bandha.
Queste fasi, inserite in una “danza” - i cui passi
sono a loro volta dei vinyāsa – le conferiranno un ritmo, una “musicalità”
ed un “rasa” particolari, caratteristici.
Questo significa che, almeno per Krishnamacharya, un āsana “bloccato”,
assunto con fatica o carente e non armonioso nella fase di “uscita” è sintomo
di una pratica errata.
Al tempo stesso non si deve pensare che per eseguire una
sequenza di yoga sia sufficiente passare morbidamente da una posizione all’altra,
seguendo l’ispirazione del momento.
Un vero vinyāsa - come un vero “raga”, una vera coreografia
di Bharatanatyam o un vero “vadivukal” di kalaripyattu - deve essere
espressione del ritmo universale – Ṛta –
ovvero seguire, e al tempo stesso rappresentare, le leggi che regolano il vario
dispiegarsi delle energie sia nell’universo - macro-cosmo – sia nel corpo umano–microcosmo-
sia nella vita quotidiana.
Lo
Yoga è un’Arte, l’Arte di danzare la vita.
Forse
è questo ciò che voleva trasmetterci Krishnamacharya….
[2] Mark Singleton, (2010). Yoga Body:
the origins of modern posture practice. Pag. 184. Oxford University Press. ISBN 978-0-19-539534-1.
[3]
Mark Singleton, opera citata pag.
188.
[4] Norman E. Sjoman,. The Yoga
Tradition of the Mysore Palace (2nd ed.). Abhinav Publications. (1999). ISBN 81-7017-389-2.
[5] Srivasta, Ramaswami
“The Complete Book of Vinyasa Yoga” Marlowe & Company, New York. (2005)
[6]
Vedi Nātyaśāstra 28, 99 e 100.
[7] Tirumulai Krishnamacharya. Yoga Makaranda. Translated by Lakshmi Ranganathan; Nandini Ranganathan. Krishnamacharya, Pag.146. (2006) [1934]
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