Tratto da "TANTRA LA VIA DEL SESSO" - Ed. Aldenia, Firenze 2015 - Parte I Cap. I.
Tra le sessantaquattro posizioni del Kāmasūtra così come ci sono proposte dalle riviste femminili o dai siti soft porno, ce n’è una chiamata ’āsana di Indrāṇī”. La donna, sdraiata sulla schiena, porta le gambe al petto, poggia i piedi sul torace dell’amante e gli afferra i glutei così da gestire, a suo piacimento, il ritmo e la profondità della penetrazione. È lei, la donna, a condurre la danza: l’uomo, inginocchiato come un devoto di fronte ad un’immagine sacra, non può far altro che assecondarla. L’Indrāṇī che dà nome alla posizione non è una donna qualsiasi, è una dea, anzi, è la Regina degli Dei. Le sue abilità amatorie sono proverbiali, così come il temperamento focoso e il linguaggio non proprio da educanda:
-“Il cazzo dell’impotente ciondola tra le cosce”- ricorda al marito, Indra, colpevole di trascurare il talamo nuziale per andare in giro a salvare il mondo. –“Il cazzo del potente [invece] si gonfia [ e allora] la mia fica pelosa si apre e si mette a lavorare per lui[...]”Una tipetta interessante Indrāṇī, ma ancora più interessante è il fatto che le sue parole siano state tramandate da uno dei libri più sacri della tradizione indiana: il Ṛgveda o “Libro degli Inni”. Per millenni brahmini ispirati e maestri barbuti hanno recitato questi versi-“[…]la mia fica pelosa si apre e lavora per lui”- davanti a folle di devoti ispirati, senza che nessuno lo trovasse strano, blasfemo o irriverente. I casi sono due: o non capivano il sanscrito o avevano un’idea del sesso, della religione e della donna completamente diversa dalla nostra. Quelli in cui Indrāṇī ricorda al suo sposo l’inutilità di un pene non eretto, sono i versi 16 e 17 di Ṛgveda X, 86. Un anno fa li ho trovati citati nella nota a piè di pagina di un articolo che parlava di Indrāṇī (una roba tipo “cfr. Ṛgveda X, 86, 16-17”). Per curiosità ho fatto una ricerca su Google e non sono riuscito a trovare uno straccio di traduzione, né in italiano, né in inglese. La cosa, per chi s’intende un pochino di filosofia, non solo orientale, suona parecchio strana: nelle scuole, nelle conferenze, nei forum di yoga si parla continuamente di “inni vedici”, “poeti vedici”, “radici vediche della conoscenza”…, e si racconta che i quattro libroni indiani sono arrivati a noi inalterati, inizialmente attraverso la tradizione orale e poi con le prime copie scritte su stoffa e foglie di banano. Che fine hanno fatto le parole della regina degli Dei?(1) Finalmente, dopo due settimane di ricerche, grazie ad un amico docente universitario, ho recuperato una traduzione attendibile dei due versi in una pubblicazione della Oxford University Press: “VATSYAYANA: KĀMA SŪTRA - a new translation, by Wendy Doniger and Sudhir Kakar”. Non so se è chiaro, in due settimane ho trovato una sola traduzione attendibile. Una!In molti casi i versi sono stati semplicemente eliminati (cfr. ad esempio la versione pubblicata sul sito internet “INTRATEX DIGITAL LIBRARY”(2) in cui si passa direttamente da X, 86, 15 a X, 86, 18), In altri si utilizzano giri di parole così cervellotici da rendere il brano incomprensibile. Anche se pare incredibile, hanno eliminato da internet, e in molte pubblicazioni in cartaceo, il turpiloquio di Indrāṇī. Ma chi è stato? Possibile che qualcuno, nel XXI secolo, abbia interesse a far tacere una donna di cinquemila anni fa che parla di peni e di vagine? La verità è che spesso, per pigrizia, furbizia, o per il fascino intellettuale esercitato da precedenti ricercatori, molti divulgatori moderni di yoga e filosofia indiana, quando lavorano su un testo antico, non si affidano alle fonti originali, in sanscrito, ma preferiscono prendere una traduzione pre-esistente, di solito in inglese, e farla loro. Cercano dei sinonimi, cambiano l’ordine di qualche parola, aggiungono qualche perifrasi a effetto e presentano una loro “nuova versione a cura di…”. Nel caso dei Veda si continua, ancora oggi, a far riferimento alle prime storiche traduzioni di Friedrich Max Müller(3), uno dei massimi esponenti del pensiero vittoriano, e Ralph Thomas Hotchkin Griffith(4), un professore di sanscrito figlio di un pastore anglicano. I due, di fronte alle affermazioni troppo esplicite della sposa di Indra e di altri personaggi dei Veda, per non offendere il comune senso del pudore dell’epoca e non entrare in conflitto con le autorità politiche ed ecclesiastiche, decisero di tagliare i versi giudicati troppo piccanti(5) e di modificarne altri. C’è da capirli, nell’Inghilterra di quegli anni erano in vigore gli “Obscene Publications Acts” del Barone Coleridge, una serie di leggi che proibivano la pubblicazione di testi e immagini erotiche. Se Max Müller e Griffith avessero tradotto fedelmente le parole di Indrāṇī, sarebbero finiti in galera e le loro opere non sarebbero mai arrivate fino a noi. Il risultato è che i Veda che leggiamo oggi non sono quelli degli antichi yogin, ma sono opera di due brillanti studiosi dell’ottocento che, per ragioni di convenienza hanno trasformato, tagliato e ricucito i versi originali rendendone difficile, se non impossibile, la piena comprensione.
Note:
1 In realtà la versione originale e in sanscrito traslitterato, la si può trovare su diversi siti internet di cultura indiana: न सेशे यस्य रम्बते.अन्तरा सक्थ्या कपृत् सेदीशेयस्य रोमशं निषेदुषो विजृम्भते विश्वस्मादिन्द्रौत्तरः na seśe yasya rambate antarā sakthyā kapṛt sedīśeyasya romaśaṃ niṣeduṣo vijṛmbhate viśvasmādindrauttaraḥ न सेशे यस्य रोमशं निषेदुषो विजृम्भते सेदीशेयस्य रम्बते.अन्तरा सक्थ्या कपृद् विश्वस्मादिन्द्रौत्तरः na seśe yasya romaśaṃ niṣeduṣo vijṛmbhate sedīśeyasya rambate antarā sakthyā kapṛd viśvasmādindrauttaraḥ
2 http://www.intratext.com/ixt/ENG0039/_PPN.HTM
3 Friedrich Max Müller, ( 1823 – 1900), filosofo, filologo,storico delle religioni, linguista e orientalista tedesco. è il fondatore della disciplina della religione comparata. Professore di filologia comparata all’Università di Oxford. La sua opera più famosa è Sacred Books of the East, una raccolta in 50 volumi di traduzioni in inglese di testi sacri orientali.
4 Ralph Thomas Hotchkin Griffith (1826–1906), docente di sanscrito al Queen’s College, tradusse inglese il Ramāyāna, il Kumara Sambhava di Kalidasa e i Veda. La sua traduzione del Ṛgveda, con i versi censurati, è tratta integralmente dal sesto volume dell’opera di Max Müller Sacred Books of the East.
5 Cfr. www.intranet dove dal verso X, 86, 15 del Ṛgveda, si passa direttamente al verso X, 86, 18
Commenti
Posta un commento